La siccità si protraeva ormai da dieci milioni di anni, e il regno delle terribili lucertole era finito da molto tempo. Lì, sull’Equatore, nel continente che un giorno sarebbe stato chiamato Africa, la lotta per la vita aveva raggiunto un nuovo diapason di ferocia, e il vincitore ancora non si intravedeva. In quella terra sterile e arida soltanto le creature piccole o fulminee o feroci potevano prosperare, o appena sperare di sopravvivere.
Gli uominiscimmia del veldt non possedevano alcuna di queste caratteristiche e non stavano prosperando; si trovavano anzi già molto avanti sulla via dell’estinzione della razza. Una cinquantina di loro occupava un gruppo di caverne che dominavano una valletta riarsa, percorsa da un pigro torrente alimentato dalle nevi delle montagne trecentoventi chilometri più a nord. Nei tempi cattivi il torrente svaniva del tutto, e la tribù viveva all’ombra della sete.
Erano sempre affamati, gli uominiscimmia, e ora stavano morendo di fame. Quando il primo tenue chiarore dell’alba si insinuò nella caverna, GuardalaLuna vide che suo padre era morto durante la notte. Ignorava che il Vecchio fosse suo padre, poiché un simile rapporto di parentela era completamente al di là dalle sue capacità di comprensione, ma, mentre contemplava il corpo emaciato, provò un’inquietudine vaga, l’antenata della tristezza.
I due piccoli già uggiolavano chiedendo cibo, ma tacquero quando GuardalaLuna ringhiò contro di loro. Una delle madri, per difendere il poppante che non riusciva ad allattare a sufficienza, ringhiò a sua volta irosamente; a lui mancò la forza anche soltanto di percuoterla per la sua presunzione.
Ormai faceva abbastanza chiaro per andarsene. GuardalaLuna sollevò il cadavere avvizzito e lo trascinò dietro di sé, mentre si chinava sotto la bassa volta della caverna. Una volta fuori, si caricò il corpo sulle spalle e assunse una posizione eretta… l’unico animale in quel mondo che ne fosse capace.
Tra le creature della sua razza, GuardalaLuna era quasi un gigante, alto forse un metro e mezzo, e, sebbene assai denutrito, pesava più di cinquanta chili. Il suo corpo peloso e muscoloso era una via di mezzo tra la scimmia e l’uomo, ma la testa si avvicinava molto di più a quella dell’uomo che a quella della scimmia. La fronte era bassa, con sporgenze ossee sopra le orbite, eppure egli possedeva inequivocabilmente nei propri geni la promessa dell’umanità. Mentre contemplava, fuori dalla caverna, il mondo ostile del Pleistocene, v’era già qualcosa nel suo sguardo che trascendeva le capacità di qualsiasi scimmia. In quegli occhi scuri, profondamente infossati, si celava una nascente consapevolezza… i primi barlumi di un’intelligenza cui ancora per epoche non sarebbe stato possibile estrinsecarsi, e che presto si sarebbe potuta estinguere per sempre.
Non si vedeva alcun indizio di pericolo, e così GuardalaLuna incominciò a strisciare giù per il pendìo quasi verticale fuori dalla caverna, ostacolato soltanto in modo trascurabile dal suo fardello. Quasi avessero aspettato il suo segnale, gli altri della tribù sbucarono fuori dai loro rifugi, più in basso sulla parete rocciosa, e incominciarono ad affrettarsi verso le acque melmose del torrente per l’abbeverata mattutina.
GuardalaLuna spinse lo sguardo oltre la valle per vedere se gli Altri fossero visibili, ma non se ne scorgeva traccia. Forse non erano ancora usciti dalle loro caverne, oppure stavano già foraggiando più avanti, lungo il fianco della collina. Poiché rimanevano invisibili, GuardalaLuna li dimenticò; era incapace di crucciarsi per più di una cosa alla volta.
Anzitutto doveva sbarazzarsi del Vecchio, ma questo era un problema che richiedeva poca riflessione. Vi erano state molte morti in quella stagione, una di esse nella sua caverna; doveva soltanto lasciare il cadavere dove aveva abbandonato l’ultimo piccolo, all’ultimo quarto di luna, e le iene avrebbero fatto il resto.
Già erano in attesa, ove la valletta si apriva a ventaglio nella savana, quasi avessero saputo che lui stava arrivando. GuardalaLuna lasciò il cadavere sotto un piccolo cespuglio (tutte le ossa di prima erano già scomparse) e si affrettò a tornare indietro per raggiungere la tribù. Non doveva pensare mai più a suo padre.
Le sue due femmine, gli adulti delle altre caverne, e quasi tutti i giovani stavano foraggiando tra gli alberi resi stenti dalla siccità, più a monte nella valle, in cerca di bacche, di radici succulente e di foglie, nonché, occasionalmente, di inaspettati colpi di fortuna come piccole lucertole o roditori. Soltanto i piccoli e i più deboli tra i vecchi venivano lasciati nelle caverne; se al termine delle ricerche di un’intera giornata fosse avanzato del cibo, avrebbero potuto sfamarsi. Altrimenti, ben presto, le iene sarebbero state fortunate una volta di più.
Ma quel giorno era propizio, anche se, non serbando alcun vero ricordo del passato, GuardalaLuna non poteva paragonare un periodo di tempo con l’altro. Egli aveva trovato un alveare nel tronco di un albero morto, e si era così goduto la suprema ghiottoneria che il suo popolo potesse mai conoscere; seguitava a leccarsi le dita, di tanto in tanto, nel tardo pomeriggio, guidando il gruppo verso la caverna. Naturalmente, gli era toccato anche un bel numero di punture, ma quasi non ci aveva badato. Si trovava adesso tanto vicino al completo soddisfacimento quanto forse non lo sarebbe mai più stato; infatti, sebbene fosse ancora affamato, non era effettivamente indebolito dalla fame. Questo era il massimo cui un uomoscimmia potesse mai aspirare.
La sua contentezza svanì quando giunse al torrente. Gli Altri erano là. Vi si trovavano ogni giorno, ma non per questo la cosa sembrava meno esasperante.
Erano una trentina circa, e sarebbe stato impossibile distinguerli dagli appartenenti alla tribù di GuardalaLuna. Vedendolo sopraggiungere, incominciarono a danzare, ad agitare le braccia e a strillare, dal loro lato del torrente, e il popolo di GuardalaLuna rispose nello stesso modo.
Non accadde altro. Sebbene gli uominiscimmia si battessero e lottassero spesso gli uni con gli altri, le loro dispute davano luogo molto di rado a gravi ferite. Non possedendo artigli né denti canini per battersi, ed essendo ben protetti dal pelo, non potevano farsi un gran male a vicenda. In ogni caso, avevano ben poca energia in sovrappiù per un comportamento così improduttivo; ringhiare e minacciarsi era una maniera assai più efficiente per far valere i loro punti di vista.
Il confronto si protrasse per circa cinque minuti; poi l’esibizione cessò rapidamente come era cominciata, e tutti bevvero a sazietà l’acqua melmosa. Il senso dell’onore era stato appagato; ciascun gruppo aveva affermato i suoi diritti sul proprio territorio. Una questione così importante essendo stata risolta, la tribù proseguì lungo il suo lato del torrente. Il pascolo più vicino si trovava adesso a oltre un chilometro e mezzo dalle caverne, ed essi dovevano condividerlo con un branco di grosse bestie simili ad antilopi, le quali a malapena tolleravano la loro presenza. Non potevano essere scacciate, poiché erano armate con pugnali feroci sulla fronte: armi naturali che gli uominiscimmia non possedevano.
Così GuardalaLuna e i suoi compagni masticavano bacche e frutta e foglie e scacciavano le fitte della fame, mentre tutto intorno a loro, in competizione con loro per lo stesso cibo, esistevano riserve di viveri superiori a quanto avrebbero mai potuto sperare di mangiare. Eppure, le migliaia di tonnellate di carne succulenta che vagabondavano nella savana e attraverso la boscaglia non erano soltanto di là dalla loro portata, ma anche di là dalla loro immaginazione. In piena abbondanza, essi stavano lentamente morendo di fame.
La tribù tornò alle caverne senza alcun incidente nell’ultima luce del giorno. La femmina ferita rimasta al riparo tubò di piacere, mentre GuardalaLuna le dava il ramo coperto di bacche, che aveva portato sin lì, e incominciò ad attaccarlo famelica. Il nutrimento era ben scarso, ma le avrebbe consentito di sopravvivere fino a quando la ferita infertale dal leopardo non si fosse cicatrizzata, consentendole di tornare per suo conto in cerca di foraggio.
Sulla valle stava sorgendo la luna piena, e un vento gelido soffiava dai monti lontani. Avrebbe fatto molto freddo, quella notte… ma il freddo, come la fame, non era causa di gravi preoccupazioni; era soltanto un aspetto dell’ambiente in cui si svolgeva la loro esistenza.
GuardalaLuna si mosse appena quando udì gli urli e gli strilli riecheggiati dal versante della montagna e provenienti da una delle caverne più in basso; non aveva bisogno di sentire i ringhi saltuari del leopardo per rendersi esattamente conto di quanto stava accadendo. Laggiù nelle tenebre, il vecchio Pelo Bianco e la sua famiglia stavano combattendo e morendo, e l’idea che egli avrebbe potuto aiutarli in qualche modo non balenò nemmeno per un attimo nella mente di GuardalaLuna. La logica feroce della sopravvivenza escludeva tali fantasticherie, e non una voce si levò per protestare dal fianco in ascolto dell’altura. In ogni caverna regnava il silenzio, per non attrarre il disastro anche da quella parte.
Il tumulto cessò, e di lì a poco GuardalaLuna udì il fruscio di un corpo trascinato sulle rocce. Si protrasse soltanto per pochi secondi, poi il leopardo riuscì ad afferrare saldamente la preda; non causò altri rumori mentre si allontanava silenziosamente sulle zampe di velluto, portando senza fatica la vittima tra le mascelle.
Per un giorno o due, non vi sarebbero stati nuovi pericoli lì, ma potevano esservi altri nemici in giro, approfittando di quel Piccolo Sole freddo che splendeva soltanto durante la notte. Se v’era un preavviso sufficiente, i predatori più piccoli potevano a volte essere spaventati e allontanati con urla e strilli. GuardalaLuna strisciò fuori dalla caverna, si arrampicò su un grosso macigno accanto all’imboccatura e là si accosciò a sorvegliare la valle.
Tra tutte le creature che avevano camminato fino a quel giorno sulla Terra, gli uominiscimmia erano i primi a contemplare costantemente la luna. E sebbene non potesse ricordarlo, GuardalaLuna, quando era stato molto giovane, aveva cercato a volte di protendersi e di toccare quella faccia spettrale che saliva nel cielo sopra i monti.
Non vi era mai riuscito, e ormai aveva abbastanza anni per capire perché. Anzitutto, naturalmente, doveva trovare un albero sufficientemente alto sul quale arrampicarsi.
A volte osservava la valle e a volte osservava la luna, ma sempre rimaneva in ascolto; una o due volte si appisolò, ma il suo sonno era leggerissimo, e il minimo suono lo avrebbe disturbato. Nell’avanzatissima età di venticinque anni, possedeva ancora appieno tutte le sue facoltà; se la fortuna avesse continuato a essergli propizia, e se fosse riuscito a evitare incidenti, malattie, animali da preda e la morte per fame, avrebbe potuto sopravvivere per altri dieci anni.
La notte continuò a trascorrere, gelida e limpida, senza altri allarmi e la luna salì adagio tra costellazioni equatoriali che nessuno sguardo umano avrebbe mai veduto. Nelle caverne, tra periodi di sonno intermittente e di timorosa attesa, nascevano gli incubi di generazioni di là da venire.
E per due volte un puntino luminoso abbacinante, più vivido di ogni stella, attraversò adagio il cielo, salendo fino allo zenit e discendendo poi a oriente.