«Non avete mai pensato a questo?» domandò Floyd, additando il deposito fuori dal finestrino. «E se l’oggetto fosse un nascondiglio di rifornimenti, lasciato da una spedizione che non tornò mai?»
«È una possibilità», ammise Michaels. «Il campo magnetico ne indicava la posizione, per cui sarebbe stato facile ritrovarlo. Ma è piuttosto piccolo… non potrebbe contenere un gran che in fatto di rifornimenti.»
«Perché no?» intervenne Halvorsen. «Chi può sapere quanto essi fossero grandi? Forse non superavano l’altezza di quindici centimetri, il che avrebbe reso l’oggetto, per loro, alto come venti o trenta piani.»
Michaels crollò il capo.
«È escluso», protestò. «Non possono esistere creature molto piccole e intelligenti; occorre un minimo di volume cerebrale.»
Michaels e Halvorsen, Floyd lo aveva notato, partivano di solito da punti di vista opposti, eppure sembrava che vi fossero ben pochi attriti e che non esistesse ostilità personale tra loro. Si sarebbe detto che si rispettassero a vicenda e fossero semplicemente d’accordo nel dissentire.
I pareri di tutti gli altri, del resto, non coincidevano di certo sulla natura del TMA-1, o monolito di Tycho, come taluni preferivano chiamarlo, conservando soltanto una parte della sigla. Nelle sei ore trascorse da quando era giunto sulla Luna, Floyd aveva sentito esporre decine di teorie, ma non aveva optato per alcuna di esse. Altare, punto di riferimento, punto di rilevamento topografico, tomba, strumento geofisico… queste erano forse le ipotesi preferite e alcuni dei loro sostenitori si scaldavano molto nel difenderle. Già molte scommesse erano state fatte, e parecchio denaro avrebbe cambiato tasca, una volta che si fosse infine accertata la verità… ammesso che si potesse mai accertarla.
Fino a quel momento, il duro e nero materiale del monolito aveva resistito a tutti i tentativi alquanto blandi compiuti da Michaels e dai suoi colleghi per ricavarne campioni. Essi non dubitavano affatto che un raggio laser sarebbe riuscito a tagliarlo, poiché senza dubbio nulla poteva resistere a quella spaventosa concentrazione di energia; ma la decisione di ricorrere a mezzi così violenti doveva essere presa da Floyd. Egli aveva già deciso di fare entrare in gioco i raggi X, le sonde soniche, i fasci di neutroni, e tutti gli altri mezzi non distruttivi di indagine, prima di ripiegare sull’artiglieria pesante del laser. Sembrava un indizio di barbarie distruggere qualcosa che non si riusciva a capire; ma forse gli uomini erano barbari, rispetto alle creature che avevano costruito quell’oggetto.
E da dove potevano essere venute? Dalla Luna stessa? No, questo era assolutamente impossibile. Seppure esisteva un tempo una vita indigena in quel mondo sterile, essa era stata distrutta durante l’ultima epoca di formazione dei crateri, quando la maggior parte della superficie lunare aveva raggiunto l’incandescenza.
Dalla Terra? Molto improbabile, anche se, forse, non del tutto impossibile. Una civiltà terrestre progredita, presumibilmente non umana, ai tempi del Pleistocene, avrebbe lasciato molte altre tracce della sua esistenza. Avremmo saputo tutto al riguardo, pensò Floyd, molto tempo prima di arrivare sulla Luna.
Rimanevano due alternative: i pianeti e le stelle. Eppure, ogni prova smentiva la possibilità di una vita intelligente altrove nel sistema solare… e addirittura della vita di qualsiasi genere, tranne che sulla Terra e su Marte. I pianeti interni erano troppo caldi, quelli esterni di gran lunga troppo freddi, a meno che non si discendesse nella loro atmosfera fino a profondità in cui la pressione equivaleva a centinaia di tonnellate per ogni centimetro quadrato.
E così, forse, questi visitatori erano arrivati dalle stelle… eppure tale ipotesi sembrava ancor più incredibile. Alzando gli occhi verso le costellazioni disseminate nel cielo lunare color ebano, Floyd ricordò quante volte gli scienziati suoi colleghi avessero «dimostrato» che i viaggi interstellari erano impossibili. Già il viaggio dalla Terra alla Luna costituiva un’impresa straordinaria; ma la stella più prossima era cento milioni di volte più lontana… Comunque, abbandonarsi alle speculazioni significava perdere tempo; doveva aspettare finché non fossero emerse altre prove.
«Per favore, mettere le cinture di sicurezza e fermare tutti gli oggetti mobili», disse a un tratto l’altoparlante della cabina. «Ci stiamo avvicinando a un pendio di quaranta gradi.»
Due pali indicatori con luci lampeggianti erano apparsi all’orizzonte e il laboratorio mobile stava sterzando per passare tra essi. Floyd aveva appena allacciato la cintura di sicurezza quando il veicolo si portò adagio sull’orlo di un pendio davvero terrificante e incominciò a scendere una lunga china coperta di pietrisco, ripida quanto il tetto di una casa. L’obliqua luce riflessa della Terra, alle loro spalle, illuminava ora ben poco, e i fari del laboratorio mobile erano stati accesi. Molti anni prima, Floyd era rimasto in piedi sull’orlo del Vesuvio; gli fu facile, ora, immaginare il calarvisi dentro, e la sensazione non fu affatto piacevole.
Stavano scendendo giù per una delle terrazze interne di Tycho, ed essa tornò a livellarsi alcune centinaia di metri più in basso. Mentre strisciavano giù per il versante, Michaels additò la vasta pianura che si estendeva adesso sotto di loro.
«Eccoli là», esclamò. Floyd annuì; aveva già notato il gruppo di luci rosse e verdi parecchi chilometri più avanti e continuò a guardare in quella direzione, mentre il laboratorio mobile scendeva delicatamente il versante. Il rosso veicolo era ovviamente sotto pieno controllo, ma egli non respirò liberamente finché non vennero a trovarsi di nuovo in posizione orizzontale.
A questo punto poté scorgere, lucenti come bolle argentee nella luce riflessa della Terra, un gruppo di cupole a pressione: i rifugi temporanei che ospitavano gli uomini al lavoro sul posto. Accanto a essi si trovavano un’antenna radio, una torre di perforazione, un gruppo di veicoli parcheggiati, e un gran mucchio di roccia frantumata, presumibilmente il materiale che era stato scavato per mettere a nudo il monolito. Il minuscolo accampamento nella regione selvaggia sembrava molto solitario, molto vulnerabile dalle forze della natura assiepate silenziosamente intorno ad esso. Non si vedeva alcun segno di vita, e nulla di visibile lasciava capire perché alcuni uomini fossero venuti sin lì, così lontano dalla patria.
«Si può appena intravedere il cratere», disse Michaels. «Laggiù a destra… a un centinaio di metri circa da quell’antenna radio.»
Sicché ci siamo, pensò Floyd, mentre il laboratorio mobile passava accanto alle cupole a pressione, e si fermava sull’orlo del cratere. Il cuore gli batté in fretta mentre si sporgeva in avanti per vedere meglio. Il veicolo prese a strisciare con cautela giù per una rampa di roccia compatta nell’interno del cratere. E là, esattamente come lo aveva veduto nelle fotografie, si trovava il TMA-1.
Floyd lo fissò, batté le palpebre, scosse la testa, e tornò a fissarlo. Anche nella vivida luce della Terra non era facile vedere con chiarezza l’oggetto; la sua prima impressione fu quella di un rettangolo piatto che sarebbe potuto essere ritagliato in un foglio di carta carbone; sembrava che non avesse alcuno spessore. Naturalmente, questa era un’illusione ottica; sebbene stesse contemplando un corpo solido, esso rifletteva così poca luce che riusciva a scorgerlo soltanto di profilo.
I passeggeri serbarono il silenzio più assoluto, mentre il laboratorio mobile scendeva nel cratere. V’era timore reverenziale, e v’era anche incredulità… pura incapacità di credere che la morta Luna, tra tutti i mondi, potesse aver fruttato quella sorpresa fantastica.
Il laboratorio mobile si fermò a sei metri dal monolito e di fianco a esso, in modo che tutti i passeggeri potessero esaminarlo. Ciò nonostante, a parte la forma perfettamente geometrica dell’oggetto, v’era poco da vedere. In nessun punto si scorgevano segni qualsiasi, o una qualunque attenuazione di quell’estremo neroebano. Lo si sarebbe detto la cristallizzazione stessa della notte, e per un momento Floyd si domandò se non potesse trattarsi, in effetti, di qualche straordinaria formazione naturale, nata dalle fiamme e dalle pressioni accompagnatesi alla creazione della Luna. Ma questa possibilità, lo sapeva, era già stata esaminata e scartata.
A un segnale, i riflettori intorno all’orlo del cratere furono accesi, e la vivida luce della Terra venne cancellata da un bagliore di gran lunga più brillante. Nel vuoto lunare i fasci luminosi erano, naturalmente, del tutto invisibili; formarono ellissi sovrapposte di un bianco accecante, centrate sul monolito. E là dove lo toccavano, la sua superficie color ebano sembrava assorbirle.
Il vaso di Pandora, pensò Floyd, con un improvviso presentimento… in attesa di essere aperto dall’uomo indagatore. E che cosa vi troverà dentro?