17. CONSUETUDINI DELLA CROCIERA

La guida giornaliera della nave spaziale era stata progettata con somma cura e, almeno teoricamente, Bowman e Poole sapevano che cosa avrebbero fatto in ogni momento delle ventiquattr’ore. Facevano turni di dodici ore di guardia e dodici ore di riposo, sostituendosi a vicenda, senza mai dormire contemporaneamente. L’ufficiale di servizio rimaneva sul ponte di controllo, mentre l’altro ufficiale provvedeva alla manutenzione in genere, ispezionava la nave spaziale, provvedeva alle varie incombenze delle quali si presentava senza posa la necessità, oppure riposava nel suo cubicolo.

Sebbene Bowman fosse nominalmente il comandante in questa fase della missione, nessun osservatore estraneo avrebbe potuto dedurlo. Lui e Poole si sostituivano in tutto e per tutto nei compiti, nel grado e nelle responsabilità ogni dodici ore. Ciò li manteneva entrambi al culmine dell’addestramento, riduceva al minimo le possibilità di attriti e li aiutava ad avvicinarsi alla meta del cento per cento di perfezione.

La giornata di Bowman incominciava alle 06.00, ora dell’astronave: le Effemeridi astronomiche universali del tempo. Se per caso Bowman avesse tardato, Hal disponeva di tutta una serie di segnali sonori e di carillon per ricordargli il suo dovere, ma non erano mai stati impiegati. A titolo di prova, Poole aveva una volta staccato l’allarme; Bowman si era ugualmente alzato come un automa all’ora prevista.

Il suo primo gesto ufficiale della giornata consisteva nel portare avanti di dodici ore il cronometro principale dell’ibernazione. Se questa operazione fosse stata omessa due volte di seguito, Hal avrebbe presunto che tanto lui quanto Poole si trovavano nell’incapacità di agire e si sarebbe affrettato ad adottare i necessari provvedimenti di emergenza.

Bowman faceva anzitutto la propria toletta ed esercizi isometrici prima della colazione e della lettura mattutina dell’edizione elettronica del World Times. Sulla Terra, non aveva mai letto il giornale attentamente come adesso; anche le più insignificanti notizie sui pettegolezzi mondani e sulle più fuggevoli voci politiche, sembravano di un interesse assorbente mentre balenavano sullo schermo.

Alle 07.00, sostituiva ufficialmente Poole nel ponte di controllo, portandogli dalla cucina un tubo di caffè da spremere. Se, come accadeva solito, non v’era alcunché da riferire e nessun provvedimento da adottare, si accingeva a controllare tutte le indicazioni degli strumenti ed eseguiva tutta una serie di prove aventi lo scopo di individuare possibili guasti. Entro le 10.00 aveva terminato e si dedicava a un periodo di studio.

Bowman aveva studiato per più di metà della sua vita e avrebbe continuato a studiare finché non fosse andato a riposo. Grazie alla rivoluzione del ventesimo secolo per quanto concerneva le tecniche relative all’istruzione e alle informazioni, egli possedeva già la cultura equivalente a due o tre lauree e, quel che più contava, riusciva a ricordare il novanta per cento di quanto aveva imparato.

Cinquant’anni prima, sarebbe stato considerato uno specialista in astronomia applicata, cibernetica e sistemi propulsivi nello spazio… eppure egli tendeva a negare, con autentica indignazione, di essere qualcosa del genere. Gli era sempre stato impossibile accentrare il proprio interesse esclusivamente su un argomento; nonostante le tetre ammonizioni dei suoi insegnanti, aveva voluto a tutti i costi laurearsi in astronautica generale… una facoltà dal programma vago e nebuloso, destinata a coloro il cui quoziente di intelligenza era inferiore a 130 e che non avrebbero mai brillato nella loro professione.

La sua decisione era stata giusta; proprio quel rifiuto di specializzarsi lo aveva reso eccezionalmente idoneo al suo compito attuale. Press’a poco nello stesso modo, Frank Poole, che a volte, in modo spregiativo, si autodefiniva «tecnico generico di biologia spaziale», era stato una scelta ideale come suo vice. I due uomini, se necessario con l’aiuto della vasta riserva di informazioni di Hal, erano in grado di far fronte a qualsiasi difficoltà potesse probabilmente determinarsi durante il viaggio, finché avessero fatto in modo che le loro menti rimanessero all’erta e ricettive, rinfrescando continuamente le nozioni impresse nella memoria.

Così, per due ore, dalle 10.00 alle 12.00, Bowman si impegnava in un dialogo con un ripetitore elettronico, controllando la sua cultura generale, o assimilando nozioni specifiche per questa missione. Studiava senza posa i piani della nave spaziale, i diagrammi dei circuiti, le carte astronomiche relative al viaggio, oppure tentava di assimilare tutto ciò che si sapeva su Giove, Saturno e le loro vaste famiglie di lune.

A mezzogiorno si ritirava in cucina e affidava la nave spaziale ad Hal durante i preparativi del pranzo. Anche lì era sempre pienamente in contatto con gli eventi, poiché il minuscolo salotto con sala da pranzo conteneva un duplicato del Quadro Indicatore Situazione, e Hal poteva chiamarlo con un solo attimo di preavviso. Poole gli faceva compagnia durante questo pasto, prima di concedersi il suo periodo di sei ore di sonno, e di solito seguivano uno dei normali programmi televisivi trasmessi loro dalla Terra.

I loro menus erano stati studiati con tanta cura quanto ogni altro aspetto della missione. Il cibo, quasi tutto congelato ed essiccato, era invariabilmente ottimo e prescelto tenendo presente la necessità di incomodarli il meno possibile. I pacchetti dovevano soltanto essere aperti e inseriti nella piccola cucina automatica, che emetteva un segnale sonoro ripetuto a cottura avvenuta. Assaporavano bevande e cibi che avevano lo stesso sapore e, fattore altrettanto importante, lo stesso aspetto del succo d’arancia, delle uova (cucinate in tutti i modi), delle bistecche, delle costate, degli arrosti, della verdura fresca, della frutta assortita, dei gelati, e persino del pane appena tolto dal forno.

Dopo pranzo, dalle 13.00 alle 16.00, Bowman faceva un giro lento e meticoloso della nave spaziale, o di quelle parti di essa che erano accessibili. La Discovery era lunga quasi centoventi metri da un’estremità all’altra, ma il piccolo universo occupato dal suo equipaggio era contenuto interamente nella sfera larga dodici metri del guscio a pressione.

Lì si trovavano tutte le apparecchiature per il mantenimento della vita, e lì era situato il ponte di controllo, il cuore operativo dell’astronave. Sotto di esso veniva un piccolo «garage spaziale» munito di tre camere d’equilibrio, attraverso le quali capsule motorizzate, grandi appena quanto bastava per contenere un uomo, potevano salpare nel vuoto se si presentava la necessità di un’attività extraveicolare.

La regione equatoriale della sfera a pressione (la sezione, per così dire, dal Capricorno al Cancro) racchiudeva un tamburo in lenta rotazione del diametro di undici metri e mezzo. Poiché compiva una rivoluzione ogni dieci secondi, questa giostra o centrifuga produceva una gravità artificiale pari a quella della Luna. Essa bastava a impedire l’atrofia fisica che sarebbe conseguita alla completa assenza di peso, e permetteva inoltre che le normali funzioni della vita si svolgessero in condizioni normali o quasi normali.

La giostra conteneva pertanto la cucina, la sala da pranzo e gli impianti igienici. Soltanto lì era prudente preparare e maneggiare bevande calde… pericolosissime nelle condizioni di assenza di peso, durante le quali si può essere gravemente ustionati da globuli galleggianti d’acqua bollente. Anche le difficoltà del radersi erano risolte: non potevano esservi peli senza peso sparsi nell’aria, con il pericolo di danneggiare l’equipaggiamento elettrico e di minacciare la salute.

Intorno all’orlo della giostra erano disposti cinque piccoli cubicoli, arredati da ciascun astronauta a seconda dei suoi gusti e contenenti i suoi oggetti personali. Soltanto quelli di Bowman e di Poole erano attualmente occupati, mentre i futuri occupanti delle altre tre cabine riposavano entro i loro sarcofaghi elettronici, nel reparto adiacente.

La rotazione del tamburo poteva essere fermata, se necessario; quando ciò accadeva, il suo momento angolare doveva essere immagazzinato in un volano, per essere riutilizzato al momento della ripresa della rotazione. Ma di norma il tamburo veniva lasciato girare a velocità costante, in quanto era abbastanza facile entrare nella grossa giostra in lenta rotazione passando, sostenendosi ad appigli, lungo un’asta attraverso la regione a zero g nel suo centro. Trasferirsi sulla sezione in movimento era semplice e automatico, dopo un po’’ di esperienza, come salire su una scala mobile.

Il guscio sferico a pressione formava l’estremità di una leggera struttura a forma di freccia lunga più di cento metri. La Discovery, come tutti i veicoli destinati a una profonda penetrazione nello spazio, era troppo fragile e troppo poco aerodinamica per poter entrare in un’atmosfera, o per sfidare il campo gravitazionale di qualsiasi pianeta. Era stata montata in orbita intorno alla Terra, collaudata nel corso di un primo volo translunare, e infine controllata in orbita intorno alla Luna. Era una creatura del puro spazio… e ne aveva tutto l’aspetto.

Immediatamente dietro il guscio a pressione si raggruppavano quattro grandi serbatoi di idrogeno liquido e più indietro ancora, formando una lunga ed esile «V», si trovavano le pinne irradianti che disperdevano il calore superfluo del reattore nucleare. Venate da un delicato ricamo di tubazioni per il liquido di raffreddamento, sembravano le ali di una enorme libellula e, sotto certi punti di vista, facevano sì che la Discovery somigliasse fuggevolmente a una nave a vela dei tempi antichi.

All’estremità della «V», e a novanta metri dal compartimento dell’equipaggio, v’erano l’inferno schermato del reattore e il complesso di elettrodi focalizzanti attraverso i quali sfuggiva la sostanza stellare incandescente della propulsione al plasma. Essa aveva svolto il proprio lavoro alcune settimane prima, costringendo la Discovery ad allontanarsi dall’orbita di parcheggio intorno alla Luna. Ora il reattore si limitava a ticchettare, generando energia elettrica per i servizi dell’astronave, e le grandi pinne irradianti, che divenivano incandescenti assumendo un color rossociliegia quando la Discovery accelerava sotto la massima spinta, erano scure e fredde.

Anche se occorreva un’escursione nello spazio per esaminare questa parte dell’astronave, esistevano strumenti e remote telecamere che fornivano indicazioni complete sulle sue condizioni. Bowman riteneva ormai di conoscere intimamente ogni centimetro quadrato delle pinne irradianti e dei pannelli, e ogni tratto di tubazione a essi collegato.

Entro le 16.00 terminava l’ispezione, e faceva un rapporto verbale particolareggiato al Controllo Missione, parlando finché quest’ultimo non incominciava ad accusare ricevuta. Allora spegneva la trasmittente di bordo, ascoltava quanto la Terra aveva da dire, e rispondeva a ogni eventuale domanda. Alle 18.00 Poole si destava e lo sostituiva.

Gli rimanevano allora sei ore libere, da impiegare come più gli piaceva. A volte continuava gli studi, oppure ascoltava musica o guardava film. Per la maggior parte del tempo vagava a suo piacimento tra l’inesauribile biblioteca elettronica dell’astronave. Aveva finito con l’essere affascinato dalle grandi esplorazioni del passato… il che era abbastanza comprensibile, tenuto conto delle circostanze. A volte navigava con Pitea fuori dalle colonne d’Ercole, lungo le coste di una Europa che stava appena emergendo dall’età della pietra, e si avventava tra le gelide nebbie dell’Artico. Oppure, duemila anni dopo, inseguiva con Anson i galeoni di Manila, salpava con Cook lungo i pericoli ignoti della grande barriera corallina e compiva, con Magellano, la prima circumnavigazione della Terra. Incominciò inoltre a leggere l’Odissea, che, tra tutti i libri esistenti, gli parlava più vividamente attraverso gli abissi del tempo.

Per distrarsi, poteva sempre impegnare Hal in un gran numero di giochi semimatematici, compresi la dama e gli scacchi. Se Hal ce la metteva tutta, poteva vincere qualsiasi partita; ma questo sarebbe stato negativo per il morale. E così, lo avevano programmato in modo che vincesse soltanto il cinquanta per cento delle volte, e i suoi compagni di gioco umani fingevano di non saperlo.

Le ultime ore della giornata di Bowman erano dedicate alle pulizie generali e a lavori vari, ai quali seguiva la cena alle ore 20.00, di nuovo con Poole. Quindi, per un’ora circa, egli poteva fare o ricevere qualsiasi telefonata dalla Terra.

Come tutti i suoi colleghi, Bowman era scapolo; non sarebbe stato giusto mandare uomini ammogliati in una missione di simile durata. Sebbene numerose donne avessero promesso di aspettare fino al termine della spedizione, la promessa non era stata presa sul serio da nessuno. All’inizio, sia Poole sia Bowman avevano fatto telefonate personali alquanto intime una volta alla settimana, sebbene la consapevolezza che molte orecchie dovevano ascoltarle, all’estremità del collegamento con la Terra, tendesse a inibirli. Ma già, per quanto il viaggio fosse appena cominciato, la passione e la frequenza delle conversazioni con le loro ragazze sulla Terra avevano cominciato a diminuire. Essi se lo erano aspettato; si trattava di uno degli inconvenienti del modo di vivere degli astronauti, come lo era stato un tempo per i marinai.

Era vero, e risaputo, che i marinai trovavano compensi in altri porti; purtroppo, non esistevano isole tropicali piene di brune fanciulle di là dall’orbita della Terra. I medici spaziali, naturalmente, avevano affrontato questo problema con il loro consueto entusiasmo; la farmacia della nave conteneva surrogati adeguati, anche se non affascinanti.

Poco prima del cambio, Bowman faceva il suo ultimo rapporto e si accertava che Hal avesse trasmesso tutti i nastri relativi alla strumentazione per quanto concerneva la navigazione di quel giorno. Poi, se ne aveva voglia, passava un paio d’ore o leggendo o guardando un film; e a mezzanotte si addormentava… di solito senza dover ricorrere all’aiuto dell’elettronarcosi.

L’attività di Poole era un’immagine speculare della sua, e i due turni si susseguivano l’uno all’altro senza attriti. Entrambi gli uomini erano completamente occupati, e troppo intelligenti e bene adattati per poter litigare, e il viaggio si era assestato in una comoda routine del tutto priva di eventi, nella quale il trascorrere del tempo era indicato soltanto dai numeri che cambiavano sui quadranti degli orologi digitali.

La più grande speranza del piccolo equipaggio della Discovery era che nulla potesse mai guastare questa pacifica monotonia in futuro.

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