Cerco di convincere Oliver a dare una mano nel compito di seppellire Timothy, ma lui se ne sta tutto imbronciato nella sua camera, come Achille nella propria tenda, e così il lavoro ricade interamente su Eli e me. Oliver non vuole aprire la porta, non si degna neanche di rispondere con un grugnito scontroso al mio bussare; allora lo pianto lì e raggiungo il gruppo radunato all’esterno dell’edificio.
Eli, in piedi accanto al corpo di Timothy, ha un aspetto serafico, trasfigurato: raggiante, quasi. Volto arrossato, corpo luccicante di sudore alla luce mattutina. Intorno a lui stanno quattro frati, i quattro Custodi: Fra Antonio, Fra Miklos, Fra Javier, Fra Franz. Sono tranquilli, sereni: sembrano compiaciuti di quanto è successo. Fra Franz ha portato degli attrezzi da becchino, picconi e badili. Il luogo della sepoltura, dice Fra Antonio, è a poca distanza nel deserto.
Forse per motivi di purezza rituale, i frati si guardano bene dal toccare il cadavere. Da parte mia, dubito che Eli e io da soli possiamo riuscire a trasportare Timothy per più di dieci metri; ma Eli non si lascia scoraggiare. S’inginocchia, accavalla uno sull’altro i piedi di Timothy, ficca una spalla sotto i polpacci del morto, e mi fa segno di afferrare Timothy dall’altra estremità.
Issa! Barcollando un poco; stacchiamo e solleviamo dal suolo quella massa inerte di cento chili. Iniziamo la marcia verso il luogo di sepoltura, con Fra Antonio che fa strada e gli altri tre frati che presumibilmente si accodano.
Benché l’alba non sia sorta da molto, il calore del sole è già spietato: lo sforzo di trasportare quel tremendo fardello attraverso la luccicante foschia del deserto mi fa sprofondare in uno stato quasi allucinatorio. I miei pori si aprono, le ginocchia mi tremano, gli occhi non riescono più a mettersi a fuoco e sulla gola sento una mano invisibile che stringe.
Come se qualcuno avesse filmato l’evento di poco fa e ora ne proiettasse la registrazione, rivedo tutto il procedere del grande momento di Eli: al rallentatore, e addirittura — negl’istanti critici — a fotogramma fermo.
Vedo Eli che corre, Eli che si china a raccogliere il pesante globo di basalto, Eli che insegue di nuovo Timothy, Eli che raggiunge Timothy, Eli che descrive il movimento di un lanciatore di peso, i muscoli del fianco destro di Eli che spiccano in straordinario rilievo, Eli che allunga il braccio con una movenza mirabilmente fluida come se volesse bussare con delicatezza alla spalla di Timothy ma invece abbattendogli il teschio di pietra contro il cranio, Timothy che si accartoccia, Timothy che si affloscia al suolo, Timothy che giace immobile.
E un’altra volta da capo, e ancora, e ancora, in una magica proiezione automatica. L’inseguimento, l’assalto, lo schianto.
A queste scene si sovrappongono, come fantomatici veli di garza, altre immagini familiari di morti violente: il volto stupefatto di Lee Harvey Oswald mentre gli si avvicina Jack Ruby, la sagoma accartocciata di Bobby Kennedy sul pavimento della cucina, le teste mozze di Mishima e dei suoi compagni deposte per benino dietro la scrivania del generale, il soldato romano che infilza con la lancia il corpo appeso alla Croce, il vistoso fungo che si dilata sopra Hiroshima.
E poi di nuovo Eli, di nuovo la traiettoria dell’antico oggetto tondeggiante, di nuovo lo schianto. Stop. Fotogramma fermo. Poeticità della conclusione.
Incespico e sono sempre lì lì per cadere: ma la bellezza di quelle immagini mi sostiene, riversandomi energie fresche nelle articolazioni scricchiolanti e nei muscoli indolenziti, cosicché io rimango ritto mentre arranco da bravo beccamorto sul terreno alcalino che si sbriciola sotto i miei passi vacillanti. Come, vivendo, moriamo giorno per giorno, così, morendo, vivremo per sempre.
— Siamo arrivati — annuncia Fra Antonio.
È un cimitero, questo? Non vedo tumuli, lapidi, niente. Solo un campo vuoto disseminato a casaccio di quelle basse e grigie piante dalle foglie coriacee che sono tipiche delle regioni aride.
Allora osservo più attentamente, con quel singolare affinamento delle percezioni indotto dalla spossatezza, e scorgo certe irregolarità del terreno: qui un’area che sembra affondata di qualche centimetro, là un’altra che appare sopraelevata rispetto al resto, come se in questo campo fosse stato fatto davvero qualche intervento.
Con grande cautela deponiamo a terra Timothy. Scaricato il suo corpo, il mio sembra innalzarsi nell’aria per la reazione di sollievo: quasi quasi giurerei che i piedi mi si sono staccati effettivamente dal suolo. Le gambe mi tremano, le braccia si alzano di conserva all’altezza delle spalle.
È un riposo di breve durata. Fra Franz ci porge gli attrezzi e tutt’e tre cominciamo a scavare la fossa. Lui solo ci dà una mano: gli altri tre frati stanno in disparte, assenti, immobili come statue votive.
Il suolo è friabile e molle: forse tutta la sua coesione è stata disintegrata da dieci milioni di anni di cottura sotto il sole dell’Arizona. Scaviamo come schiavi, come formiche, come macchine, affonda e solleva, affonda e solleva, prima praticando tre buche individuali e poi raccordandole insieme. Di tanto in tanto uno di noi invade l’area di lavoro del vicino: a un certo punto, per poco Eli non m’infilza col suo piccone il piede nudo. Comunque il lavoro procede: alla fine, davanti a noi si apre una fossa malsagomata delle dimensioni approssimative di due metri per novanta per uno abbondante di profondità. — Può bastare — dice Fra Franz.
Boccheggianti, lucidi di sudore, intontiti, lasciamo cadere gli attrezzi e facciamo un passo indietro. Io sono allo stremo delle forze, e riesco a malapena a rimanere in piedi. Sento che mi arriva un attacco di bolsaggine: riesco a dominarlo e lo converto assurdamente in una serie di singhiozzi.
Fra Antonio dice: — Mettete nella fossa il morto.
Così com’è? Niente bara niente protezione? La terra a contatto del nudo volto? Polvere alla polvere? Sembra proprio di sì.
Diamo fondo alle ultime particelle di energia e solleviamo Timothy, portandolo sopra lo scavo e calandolo giù lentamente. Timothy giace sulla schiena, il cranio fracassato che poggia sulla terra soffice, gli occhi spalancati che ci fissano (con uno sguardo di stupore?). Eli allunga una mano e gli chiude gli occhi; poi gli gira leggermente la testa da una parte. Una posizione più simile a quella del sonno. Una maniera più comoda per trascorrere il riposo eterno.
Adesso i quattro Custodi si dispongono agli angoli della fossa. Fra Miklos, Fra Franz e Fra Javier accostano le mani al ciondolo e chinano il capo. Fra Antonio, con lo sguardo fisso davanti a sé, recita un breve servizio funebre in quella lingua fluida e incomprensibile che i frati usano con le sacerdotesse (la lingua degli Aztechi?, la lingua di Atlantide? la madrelingua dell’uomo di Cro-magnon?); poi, passando al latino per le ultime frasi, aggiunge qualcosa che mi sembra (come mi confermerà Eli) il testo del Nono Mistero. Infine fa segno a me e a Eli di riempire la fossa. Noi impugniamo i badili e gettiamo giù palate di terra.
Addio, Timothy! Addio, giovane rampollo di famiglia aristocratica, frutto di otto generazioni di sangue puro! Chi avrà i tuoi quattrini, chi porterà avanti il nome del casato? Polvere alla polvere.
Un sottile strato di sabbia dell’Arizona ricopre già le possenti spoglie. Continuiamo come automi a gettare terra, e Timothy scompare alla vista. Come era stato decretato fin dall’inizio. Come fu scritto diecimila anni fa nel Libro dei Teschi.
Quando la fossa è colmata e la terra è stata pigiata ben bene, Fra Antonio dice: — Tutte le normali attività sono sospese. Passeremo la giornata in meditazione, senza mangiare, dedicandoci alla contemplazione dei Misteri.
Ma c’è dell’altro lavoro che ci attende, prima che le nostre contemplazioni possano cominciare.
Torniamo nella Casa dei Teschi, per fare anzitutto un bagno, e scopriamo Fra Leone e Fra Bernardo nel corridoio del dormitorio, fuori della camera di Oliver. Hanno il volto che sembra una maschera. Fanno segno verso l’interno.
Oliver giace sul letto, a faccia in su. Ha rubato un coltello in cucina: da quel grande chirurgo che sarebbe stato, ha compiuto su di sé un lavoro straordinario, gola e ventre, senza risparmiare neppure il traditore fra le cosce. Le incisioni, profonde, sono state praticate con mano ferma: disciplinato fino alla fine, l’inflessibile Oliver si è macellato con la sua caratteristica fedeltà alla metodologia. Io non avrei potuto portare a termine un progetto simile (supposto che l’avessi iniziato), così come non posso camminare su un raggio di luna; ma Oliver ha sempre avuto una forza di concentrazione fuori del comune.
Osserviamo la sua opera in una maniera stranamente spassionata. Io sono un tipo piuttosto schifiltoso, e così pure Eli: ma in questo giorno dell’adempimento del Nono Mistero, ogni debolezza di tal genere mi viene tolta.
— C’è fra te — dice Fra Antonio — uno che ha rinunciato all’eternità in favore dei suoi fratelli della figura quadrilatera, in modo che loro possano giungere a comprendere il significato dell’abnegazione. — Già.
E così arranchiamo una seconda volta fino al luogo di sepoltura. E dopo, in espiazione dei miei peccati, ripulisco dalle spesse chiazze di sangue coagulato la stanza che è stata di Oliver. E infine faccio il bagno e mi ritiro da solo nella mia camera, meditando sui Misteri del Teschio.