4. IL LEOPARDO



Le armi e gli utensili che secondo il programma dovevano impiegare erano abbastanza semplici, e ciò nonostante avrebbero potuto cambiare il mondo e fare degli uominiscimmia i suoi padroni. L’arma più primitiva era il sasso tenuto nella mano, che moltiplicava di parecchie volte la potenza di un colpo. Veniva poi la clava d’osso, che consentiva di colpire più da lontano e poteva servire da difesa contro le zanne o gli artigli di animali famelici.

Ma occorrevano loro altri mezzi, poiché i denti e le unghie non potevano smembrare rapidamente niente di più grosso di un coniglio selvatico. Fortunatamente, la natura aveva fornito loro gli utensili perfetti, che richiedevano soltanto l’astuzia di raccattarli.

Anzitutto v’era un rozzo, ma effìcientissimo coltello, o sega, di un modello che avrebbe risposto bene allo scopo per i successivi tre milioni di anni. Si trattava semplicemente della mascella inferiore di un’antilope, con i denti ancora al loro posto; non vi sarebbero stati perfezionamenti sostanziali fino alla scoperta del ferro. V’era poi un punteruolo, o un pugnale, sotto forma di un corno di gazzella, e infine un attrezzo per raschiare, ricavato dalla mascella completa, o quasi completa, di ogni piccolo animale.

La clava, la sega fatta di denti, il pugnale ricavato da un corno, il raschietto d’osso… queste erano le invenzioni meravigliose che occorrevano agli uominiscimmia per sopravvivere. Ben presto avrebbero riconosciuto in esse quei simboli del potere che rappresentavano, ma molti mesi dovevano trascorrere prima che le loro goffe dita avessero acquisito la capacità, o la volontà, di servirsene.

Forse, col tempo, sarebbero potuti pervenire di loro iniziativa al grandioso e brillante concetto di adoperare armi naturali come attrezzi artificiali. Ma le probabilità erano tutte contro di loro, e anche adesso rimanevano innumerevoli possibilità di insuccesso nelle epoche a venire.

Agli uominiscimmia era stata offerta la loro prima occasione. Non ve ne sarebbe stata una seconda; ora avevano in pugno, letteralmente, il proprio avvenire.

* * *

Le lune continuarono a crescere e a calare; piccoli vennero al mondo e talora vissero; vecchi di trent’anni, deboli e sdentati, morirono; il leopardo imponeva il proprio pedaggio la notte; gli Altri lanciavano minacce ogni giorno dalla riva opposta del torrente… e la tribù prosperava.

Nel corso di un solo anno, GuardalaLuna e i suoi compagni erano cambiati in modo quasi irriconoscibile.

Avevano imparato bene la lezione; ora riuscivano a maneggiare tutti gli strumenti ch’erano stati loro rivelati. Il ricordo stesso della fame andava dileguandosi dalla loro mente; e sebbene i facoceri stessero diventando diffidenti, esistevano gazzelle e antilopi e zebre a innumerevoli migliaia sulle pianure. Tutti questi animali e altri erano caduti preda degli apprendisti cacciatori.

Adesso che non erano più quasi storditi dall’inedia, gli uominiscimmia avevano tempo sia per i piaceri, sia per i primi rudimenti del pensiero. Il loro nuovo sistema di vita veniva ormai accettato con noncuranza, ed essi non lo collegavano in alcun modo con il monolito ancora ritto accanto alla pista che conduceva al torrente. Se per caso si fossero soffermati a considerare la situazione, avrebbero forse potuto vantarsi di essere riusciti a migliorare la loro situazione con i propri sforzi: in realtà, avevano già dimenticato ogni altro modo di vivere.

Ma nessuna utopia è perfetta, e questa presentava due inconvenienti. Il primo consisteva nel leopardo razziatore, la cui passione per gli uominiscimmia sembrava essere divenuta ancor più irresistibile adesso che erano meglio nutriti. Il secondo consisteva nella tribù all’altro lato del torrente; gli Altri, infatti, erano riusciti in qualche modo a sopravvivere, rifiutandosi caparbiamente di morire di fame. Il problema del leopardo venne risolto in parte dal caso, in parte in seguito a un errore grave, quasi fatale, anzi, di GuardalaLuna. Eppure, sul momento la sua idea era sembrata così brillante da indurlo a danzare di gioia, e forse difficilmente si sarebbe potuto rimproverarlo per aver ignorato le conseguenze.

Alla tribù toccavano ancora di quando in quando giornate sfavorevoli, sebbene esse non ne minacciassero più la sopravvivenza stessa. Un giorno, verso il crepuscolo, essa non era riuscita a uccidere alcuna preda; si scorgevano già le caverne, mentre GuardalaLuna guidava gli stanchi e malcontenti compagni verso i rifugi. E là, quasi sulla soglia delle caverne, trovarono uno dei rari e preziosi doni della natura.

Un’antilope adulta giaceva sulla pista. Aveva una zampa, anteriore fratturata, ma le rimaneva ancora abbastanza spirito combattivo e gli sciacalli che l’accerchiavano si tenevano a rispettosa distanza dalle sue corna simili a pugnali. Potevano permettersi di aspettare; sapevano che il momento opportuno sarebbe giunto.

Ma si erano dimenticati di avere dei concorrenti, e indietreggiarono con ringhi irosi quando gli uominiscimmia arrivarono. Anche questi ultimi circondarono con circospezione l’antilope, tenendosi di là dalla portata di quelle corna pericolose; poi andarono all’attacco con clave e sassi.

Non fu un attacco molto efficiente e coordinato. Prima che la povera bestia fosse liberata dalla morte, la luce era quasi scomparsa… e gli sciacalli stavano ritrovando il coraggio. GuardalaLuna, combattuto fra la paura e la fame, si rese conto a poco a poco che tutte quelle fatiche sarebbero potute essere vane. Era troppo pericoloso trattenersi lì ancora a lungo.

Poi, non per la prima o l’ultima volta, dimostrò di essere un genio. Con uno sforzo immenso dell’immaginazione, si raffigurò l’antilope morta… nella sicurezza della sua caverna. Incominciò a trascinarla verso il dirupo della collina; di lì a non molto gli altri capirono le sue intenzioni e presero ad aiutarlo.

Se avesse saputo quanto sarebbe stata difficile l’impresa, non l’avrebbe mai tentata. Soltanto la sua grande forza e l’agilità ereditata dagli antenati arboricoli gli consentirono di trasportare la carcassa su per il ripido versante. Più volte, in lacrime per la frustrazione, quasi abbandonò la preda, ma una cocciutaggine profondamente radicata quanto la fame continuò a sostenerlo. A volte gli altri lo aiutavano, a volte lo ostacolavano; quasi sempre lo intralciavano. Ma infine l’impresa riuscì; la malconcia antilope venne trascinata oltre l’imboccatura della caverna, mentre gli ultimi bagliori rossi del tramonto dileguavano dall’orizzonte; e il banchetto cominciò.

Alcune ore dopo, ingozzato fino alla sazietà, GuardalaLuna si destò. Senza sapere perché, si drizzò a sedere nelle tenebre, tra i corpi proni dei suoi compagni altrettanto sazi, e tese le orecchie verso la notte.

Non si udiva alcun suono tranne i respiri grevi intorno a lui; il mondo intero sembrava addormentato. Le rocce oltre l’imboccatura della caverna splendevano bianche come ossa calcinate nella luce vivida della luna, in quel momento molto alta nel cielo. Ogni pensiero di pericolo sembrava infinitamente remoto.

Poi, da molto lontano, giunse il suono di un ciottolo che rotolava. Timoroso, ma al contempo incuriosito, GuardalaLuna strisciò fuori, sulla sporgenza rocciosa davanti alla caverna, e scrutò, in basso, la parete del dirupo.

Quello che vide lo lasciò talmente paralizzato dal terrore che per lunghi secondi non riuscì a muoversi. Sei metri appena più in basso, due splendenti occhi gialli lo stavano fissando; lo ipnotizzarono a tal punto con la paura, che quasi non vide il corpo flessibile e striato dietro di essi scivolare vellutato e silenzioso di roccia in roccia. Mai, prima di allora, il leopardo era salito così in alto. Aveva ignorato questa volta le caverne più in basso, pur sapendo benissimo dei loro abitatori. Ora cercava altra preda; stava seguendo la traccia del sangue su per il dirupo inondato di luce lunare.

Alcuni secondi dopo, la notte fu resa orrenda dagli strilli di allarme degli uominiscimmia nella sovrastante caverna. Il leopardo ebbe un ringhio infuriato, mentre si rendeva conto di non poter più contare sul fattore sorpresa. Ma non per questo smise di avanzare, in quanto sapeva di non aver nulla da temere.

Giunse sulla sporgenza rocciosa e riposò un momento nell’angusto spazio aperto. L’odore del sangue aleggiava tutto attorno, colmando il suo cervello piccolo e feroce di un unico travolgente desiderio. Senza esitare entrò a passi vellutati nella caverna.

E là commise il suo primo sbaglio, poiché, mentre si lasciava alle spalle il chiaro di luna, anche i suoi occhi superbamente adattati alla notte vennero a trovarsi in momentaneo svantaggio.

Gli uominiscimmia riuscirono a scorgerlo, profilato in parte contro l’imboccatura della caverna, più chiaramente di quanto esso potesse vedere loro. Erano atterriti, ma non più del tutto indifesi.

Ringhiando e sferzando la coda con arrogante fiducia, il leopardo avanzò in cerca del tenero cibo che bramava. Se avesse incontrato la preda all’aperto, non vi sarebbero state difficoltà; ma ora che gli uominiscimmia erano intrappolati, la disperazione aveva dato loro il coraggio di tentare l’impossibile. E, per la prima volta, disponevano dei mezzi con cui riuscirvi.

Il leopardo si accorse che accadeva qualcosa di insolito quando sentì sul cranio un urto così forte da sentirsi stordito. Colpì fulmineo con una delle zampe anteriori e udì un urlo di sofferenza, mentre i suoi artigli laceravano soffice carne. Poi sentì un dolore lancinante, mentre qualcosa di affilato gli penetrava nei fianchi… una volta, due, e una terza volta ancora. Piroettò per colpire le ombre che strillavano e danzavano da ogni lato.

Di nuovo vi fu un colpo violento, mentre qualcosa gli veniva vibrato sul muso. Fece scattare le zanne su una confusa chiazza bianca in movimento… ma soltanto per sentirle raschiare su un osso nudo e inutile.

E ora, ultima e incredibile indegnità, si sentì tirare la coda dalle radici.

Girò su se stesso, scaraventando contro le pareti della caverna i suoi aguzzini follemente audaci. Ma, qualunque cosa facesse, non riusciva a sottrarsi alla gragnola di colpi inflittigli con rozze armi impugnate da mani goffe eppur potenti.

E poi commise il secondo sbaglio, perché, nello stupore e nella paura, aveva dimenticato dove si trovava. O forse era stato stordito o accecato dai colpi che gli piovevano sulla testa; comunque stessero le cose, balzò bruscamente fuori dalla caverna. Si udì un urlo orribile mentre precipitava, girando su se stesso, nel vuoto. Secoli dopo, parve, si udì un tonfo mentre piombava su un affioramento di rocce a metà del dirupo; in seguito, il solo rumore fu un franare di pietre smosse, che si spense nella notte.

Per molto tempo, inebriato dalla vittoria, GuardalaLuna rimase in piedi a danzare, emettendo grida inintelligibili, all’imboccatura della caverna. Intuiva giustamente che tutto il suo mondo era mutato e che egli non era più una vittima impotente delle forze circostanti.

Poi rientrò nella caverna e, per la prima volta in vita sua, ebbe una notte di sonno ininterrotto.

* * *

Al mattino, trovarono la carcassa del leopardo ai piedi del dirupo. Anche nella morte, trascorse qualche tempo prima che uno di loro osasse avvicinare il mostro sconfitto, ma, di lì a non molto, lo circondarono, con i loro coltelli e le loro seghe d’osso. Fu un lavoro molto faticoso, e quel giorno non cacciarono.

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