Quando avevo undici anni, ho fatto un gran pensare di togliermi la vita. Ci pensavo sul serio. Non era una posa, una finzione da adolescente ammalato di romanticismo, o un impulso di quella che Eli chiamerebbe facoltà volitiva. No; era — se posso usare un termine così altisonante — un’autentica posizione filosofica, alla quale ero giunto seguendo una logica rigorosa.
Ciò che più di ogni altra cosa m’indusse ad accarezzare l’idea del suicidio fu la morte di mio padre, avvenuta ad appena trentasei anni. Sulle prime mi parve una tragedia intollerabile. Mio padre non era una creatura speciale, se non ai miei occhi: in fin dei conti, non era che un agricoltore del Kansas. In piedi alle cinque del mattino, a letto alle nove di sera. Neanche una briciola di cultura. Tutto quello che leggeva era la gazzetta della contea, e talvolta la Bibbia, benché in massima parte fosse roba al di là della sua comprensione. Ma ha lavorato sodo per tutta la sua breve vita. Era un brav’uomo, con un forte senso del dovere.
La terra era stata già di suo padre, e lui ci sgobbò fin dall’età di dieci anni, con una sola interruzione per andare soldato; fece i suoi bravi raccolti, pagò i debiti, ricavò più o meno di che vivere, riuscì perfino a comprarsi un’altra quindicina di ettari, e pensava di potersi allargare. Nel frattempo si sposò, diede piacere a una donna, generò dei figli.
Era un semplice. Non avrebbe capito nulla di quanto è capitato da quelle parti nei dieci anni successivi alla sua morte. Ma era un uomo perbene a modo suo e si era guadagnato il diritto di avere una serena vecchiaia. Sedere nella veranda a fumare la pipa, andare a caccia in autunno, lasciare ai figli il lavoro massacrante, veder crescere i nipotini. E invece non ha avuto una serena vecchiaia. Non ha avuto neanche un’età di mezzo. Gli è scoppiato il cancro nei visceri ed è morto rapidamente. Fra dolori indicibili, ma rapidamente.
Questo cominciò a farmi riflettere. Se è possibile essere stroncati così, se si deve vivere giorno per giorno sotto una sentenza di morte senza mai sapere quando verrà eseguita, allora perché vivere? Perché dare alla Morte la soddisfazione di comparire a reclamarci quando meno siamo pronti? Meglio andarcene prima. Meglio non subire l’ironia di essere abbattuti come punizione per aver dato un senso alla propria vita.
Per quello che ho capito di mio padre, il suo scopo nella vita consisteva nel seguire la via del Signore e nell’estinguere l’ipoteca sul terreno. Il primo lo raggiunse, e il secondo fu lì lì per sfiorarlo. Il mio era più ambizioso: farmi un’istruzione, tirarmi fuori dal lavoro dei campi, diventare un medico, uno scienziato. Non suona grandioso? Il dottor Oliver Marshall, premio Nobel per la medicina, che si è elevato dall’ambiente di crassa ignoranza delle regioni agricole fino a divenire un esempio luminoso per noi tutti. Ma il mio scopo non differiva da quello di mio padre, se non per la distanza della meta. Anche il mio destino, come già il suo, era di trascorrere la vita lavorando sodo e sgobbando onestamente.
Ma io non me la sentivo. Risparmiare, prepararmi agli esami, fare domanda per una borsa di studio, imparare latino e tedesco, anatomia, fisica, chimica, biologia, rompermi la testa su cose più dure di qualsiasi fatica che mio padre avesse mai affrontato… e poi morire? Morire a sessantacinque anni, o a cinquantacinque, o a quarantacinque, o — come mio padre — a trentasei? Proprio quando si è pronti a iniziare la vita, ecco già giunto il momento di andarsene. E allora, perché darsi da fare? Perché sottomettersi all’ironia del destino? Pigliamo Kennedy: tutto quel dispendio di energie e di capacità, allo scopo di arrivare alla Casa Bianca, e poi la fucilata in testa. La vita è uno spreco. Più si riesce a migliorare se stessi, più amaro diventa il dover morire. Io, con i miei progetti e le mie ambizioni, mi preparavo solo a cadere da molto più in alto della maggioranza. Perciò, dato che dovevo comunque morire, decisi di truffare la Morte sopprimendomi di mia mano prima ancora d’intraprendere il cammino verso il pessimo scherzo che m’attendeva.
Così dunque riflettevo, a undici anni. Stesi vari elenchi dei possibili sistemi per scomparire dalla scena. Tagliarmi i polsi? Aprire il rubinetto del gas? Infilarmi in testa un sacchetto di plastica? Avventurarmi sul ghiaccio sottile, in gennaio? Provocare un incidente di macchina? Avevo cinquanta piani diversi. Li sistemai in ordine di preferenza. Li risistemai. Misi a confronto i tipi di morte rapida e dolorosa con quelli di morte lenta ma senza sofferenze. Per sei mesi studiai il suicidio con la stessa passione con cui Eli studia i verbi irregolari.
In quei sei mesi morirono due dei miei nonni. Mi morì il cane. Mio fratello maggiore rimase ucciso in guerra. Mia madre ebbe il primo attacco di cuore di una certa gravità, e il medico mi rivelò a quattr’occhi che non sarebbe campata un altr’anno. Il che si dimostrò esatto.
Tutto ciò avrebbe dovuto rafforzare la mia decisione: vattene, Oliver, vattene, vattene subito, prima che le tragedie della vita ti si avvicinino ancora di più! Sei destinato a morire, proprio come gli altri; perciò, perché prendere tempo? Muori subito. Muori subito. Risparmiati un sacco di fastidi.
E invece, cosa strana, il mio interesse al suicidio svanì rapidamente, anche se la mia filosofia non cambiò. Cessai di elencare i modi di uccidermi. Cominciai a fare piani per il futuro, invece di partire dal presupposto che me ne sarei andato entro pochi mesi. Decisi di non arrendermi alla Morte ma di combatterla. Sarei entrato all’università, sarei diventato uno scienziato, avrei appreso tutto ciò che mi fosse stato possibile, e forse avrei anche spinto un pochino più in là i confini del regno della Morte.
E adesso so per certo che non mi ucciderò mai. Non ne avrò mai più l’intenzione. Andrò avanti a lottare fino alla fine; e se la Morte dovesse venire a ridermi in faccia, le riderò in faccia a mia volta. E c’è un’altra cosa. Supponiamo che il Libro dei Teschi sia autentico. Supponiamo che esista davvero il modo di sfuggire alla morte. In tal caso mi sarei fatto proprio un bello scherzo, dieci anni fa, se mi fossi tagliato i polsi.
Devo aver già guidato per sei o settecento chilometri, oggi, e non è ancora mezzogiorno. Qui le strade sono grandi: ampie, diritte, vuote. Amarillo è laggiù davanti a noi. E poi Albuquerque. E poi Phoenix. E poi, finalmente, cominceremo a scoprire un sacco di cose.