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Adesso abbiamo qualcosa di cui preoccuparci, ma almeno ci lasciano preoccupare con tutte le comodità. Una stanza personale per ciascuno, austera ma bella, confortevolissima.

La Casa dei Teschi è molto più grande di quanto appare dall’esterno: le due ali posteriori sono enormemente lunghe, e nell’intero complesso — escludendo eventuali altri locali sotterranei — ci saranno cinquanta o sessanta stanze. Nessuna di quelle che ho visto possiede finestre. Quelle centrali, che chiamerei stanze pubbliche, hanno il soffitto scoperto, ma le camere in cui vivono i frati sono completamente chiuse. Non ho visto ventilatori o tubazioni che indichino la presenza di un impianto di aria condizionata, ma quando si passa da una stanza senza soffitto a una priva di aperture sull’esterno si avverte un brusco abbassamento di temperatura, dal caldo torrido del deserto alla confortevolezza di una camera d’albergo.

L’architettura è semplice. Nude stanze rettangolari le cui pareti e il cui soffitto, di ruvida arenaria bruna non ricoperta da intonaco, sono privi di modanature o travi in vista o altri ammennicoli decorativi. Tutti i pavimenti sono di ardesia scura, e non ci sono tappeti. Il mobilio è un po’ scarso: la mia stanza offre soltanto un basso lettino di tronchi uniti mediante una grossa fune, e un cassone corto e tozzo (per riporre i miei averi, suppongo) in un durissimo legno nero magnificamente lavorato. La sobrietà generale è attenuata da una fantastica raccolta di bizzarre maschere e statuette (precolombiane, immagino) appese alle pareti, collocate agli angoli delle stanze, sistemate in nicchie: facce terrificanti, tutte angoli e superfici ruvide, magnifiche nella loro mostruosità.

Il simbolo del teschio è onnipresente. Non ho la minima idea di cos’abbia indotto quel cronista a ritenere che questo luogo fosse occupato da «monaci» di fede cristiana; il ritaglio che ha Eli parla di «combinazione di stile paleocristiano e di presumibili motivi aztechi», e l’influsso azteco si vede chiaramente, ma quello cristiano dov’è? Qui non ci sono croci, né vetrate colorate, né immagini dei santi o della Sacra Famiglia, né altri oggetti consimili. La natura di questo luogo è pagana, primitiva, preistorica: potrebbe essere il tempio di un antico dio messicano, o addirittura di una divinità dell’uomo di Neanderthal. Comunque Gesù è assente, o io non sono più un bostoniano di origine irlandese.

Forse questa pulita e fredda e austera ricercatezza ha dato al cronista l’impressione di trovarsi in un monastero medioevale (gli echi, i silenziosi corridoi nei quali sembrano risuonare solenni canti gregoriani); ma senza simbolismo del cristianesimo non può esserci cristianesimo, e i simboli qui esposti sono di tutt’altro genere.

L’effetto complessivo è di un lusso bizzarro unito a un’enorme povertà stilistica: tutto è ridotto al minimo essenziale, ma un senso di potere e grandezza emana ugualmente dalle pareti, dai pavimenti, dagl’interminabili corridoi, dalle nude stanze, dall’arredamento severo e spoglio.

La pulizia è tenuta chiaramente in grande considerazione. L’impianto idraulico è straordinario, con fontane zampillanti disseminate nelle «stanze pubbliche» e nei corridoi più grandi. La mia stanza possiede un’ampia vasca incassata, rivestita di elegante ardesia verde, che potrebbe andar bene per un maharaja o per un Papa del Rinascimento.

Assegnandomi la stanza, Fra Antonio ha detto che se volevo fare il bagno potevo usare liberamente la vasca. La sua garbata affermazione aveva la forza di un ordine. Non che avessi bisogno di essere esortato: la scarpinata nel deserto mi aveva penosamente coperto di sporcizia.

Mi sono concesso una lunga e voluttuosa insaponata, dimenandomi sulla liscia ardesia; e quando ne sono uscito ho scoperto che i miei panni luridi e sudati erano scomparsi, compresi perfino gli stivali. Al loro posto ho trovato sul mio letto un paio di calzoni corti, di aspetto consunto ma puliti, simili a quelli che indossava lo stesso Fra Antonio.

Benissimo; qui, a quanto pare, il precetto filosofico essenziale è: meno si ha, più si ha. Diamo l’addio a camicia e mutande; mi abituerò ad avere addosso soltanto i calzoni sui lombi nudi. Siamo arrivati in un posto davvero interessante.

Rimane comunque da risolvere il problema numero uno: questo luogo ha qualche correlazione col manoscritto medioevale scovato da Eli e col preteso culto dell’immortalità? Io credo di sì, ma non posso ancora esserne sicuro.

Ho dovuto proprio ammirare l’abilità istrionica del frate, il modo mirabilmente ambiguo in cui si è tolto dall’imbarazzo quando Eli ha accennato al Libro dei Teschi. Il Libro dei Teschi? Cosa sarà mai, questo Libro dei Teschi? E via che è uscito, così riprendendo subito le redini della situazione.

Davvero non sapeva nulla del Libro dei Teschi? Ma allora perché è apparso tanto scosso, anche se solo per un attimo, quando Eli l’ha nominato? Possibile che sia soltanto una coincidenza, questa passione per il simbolo del teschio? Che il Libro dei Teschi sia stato dimenticato dai suoi stessi seguaci? Che il frate abbia voluto giocare con noi come il gatto col topo, per gettarci nell’incertezza? L’estetica del tormento psichico: quanta arte si basa su questo principio! E così saremo tormentati per un po’.

Vorrei andare a parlare con Eli, nella sua stanza lungo il corridoio. Lui ha una mente agile, sa interpretare molto bene le sfumature. Desidero sapere se è rimasto perplesso per la risposta di Fra Antonio alla sua affermazione. Ma suppongo che dovrò attendere, prima di poter parlare con Eli: solo ora mi accorgo che la porta della mia stanza è chiusa a chiave.

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