Hanno fatto bene, a scegliere come ubicazione della Casa dei Teschi questa regione crudele e inaridita. I culti di antica origine devono circondarsi di mistero e di romantica inaccessibilità, se vogliono conservarsi a dispetto della cacofonica babele del ventesimo secolo scettico e materialista. Un deserto è l’ideale. Qui il cielo è talmente azzurro da far dolere gli occhi, il suolo è una sottile crosta bruciata che ricopre uno zoccolo di roccia, i cespugli e gli alberi sono contorti, spinosi, stranissimi. In un posto come questo, il tempo non scorre. Il mondo moderno non può né intrufolarsi né gettare la propria corruzione. Le antiche divinità possono prosperare in pace. Le antiche salmodie si elevano al cielo, non contaminate da rumore di traffico o rimbombo di macchinari.
Dico tutto questo a Ned, ma lui non è d’accordo: il deserto è ovvio e plateale, afferma, e perfino un po’ di cattivo gusto; il luogo adatto per sopravvissuti dell’antichità quali i Custodi dei Teschi è il cuore di una città animata, dove il contrasto fra la loro e la nostra natura sarebbe il maggiore possibile. Per esempio un bell’edificio signorile nella Sessantatreesima Strada Est, dove i preti potrebbero con soddisfazione praticare i loro riti a contatto di gomito con gallerie d’arte e saloni di bellezza per cani. Un’altra possibilità, suggerisce ancora Ned, sarebbe un’officina a un piano, in mattoni e lastre di vetro, in un’area industriale di periferia: un’officina per la costruzione di condizionatori d’aria e attrezzature per ufficio. Il contrasto è tutto, afferma Ned. L’assurdità è essenziale. Il segreto dell’arte sta nel conseguire un’armonia di giustapposizioni; e cos’è la religione se non una categoria di arte?
Ma io concludo che Ned mi sta pigliando in giro, come al solito. In ogni caso io non accetto le sue teorie sul contrasto e la giustapposizione. Questo deserto, questa distesa arida, è la sede perfetta per la base operativa di coloro che non moriranno mai.
Quando usciamo dal Nuovo Messico ed entriamo nell’Arizona meridionale ci lasciamo alle spalle le ultime tracce dell’inverno. Fino ad Albuquerque l’aria era stata fredda, talvolta perfino gelida; ma l’altitudine è maggiore, in quella zona. Poi il terreno si è abbassato a mano a mano che procedevamo verso il confine, verso Phoenix. La temperatura è salita bruscamente, da dieci a venti gradi e più. Le montagne sono più basse e sembrano fatte di particelle di terra bruno-rossiccia compresse in mucchi e cosparse di colla: io mi figuro che potrei praticarvi una buca profonda usando solo un dito. Alture dolci, morbide, vulnerabili, praticamente nude. Hanno un’aria marziana.
Anche la vegetazione è diversa. Invece di scure distese di cespugli deambulanti, e pini piccoli e contorti, qui c’è una rada foresta di cactus giganteschi che si ergono come tanti itifalli dal suolo bruno e squamoso.
Ned ci tiene una lezione di botanica. Quelli là, dice, quei cactus più alti dei pali del telefono, con i bracci piuttosto grossi, sono i saguaro; e quegli arbusti grigiazzurri che sembrerebbero originali di un altro pianeta, senza foglie, con i rami che terminano, a spina, sono i palo verde; e quei viluppi di rami legnosi, rivolti verso l’alto ma pieni di protuberanze, vengono chiamati ocotillo.
Ned conosce bene, il sudovest. Qui si sente proprio come a casa sua, perché un paio d’anni fa ha trascorso l’estate nel Nuovo Messico. Ma si sente a casa sua dappertutto, Ned. Gli piace parlare della fratellanza internazionale degl’invertiti: dovunque vada, è sicuro di trovare alloggio e compagnia presso i suoi consimili. Vale la pena di soffrire tutti i traumi (peraltro leggeri) dovuti al fatto di essere invertiti in una società di «normali», se si ha la certezza che esistono posti in cui si è benvenuti per nessun’altra ragione se non perché si è membri della stessa «tribù». Neppure quelli della mia tribù sono così ospitali.
Attraversiamo il confine e filiamo verso Phoenix. Per un tratto, il terreno si fa più montagnoso e meno squallido. Terra d’indiani, questa: indiani Pima. Cogliamo una rapida visione di Coolidge Dam, e ci vengono in mente le lezioni di geografia del terzo anno.
Siamo ancora un centocinquanta chilometri a est di Phoenix, quando vediamo una serie di cartelli pubblicitari che ci suggeriscono (anzi, ci ordinano perentoriamente) di fermarci in un certo albergo, in città: FATE UNA VACANZA FELICE NELLA VALLE DEL SOLE. Il sole già ci opprime, anche se è pomeriggio tardi: sospeso lassù sopra il parabrezza, ci getta negli occhi una pioggia di rossodorati strali di fuoco. Oliver, che guida come un automa, tira fuori un paio di occhiali da sole avvolgenti, di quelli con le lenti argentate, e prosegue imperterrito.
Sfrecciamo attraverso una città che si chiama Miami. No, non è quella delle spiagge e delle matrone in visone. L’aria è tinta di rosa e di viola a causa del fumo che esce dalle ciminiere; la puzza è tale e quale quella che doveva esserci ad Auschwitz. Ma cosa staranno cremando, qui? Poco prima del centro della città vediamo un’enorme montagnola a forma d’incrociatore: è il materiale di scarto di una miniera di rame, accumulatosi con gli anni. Di fronte, sull’altro lato della statale, c’è un motel colossale e sfarzoso: suppongo che sia a beneficio di coloro che praticano così in bella vista quello stupro ambientale. Ciò che stanno cremando, qui, è la natura stessa.
Filiamo via, nauseati, e poco dopo ci troviamo di nuovo nel deserto. Saguaro, palo verde, ocotillo. Sfrecciamo attraverso una gallerìa di montagna. Terreno selvaggio, abbandonato, senza città. Le ombre si allungano. Caldo, caldo, caldo.
E poi, d’un tratto, ecco i tentacoli della vita urbana che si protendono fin lì dall’ancora lontana Phoenix: suburbi, centri-acquisti, stazioni di rifornimento, bancarelle che vendono ricordini indiani, motel, luci al neon, chioschi di cibi pronti che offrono taco, budini alla crema, hot dog, polli fritti, panini al rosbif.
Convinciamo Oliver a fermarsi e mangiamo dei taco all’irreale luce giallastra dei lampioni. Poi via di nuovo. La strada è fiancheggiata da enormi empori, la cui facciata è una superficie unica senza finestre. Questa è la regione del denaro, la sede dell’opulenza. Io sono straniero in terra straniera: un povero ebreo del nordest, disorientato e fuor d’acqua, che passa rapido fra i cactus e le palme. Così lontano da casa! E queste città piatte, queste banche a un solo piano che luccicano di vetri verdastri e di insegne psichedeliche in plastica! Case color pastello, con decorazioni rosa e verdi. Una regione che non ha mai conosciuto la neve. Dappertutto sventolano bandiere americane. Prendere o lasciare.
Mesa, la Via Principale. Accanto alla strada si erge la Facoltà di Agricoltura Sperimentale dell’Università dell’Arizona. Lontanissime montagne si profilano all’orizzonte nel crepuscolo azzurrognolo. Poi eccoci in Viale Apache, nella città di Tempe. La strada descrive una curva, le ruote stridono. E di colpo ci troviamo nel deserto. Niente vie, niente cartelli, niente di niente: è una terra di nessuno. Scure sagome irregolari alla nostra sinistra: colline, montagne. In lontananza si vedono fari di auto. Pochi minuti e quella desolazione termina: abbiamo attraversato l’intercapedine fra Tempe e Phoenix, e adesso siamo in Via Van Buren. Negozi, case, motel.
— Prosegui fino in centro — dice Timothy.
La sua famiglia, a quanto pare, possiede il pacchetto di maggioranza di uno dei motel di lusso della città: ci fermeremo appunto lì. Altri dieci minuti, attraverso un quartiere piccoli motel da cinque dollari per notte e di negozi di libri usati, e arriviamo in centro. Qui ci sono grattacieli di dieci o dodici piani, palazzi di banche, la sede di un giornale, grandi alberghi. Il caldo è spaventoso, sui trentadue gradi. Siamo solo a fine marzo: che temperatura ci sarà, in agosto?
Ecco il nostro motel. Davanti, un cammello di pietra. E una grande palma, vera. Atrio stretto, affollato. Timothy si registra. Ci viene assegnato un appartamento. Secondo piano, sul retro. C’è una piscina.
— Chi ci sta, a fare una nuotata? — propone Ned.
— E poi una cena messicana — aggiunge Oliver.
Abbiamo i bollenti spiriti. Questa è Phoenix, in fin dei conti. Ci siamo proprio arrivati. Abbiamo quasi raggiunto la nostra meta. Domani andremo verso nord, alla ricerca del ritiro segreto dei Custodi dei Teschi.
Mi sembrano anni, da quando la faccenda ha avuto inizio.
Un accenno casuale, distratto, nella pagina turistica del giornale della domenica. Un «monastero» nel deserto, non molto a nord di Phoenix, dove dodici o quindici «monaci» praticano una specie di cristianesimo tutto loro particolare.
— Sono risaliti una ventina di anni fa dal Messico, dove si ritiene che siano giunti dalla Spagna intorno all’epoca di Cortes. Economicamente autosufficienti, vivono staccati dal mondo e non incoraggiano le visite di estranei, benché si comportino in modo educato e cordiale con chiunque capiti per caso nel loro remoto ritiro circondato dai cactus. La bizzarra architettura è una combinazione di stile paleocristiano e di presumibili motivi aztechi. Uno dei simboli ricorrenti (che dà al monastero un aspetto bizzarro, quasi irreale) è il teschio umano. Ci sono teschi ovunque, con la mandibola aperta o chiusa, in altorilievo o a tutto tondo. Un lungo fregio a teschi sembra ricalcato su quelli di Chichén Itzá, nello Yucatán. I monaci sono magri, pieni di fervore, con la pelle abbronzata e indurita dall’esposizione al sole e al vento del deserto. Cosa abbastanza strana, sembrano al tempo stesso vecchi e giovani. Quello con cui ho parlato, e che non ha voluto dirmi il suo nome, poteva avere sia trent’anni che trecento…
È solo per caso che mi capitò di notare questo trafiletto mentre scorrevo distrattamente la pagina turistica. È solo per caso che mi s’impressero nella memoria alcune di quelle strane immagini: il fregio di teschi, le facce vecchie-giovani… È solo per caso che pochi giorni dopo mi capitò fra le mani il manoscritto del Libro dei Teschi, nella biblioteca dell’università.
La nostra biblioteca ha una geniza, una sezione di anticaglie, manoscritti, apocrifi, che nessuno si è mai preso la briga di tradurre, decifrare, classificare, o almeno esaminare. Suppongo che tutte le grandi università abbiano un deposito simile, con una miscellanea di documenti ottenuti grazie a lasciti o portati alla luce durante scavi compiuti dall’università stessa: documenti che poi se ne stanno lì ad aspettare (vent’anni? cinquanta?) che qualche studioso li esamini con cura.
Il nostro deposito è più ricco di tanti altri perché tre generazioni di bibliotecari hanno avidamente accumulato i tesori dell’antichità più in fretta di quanto un battaglione di studiosi potrebbe mai tenersi al corrente dei nuovi arrivi. Con questo sistema è inevitabile che qualche documento rimanga in disparte, sommerso dall’incessante marea, e che finisca nascosto, dimenticato, derelitto.
E così noi abbiamo scaffali pieni zeppi di documenti sumeri e babilonesi in caratteri cuneiformi, la maggior parte dei quali portati alla luce durante i nostri famosi scavi del 1902-1905 nella Mesopotamia meridionale; abbiamo scatoloni di papiri intonsi delle ultime dinastie; abbiamo chili di materiale proveniente dalle sinagoghe irachene, non soltanto rotoli della Torah ma anche contratti di matrimonio, sentenze del tribunale, contratti d’affitto, poemi; abbiamo bastoni in legno di tamerisco, con iscrizioni, provenienti dalle grotte di Tun-huang (dono negletto di Aurel Stein, chissà di quanto tempo fa); abbiamo casse di registri parrocchiali provenienti dagli ammuffiti archivi di antichi castelli dello Yorkshire; abbiamo frammenti e strisce di codici del Messico precolombiano; abbiamo cataste di inni sacri provenienti dai monasteri pirenaici del quattordicesimo secolo.
Per quel che se ne sa, la nostra biblioteca potrebbe possedere una Stele di Rosetta in grado di svelare i segreti della scrittura di Mohenjo Daro; potrebbe avere la grammatica etrusca dell’imperatore Claudio; potrebbe comprendere, fuori catalogo, le memorie di Mosè o il diario di Giovanni Battista. Queste scoperte, se è destino che siano fatte, saranno fatte da altri cacciatori che si spingeranno nelle buie e polverose gallerie del deposito sotto l’edificio principale della biblioteca. Ma io, io sono quello che ha scoperto il Libro dei Teschi.
In verità non lo stavo cercando. Non ne avevo mai sentito parlare. Avevo rimediato il permesso di accedere al sotterraneo per cercare una raccolta di manoscritti di versi mistici catalani del tredicesimo secolo, presumibilmente ottenuta nel 1893 dall’antiquario barcellonese Jaime Maura Gudiol. Il professor Vasquez Ocaña, col quale dovrei eseguire una serie di traduzioni dal catalano, aveva sentito parlare della raccolta Maura dal suo professore, trenta o quarant’anni fa, e si ricordava vagamente di aver avuto per le mani qualcuno di quei manoscritti. Consultando stinte schede compilate con l’inchiostro copiativo del diciannovesimo secolo, appresi in quale punto del sotterraneo era probabile che si trovasse la raccolta Maura, e andai a vedere.
Locale buio; scatoloni ancora sigillati; un’infinità di cartellette di custodia; niente fortuna. Un gran tossire per la polvere. Dita annerite, faccia imbrattata. Proviamo un altro scatolone e poi basta.
Ed ecco: una custodia rigida in carta rossa contenente uno splendido manoscritto miniato, su fogli di ottima pergamena. Il titolo, adorno di ricchi fregi: LIBER CALVARIORUM. Il Libro dei Teschi.
Un titolo affascinante, sinistro, romantico. Girai una pagina. Chiara, ferma, elegante scrittura unciale del decimo o undicesimo secolo; testo non in latino ma in un catalano molto latineggiante, che tradussi a prima vista. Sappi questo, o nobile di nascita: la vita eterna offriamo a te. Il più maledettamente bislacco inizio di testo che avessi mai incontrato. Per caso avevo commesso un errore d’interpretazione? No. La vita eterna offriamo a te.
La pagina conteneva un paragrafo di testo, non tutto così facile da capire subito come l’inizio; lungo la base e il margine sinistro c’erano otto teschi umani splendidamente dipinti, ciascuno separato dal successivo mediante due colonne che reggevano un arco romanico. Soltanto uno conservava la mandibola. Uno era coricato di fianco. Ma tutti sogghignavano, e nelle loro orbite scure brillava un lampo di malizia: come se ciascuno di quei teschi dicesse dall’oltretomba: ti sarà di qualche giovamento apprendere le cose che noi abbiamo potuto imparare solo qui.
Mi sedetti su una cassa di antiche pergamene e scorsi rapidamente il manoscritto. Dodici fogli, tutti decorati con disegni di genere tombale: femori incrociati, lapidi rovesciate, un paio di bacini, e teschi, teschi, teschi, teschi. Tradurre a vista non mi fu possibile: la maggior parte delle parole mi erano oscure, poiché non erano né in latino né in catalano ma in una fantastica lingua intermedia. Tuttavia mi fu presto chiaro il senso generale.
Il testo era indirizzato a un certo principe dall’abate di un monastero che godeva della protezione del medesimo, ed era essenzialmente un invito a ritirarsi dalle vanità del mondo allo scopo di condividere i «misteri» di quell’ordine monastico. Le pratiche dei monaci, diceva l’abate, erano dirette alla sconfitta della Morte; e con ciò non intendeva il trionfo dello spirito nell’aldilà ma il trionfo del corpo in questo mondo. La vita eterna offriamo a te. Contemplazione, esercizi spirituali e fisici, dieta appropriata, e così via… Ecco le porte verso la vita imperitura.
Un’ora di fatica e sudore mi permise di ricavare i passi seguenti:
«Il Primo Mistero è questo: il teschio giace sotto il volto, così come la morte giace lungo la vita. Ma in ciò, o nobile di nascita, non vi ha paradosso, poiché la morte è la compagna della vita e la vita è la messaggera della morte. Se solo si potesse penetrare attraversò il volto fino al teschio sottostante e porgergli amicizia; sarebbe possibile… (il resto non riuscii a decifrarlo).
«Il Sesto Mistero è questo: il nostro dono sarà sempre spregiato e noi saremo sempre in fuga tra gli uomini, tanto che dovremo passare da un luogo all’altro, dalle grotte del nord alle grotte del sud, da (???) dei campi a (???) della città, così come è avvenuto nelle centinaia di anni della mia esistenza e nelle centinaia di anni dell’esistenza dei miei progenitori…
«Il Nono Mistero è questo: il prezzo di una vita non può mai essere altro che una vita. Sappi, o nobile di nascita, che le eternità devono essere controbilanciate dalle estinzioni, e per questo ti chiediamo di mantenere con lietezza l’equilibrio prestabilito. Due di te ci impegniamo ad accogliere nel nostro gregge. Due dovranno andare nelle tenebre. Come, vivendo, moriamo giorno per giorno, così, morendo, vivremo per sempre. C’è fra te uno che sia disposto a rinunciare all’eternità in favore dei suoi fratelli della figura quadrilatera, in modo che loro possano giungere a comprendere il significato dell’abnegazione? E c’è fra te uno che i suoi compagni accettino di sacrificare, in modo da poter giungere a comprendere il significato dell’esclusione? Le vittime si scelgano da sé. Dimostrino, con la qualità del loro dipartire, la qualità della propria vita…».
C’era dell’altro ancora: diciotto Misteri in tutto, più una perorazione in parole assolutamente incomprensibili. Rimasi subito avvinto. Non tanto da un immediato collegamento con quel tal monastero in Arizona, quanto piuttosto dal fascino intrinseco del testo, dalla sua sobria bellezza, dalle sue minacciose decorazioni, dai suoi ritmi scanditi.
Portar via il manoscritto dalla biblioteca era impossibile, naturalmente; ma io risalii le scale, sbucando dal sotterraneo come la sudicia ombra di Banquo, e chiesi di poter usare una stanzetta di lettura sepolta fra le alte file di scaffali.
Mi recai negli alloggi e feci un bagno. Non dissi nulla a Ned circa la mia scoperta, benché avesse capito subito, anche solo guardandomi, che avevo la mente tutta presa da qualcosa. Infine tornai in biblioteca, armato di blocco e matite e dei miei dizionari. Il manoscritto si trovava già sul tavolo di quel cubicolo scarsamente illuminato, dove mi arrabbattai a tradurre fino alle dieci di sera, ora di chiusura.
Sì, non c’erano dubbi: quegli spagnoli affermavano di possedere un metodo per conseguire l’immortalità. Il manoscritto non faceva il minimo accenno al procedimento, ma si limitava ad affermare in continuazione che funzionava. Trovai ripetuta spesso l’immagine simbolica del «teschio sottostante al volto»: per essere un culto orientato verso la vita, sembrava fin troppo attirato dall’iconografia tombale. Forse si trattava di quella discontinuità essenziale, di quelle giustapposizioni discordi, di cui Ned fa grande uso nelle sue teorie estetiche.
Il manoscritto, comunque, diceva chiaramente che alcuni di quei monaci adoratori di teschi (se non tutti) vivevano da secoli. Oppure da millenni? Un passo ambiguo del Sedicesimo Mistero faceva pensare a un’epoca anteriore a quella dei Faraoni.
Evidentemente la loro longevità destava il rancore dei mortali che ne venivano a conoscenza, contadini o nobili che fossero: spesso avevano dovuto cambiare sede, cercando ogni volta un luogo in cui potessero esercitare in pace le loro pratiche.
Dopo tre giorni di duro lavoro avevo la traduzione riveduta e corretta dell’85 per cento del testo e una stesura preliminare del rimanente. Feci tutto da solo, salvo consultare il professor Vasquez Ocaña per qualcuna delle frasi più difficili. (Naturalmente non gli feci parola del manoscritto; e quando mi chiese se avevo scoperto il nascondiglio della raccolta Maura Gudiol, diedi una risposta vaga).
A questo punto pensavo ancora che tutta la faccenda fosse solo un’affascinante fantasia. Da ragazzo avevo letto Orizzonte perduto; ricordavo bene Shangri-La, il monastero celato sull’Himalaya, i monaci che praticavano lo yoga e respiravano aria pura, la meravigliosa e sconvolgente frase «Lei è ancora vivo, Padre Perrault!».
Roba del genere non la si prende certo sul serio. Con gli occhi della mente vidi la mia traduzione già pubblicata, ad esempio su Speculum, e accompagnata, da adeguati commenti sulla credenza medioevale nell’immortalità e da riferimenti alle leggende del Prete Giovanni, a Sir John Mandeville, ai romanzi del ciclo alessandrino. La Confraternita dei Teschi; i Custodi dei Teschi, ossia i grandi sacerdoti del culto; l’Iniziazione alla quale devono sottoporsi contemporaneamente quattro candidati, due soli dei quali sopravviveranno; l’accenno ad antichi misteri giunti a noi attraverso i millenni; be’, tutto ciò poteva ben essere una novella narrata da Sheherazade, no?
Mi presi la briga di consultare attentamente la versione delle Mille e una notte fatta da Sir Richard F. Burton (tutti e sedici i volumi) pensando che forse questa favola di teschi era stata portata in Catalogna dai saraceni, nell’ottavo o nono secolo. Niente da fare. Qualunque cosa fosse ciò che avevo trovato, non derivava dalle Mille e una notte. Per caso faceva parte del ciclo di Carlomagno? O magari era un’opera ancora sconosciuta della letteratura romanza?
Consultai mastodontici cataloghi di motivi mitologici medioevali. Niente. Mi addentrai ancora di più nel passato. In una sola settimana divenni un esperto dell’intera letteratura relativa all’immortalità e alla longevità. Titone, Matusalemme, Gilgamesh, il pescatore Glauco, gl’immortali seguaci del Tao…
Ed ecco l’illuminazione interiore, il pulsare della fronte, l’urlo selvaggio che fece accorrere gli assistenti da tutti gli angoli della biblioteca.
Arizona! Monaci venuti dal Messico, e lì giunti dalla Spagna! Il fregio con i teschi! Cercai affannosamente quell’articolo nella pagina turistica del giornale della domenica. Lo lessi in una specie di delirio.
«Ci sono teschi dovunque, con la mandibola aperta o chiusa, in altorilievo o a tutto tondo… I monaci sono magri, pieni di fervore… Quello con cui ho parlato poteva avere sia trent’anni che trecento…».
Lei è ancora vivo, Padre Perrault! La mia mente si trasse indietro, attonita. Potevo credere a cose simili? Io, scettico, irriverente, materialista, pragmatista? Immortalità? Un culto antico di millenni? Poteva mai esistere, una cosa del genere? I Custodi dei Teschi che prosperavano fra i cactus? Non un mito medioevale, non una leggenda, ma una reale comunità mistico-religiosa giunta di epoca in epoca fino alla nostra civiltà delle macchine e che potevo andare a visitare in qualunque momento avessi deciso di compiere il viaggio? Andarci, e presentarmi come candidato. Sottopormi all’Iniziazione. Eli Steinfeld ancora vivo all’alba del trentaseiesimo secolo!
No, tutto ciò era oltre ogni credibilità. Respinsi la «giustapposizione» di manoscritto e articolo di giornale in quanto pura coincidenza; poi, riflettendoci sopra, ritirai il rifiuto; e infine andai oltre e accettai tutto.
Mi fu necessario un vero e proprio atto di fede, il primo che avessi mai compiuto in vita mia. Mi costrinsi a riconoscere che potevano esserci certe forze superiori alla comprensione della scienza contemporanea. Mi costrinsi a perdere l’abitudine mentale di accantonare l’ignoto fino a quando sia corroborato da prove inconfutabili. Mi aggregai con gioia ed entusiasmo ai sostenitori di Atlantide, dei dischi volanti, della Terra piatta, della macrobiotica, dell’astrologia: a tutta quella masnada di creduloni in compagnia dei quali mi ero sentito raramente a mìo agio prima di allora.
E infine credetti. Credetti in pieno, pur ammettendo la possibilità di errore. Credetti. Poi ne parlai a Ned, e in seguito a Oliver e a Timothy. Gli agitai l’esca sotto il naso. La vita eterna offriamo a te.
E ora eccoci a Phoenix. Palme, cactus, il cammello davanti al motel; eccoci qua. Domani avrà inizio l’ultima fase della nostra ricerca della Casa dei Teschi.