29. SOLO



Come un giocattolo minuscolo e complicato, la nave spaziale galleggiava inerte e immobile nel vuoto. Sarebbe stato impossibile capire che si trattava dell’oggetto più veloce del sistema solare e che si spostava molto più rapidamente di uno qualsiasi dei pianeti mentre ruotavano intorno al Sole.

E nulla indicava che portasse vita entro di sé; all’opposto, anzi. Qualsiasi osservatore avrebbe notato due indizi minacciosi: i portelli della camera di equilibrio erano entrambi spalancati… e l’astronave continuava a essere circondata da una rada nube di frammenti che andava disperdendosi adagio.

Sparsi in un volume di spazio che già si estendeva per chilometri, si vedevano pezzi di carta, lamierini metallici, frammenti irriconoscibili… e, qua e là, nuvole di cristalli che scintillavano come gioielli nella luce del sole remoto, là ove del liquido era stato risucchiato dalla nave spaziale e congelato all’istante. Tutto ciò costituiva la conseguenza inequivocabile di un disastro, come i relitti che affiorano alla superficie dell’oceano, là ove qualche grande nave è colata a picco. Ma nell’oceano dello spazio nessuna astronave poteva mai affondare; anche se veniva distrutta, i suoi rottami continuavano a seguire in eterno l’orbita originaria.

Ciò nonostante la nave spaziale non era completamente morta, poiché continuava a esservi energia a bordo. Un fioco bagliore azzurrognolo traspariva attraverso i finestrini di osservazione e baluginava all’interno della camera d’equilibrio aperta. Ove vi era luce, poteva ancora esservi vita.

E ora, infine, vi fu movimento. Ombre si spostavano nel bagliore azzurrognolo all’interno della camera d’equilibrio. Qualcosa emergeva nello spazio.

Era un oggetto cilindrico, coperto di stoffa avvolta alla meglio intorno a esso. Un attimo dopo fu seguito da un altro oggetto… e poi ancora da un terzo. Tutti erano stati espulsi con una velocità considerevole; pochi minuti dopo, si trovavano a centinaia di metri di distanza.

Trascorse mezz’ora. Poi qualcosa di molto più grande uscì attraverso il portello della camera di equilibrio. Una delle capsule si stava spostando molto adagio nello spazio.

Con somma cautela azionò il getto muovendosi intorno all’astronave, e andò ad ancorarsi accanto alla base del sostegno dell’antenna. Una sagoma in tuta spaziale ne uscì, lavorò per alcuni minuti al sostegno, poi rientrò nella capsula. Dopo qualche momento la capsula tornò indietro fino alla camera di equilibrio; rimase sospesa per qualche tempo all’esterno dell’apertura, come se trovasse difficile rientrare senza la cooperazione avuta in passato. Ma infine, dopo uno o due lievi urti, riuscì a inserirsi nel varco.

Non accadde altro per oltre un’ora; i tre sinistri oggetti cilindrici erano scomparsi già da un pezzo, allontanandosi in fila, uno dietro l’altro, dall’astronave.

Poi i portelli della camera di equilibrio si chiusero, si aprirono e tornarono a chiudersi. Poco dopo, il fioco bagliore azzurrognolo delle lampade di emergenza si spense… per essere sostituito subito da un bagliore di gran lunga più vivido. La Discovery stava tornando alla vita.

Di lì a non molto vi fu un indizio ancor più promettente. Il grande riflettere parabolico dell’antenna, che per ore aveva fissato inutilmente Saturno, incominciò di nuovo a muoversi. Si girò nella direzione della parte posteriore della nave spaziale, orientato verso i serbatoi di propellente e le centinaia di metri quadrati delle pinne di irradiazione. Alzò la faccia come un girasole, cercando il Sole.

All’interno della Discovery, David Bowman centrò attentamente il reticolo che allineava l’antenna con la Terra gibbosa. Senza il controllo automatico, era costretto a regolare continuamente il fascio… ma esso sarebbe dovuto rimanere orientato per molti minuti di seguito. Non v’erano adesso impulsi contrastanti che lo scostassero dal bersaglio.

Incominciò a parlare con la Terra. Sarebbe trascorsa più di un’ora prima che le sue parole vi giungessero e il Controllo Missione apprendesse quanto era accaduto. Occorrevano due ore prima che una risposta qualsiasi potesse arrivargli.

Ed era difficile immaginare quale risposta avrebbe potuto trasmettergli la Terra, se non un: «Arrivederci», pieno di tatto e comprensivo.

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