32. A PROPOSITO DELLE CREATURE EXTRATERRESTRI

A parte i pasti frettolosi nel tamburo ruotante (per fortuna i distributori principali del cibo non erano stati danneggiati) Bowman viveva in pratica sul ponte di controllo. Faceva brevi pisolini sul sedile e poteva così individuare ogni inconveniente non appena i primi indizi apparivano sugli schermi indicatori. Attenendosi alle istruzioni impartitegli dal Controllo Missione, aveva improvvisato numerosi sistemi di emergenza che funzionavano tollerabilmente bene. Sembrava addirittura possibile che riuscisse a sopravvivere fino all’arrivo della Discovery a Saturno… una mèta, che, naturalmente, l’astronave avrebbe raggiunto con lui vivo o morto a bordo.

Sebbene avesse poco tempo per le osservazioni celesti e il firmamento dello spazio non costituisse per lui una novità, la consapevolezza di quanto si trovava laggiù, di là dai finestrini, faceva sì che gli riuscisse difficile a volte concentrarsi anche sul problema della sopravvivenza. Direttamente di fronte a lui, così come l’astronave era attualmente orientata, si stendeva la Via Lattea, con le sue nubi di stelle tanto strettamente stipate da stordire la mente. Vi erano le ardenti nebbie del Sagittario, quei brulicanti sciami di soli che in eterno sottraevano agli sguardi umani il cuore della galassia. V’era la sinistra ombra nera detta «Sacco di carbone», quel foro nello spazio in cui nessuna stella splendeva. E vi era Alfa del Centauro, il più vicino di tutti i soli estranei… la prima tappa oltre il sistema solare.

Sebbene meno splendente di Sirio e di Canopo, era Alfa del Centauro ad attrarre gli occhi e i pensieri di Bowman ogni volta che egli guardava fuori nello spazio. Poiché quell’immutabile punto di luce, i cui raggi avevano impiegato quattro anni per raggiungerlo, aveva finito con il simboleggiare i dibattiti segreti che infuriavano in quel momento sulla Terra, e i cui echi arrivavano di quando in quando fino a lui.

Nessuno dubitava che dovesse esservi qualche rapporto tra il TMA-1 e il sistema di Saturno, ma difficilmente qualsiasi scienziato sarebbe stato disposto ad ammettere che le creature dalle quali era stato eretto il monolito avessero avuto laggiù le loro origini. Come dimora di vita, Saturno era ancor più ostile di Giove, e le sue tante lune erano congelate da un inverno eterno, con trecento gradi sotto lo zero. Solamente una di esse, Titano, possedeva una atmosfera; e si trattava di uno strato sottile di metano velenoso.

Così, forse, le creature che avevano visitato la luna terrestre un’infinità di tempo prima erano non soltanto extraterrestri, ma extrasolari… visitatori provenienti dalle stelle, i quali avevano stabilito basi ove più loro conveniva. E ciò poneva subito un altro problema: poteva mai una qualsiasi tecnica, per quanto progredita, gettare un ponte sull’abisso spaventoso frapposto tra il sistema solare e il più vicino sole estraneo?

Molti scienziati negavano decisamente tale possibilità. Facevano rilevare che la Discovery, l’astronave più veloce mai progettata, avrebbe impiegato ventimila anni per raggiungere Alfa del Centauro… e milioni di anni per percorrere una distanza apprezzabile nella galassia. Anche se, nel corso dei secoli a venire, i sistemi di propulsione fossero migliorati in modo inconcepibile, in ultimo avrebbero incontrato la barriera insormontabile della velocità della luce, che nessun oggetto materiale poteva superare. Per conseguenza, i costruttori del TMA-1 dovevano aver condiviso lo stesso sole dell’uomo; e, non essendo apparsi nei tempi storici, erano probabilmente estinti.

Una insistente minoranza si rifiutava di ammetterlo. Anche se occorrevano secoli per viaggiare da una stella all’altra, sostenevano coloro che ne facevano parte, questo non poteva rappresentare un ostacolo per esploratori dello spazio sufficientemente decisi. La tecnica dell’ibernazione, impiegata sulla stessa Discovery, costituiva una possibile soluzione. Un’altra era l’ambiente artificiale autosufficiente, impegnato in viaggi che potevano protrarsi per molte generazioni.

In ogni caso, perché si doveva presumere che tutte le specie intelligenti avessero una vita breve come quella dell’uomo? Potevano esservi nell’universo creature per le quali un viaggio di mille anni non era niente di più grave di un breve periodo di noia…

Questi argomenti, per quanto teorici, concernevano un problema della massima importanza pratica; implicavano il concetto del «tempo di reazione». Se il TMA-1 aveva trasmesso un segnale alle stelle, forse con l’ausilio di qualche ulteriore congegno in prossimità di Saturno, poteva darsi che quel segnale non giungesse a destinazione prima di alcuni anni. Anche se la reazione fosse stata immediata, pertanto, l’umanità avrebbe avuto un periodo di respiro che senz’altro poteva essere misurato in decenni… e più probabilmente in secoli. Per molte persone, questo era un pensiero rassicurante.

Ma non per tutte. Alcuni scienziati, la maggior parte dei quali frugavano i lidi più selvaggi della fisica teorica, ponevano l’interrogativo preoccupante: «Siamo certi che la velocità della luce sia una barriera invalicabile?» Era vero che la teoria della relatività aveva dimostrato di essere notevolmente duratura, e di lì a non molto si sarebbe avvicinata al suo primo centenario; ma aveva anche cominciato a essere incrinata da alcune crepe. E anche se non era possibile sfidare Einstein, si poteva eluderlo.

Coloro che adottavano questo punto di vista, parlavano con speranza di scorciatoie attraverso altre dimensioni, di linee più diritte della retta, e di connettività iperspaziali. Amavano servirsi di una frase espressiva coniata da un matematico di Princeton nel secolo precedente: «Tarli nello spazio». Ai critici i quali asserivano che queste idee erano troppo fantastiche, si ricordavano le parole di Niels Bohr: «La vostra teoria è pazzesca… ma non abbastanza pazzesca per essere vera.»

Se anche esisteva una disputa tra i fisici, essa non era nulla in confronto a quella tra i biologi, quando discutevano l’annoso problema: «Che aspetto potrebbero avere creature intelligenti extraterrestri?» Essi si dividevano in due campi opposti: l’uno sosteneva che tali creature dovevano essere umanoidi, l’altro era altrettanto persuaso che «esse» non sarebbero state affatto simili agli uomini.

Favorevoli alla prima tesi erano coloro i quali ritenevano che la struttura di due gambe, due braccia e dei principali organi di senso nel punto più alto era così fondamentale e così ragionevole da far sì che fosse difficile immaginarne una migliore. Naturalmente, vi sarebbero state differenze trascurabili, come ad esempio sei dita invece di cinque, epidermide o capelli dai colori bizzarri, e singolari fattezze del viso, ma gli extraterrestri più intelligenti, indicati di solito con la sigla E. T., sarebbero stati così simili all’uomo da non giustificare che si indugiasse a guardarli due volte con poca luce, o da lontano.

Questo modo di pensare antropomorfico veniva posto in ridicolo da un altro gruppo di biologi, autentici prodotti dell’era spaziale, i quali si sentivano esenti da tutti i pregiudizi del passato. Costoro facevano rilevare che il corpo umano era il risultato di milioni di scelte evolutive, fatte dal caso nel corso di ere di tempo. In ognuno di questi innumerevoli momenti di decisione, il dado genetico sarebbe potuto cadere in modo diverso, e forse con risultati migliori. Il corpo umano, infatti, era un bizzarro esempio di improvvisazione, pieno di organi deviati da una funzione all’altra, non sempre con molto successo… e contenente persino organi abbandonati, come l’appendice, ormai più nociva che utile.

V’erano altri pensatori, constatò inoltre Bowman, che sostenevano punti di vista ancora più singolari. Essi non credevano che esseri davvero progrediti possedessero un corpo. Prima o poi, man mano che le loro conoscenze scientifiche fossero progredite, si sarebbero liberati dalle fragili dimore, portate alle malattie e agli incidenti, date loro dalla natura, che li condannavano a una morte inevitabile. Avrebbero sostituito i loro organismi, man mano che si logoravano, o forse ancor prima, con strutture di metallo o di plastica, riuscendo così a conseguire l’immortalità. Il cervello avrebbe potuto essere conservato ancora per qualche tempo come ultimo residuo dell’organismo, per comandare le membra meccaniche e osservare l’universo attraverso organi di senso elettronici… di gran lunga più sensibili e sottili di quelli cui la cieca evoluzione avrebbe mai potuto dar luogo.

Persino sulla Terra erano già stati compiuti i primi passi in questa direzione. Esistevano milioni di uomini, condannati in età giovanile, che ora conducevano esistenze attive e serene grazie ad arti artificiali e a organi artificiali come i reni, i polmoni e il cuore. Questo processo poteva avere una sola conclusione… per quanto remota ancora essa fosse.

E in ultimo anche il cervello sarebbe potuto scomparire. In quanto sede della coscienza non era essenziale; i progressi dell’intelligenza elettronica lo avevano dimostrato.

Il conflitto tra mente e macchina poteva essere risolto infine con una tregua eterna di simbiosi completa…

Ma, anche questo, era la mèta ultima? Alcuni biologi dalle inclinazioni mistiche andavano ancora più oltre. Sostenevano, attingendo alle credenze di molte religioni, che la mente si sarebbe liberata in ultimo della materia. Gli organismi simili a robot, come quelli fatti di carne e sangue, non sarebbero stati altro che un trampolino verso qualcosa cui, già da molto tempo, gli uomini avevano dato il nome di «spirito».

E se esisteva qualcosa di là da questo, il suo nome poteva essere soltanto Dio.

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