Arriviamo a Chicago all’imbrunire, dopo una lunga giornata di viaggio. Novanta-cento chilometri all’ora, ore e ore interrotte soltanto da rare soste. Nelle ultime quattro ore non ci siamo fermati neppure una volta: Oliver divorava i chilometri, incollato al volante come un matto.
Gambe incrampite. Sedere indolenzito. Occhi vitrei. Il mio cervello ha le ragnatele, imbesuito com’è dal troppo viaggiare. Ipnosi da autostrada.
Mentre il sole tramonta, sembra che tutti i colori abbandonino il mondo: una patina azzurrogrigia sommerge ogni cosa — cielo, campi, asfalto — e le mille sfumature dell’iride scivolano verso l’ultravioletto. È un po’ come trovarsi sull’oceano, incapaci di discernere quanto sta sopra l’orizzonte da quanto sta sotto. Questa notte ho dormito ben poco. Non più di due ore, ma probabilmente molto meno. Quando non eravamo occupati a parlare o a fare l’amore, giacevamo a fianco a fianco in un torpido dormiveglia.
Mickey! Ah, Mickey! Ho ancora sui polpastrelli l’odore di te. Me ne riempio le narici. Tre ne abbiamo fatte, da mezzanotte all’alba! Com’eri intimidita all’inizio, in quella piccola camera da letto il cui intonaco verdolino si staccava a scaglie, con le pareti ricoperte di manifesti psichedelici, mentre ci spogliavamo sotto gli occhi di John Lennon e di Yoko dalle guance cascanti, e poi ti sei stretta tutta nelle spalle cercando di nascondere il petto ai miei occhi e sei scivolata in fretta sotto il riparo delle lenzuola… Perché? Giudichi il tuo corpo così pieno di manchevolezze? D’accordo, sei un po’ secchina, hai i gomiti appuntiti, i seni minuscoli. Non sei una Venere. Hai forse bisogno di esserlo? Sono un Apollo, io? Almeno tu non ti ritrai al mio tocco.
Mi chiedo se sei arrivata all’orgasmo. È una cosa che non riesco mai a stabilire. Dove sono le immense esplosioni di piacere di cui ho letto, accompagnate da sospiri e gemiti e gridolini? Altre ragazze, suppongo. Le mie sono troppo compassate per abbandonarsi a scomposte manifestazioni vulcaniche.
Dovrei farmi monaco. Lasciare le scopate a chi sa scopare, e incanalare le mie energie nella ricerca dei valori elevati. Origene mi sia d’esempio: in un momento d’esaltazione, mi praticherò l’orchidectomia e deporrò sul sacro altare, come un’offerta, i miei testicoli. Dopodiché la passione non mi distrarrà più.
Ahimè, no, mi piace troppo. Concedimi la castità, Signore; ma, ti prego, non subito.
Ho il numero di Mickey. Quando tornerò dall’Arizona le telefonerò. (Quando tornerò? Se tornerò! E quando e se, che cosa sarò divenuto?). Mickey è il tipo giusto per me. A me si addicono mete sessuali modeste. Non fanno per me le bombe al platino, le ragazze alla moda, le disinvolte, le esperte. Per me ci vogliono quelle insignificanti, timide ma dolci. La LuAnn di Oliver mi lascerebbe freddo dopo quindici secondi anche se penso che potrei sopportarla almeno una volta grazie ai seni prosperosi. E la Margo di Timothy? Non parliamo di Margo, d’accordo?
A me va bene Mickey. Mickey: intelligente, pallida, ritrosa, accessibile. Adesso è lontana milletrecento chilometri. Chissà cosa sta raccontando, di me, alle sue amiche. Ingrandisca pure i miei meriti. Mi circondi pure di un alone romantico. Saprò farne buon uso.
Eccoci dunque a Chicago. Perché Chicago? Non è un pochino fuori strada, rispetto al percorso New York-Phoenix? Se qui ci fosse il mare avrei calcolato una rotta in diagonale, passante da Pittsburgh e Cincinnati; ma forse le autostrade più veloci non seguono una linea retta, e in ogni caso siamo venuti a Chicago per espressa volontà di Timothy.
Timothy ci fa una passione, per Chicago. È cresciuto qui; o almeno, la parte di adolescenza che non ha trascorso nella tenuta paterna, in Pennsylvania, l’ha passata nell’attico materno, sul lungolago.
Ci sono forse degli episcopali che non divorziano ogni sedici anni? Ce n’è che non abbiano come minimo due paia di genitori? Io leggo sempre la cronaca matrimoniale nei giornali della domenica. «La signorina Rowan Demarest Hemple, figlia della signora Charles Holt Wilmerding di Grosse Pointe (Michigan), e il signor Dayton Belknap Hemple di Bedford Hills (New York) e di Montego Bay (Giamaica) si sono uniti in matrimonio questo pomeriggio nella cappella episcopale di Tutti i Santi. Ha officiato il reverendo Forrester Chiswell Birdsall IV, figlio della signora Elliott Moulton Peck di Bar Harbor (Maine) e del signor Forrester Chiswell Birdsall III di East Islip (Long Island)». Et cetera ad infinitum.
Chissà che conclave, un matrimonio del genere, con tutte quelle coppie multiple riunite per festeggiare, ciascuno cugino di ciascun altro e tutti sposati due o tre volte a testa. Nomi (tripli nomi) consacrati dal tempo, ragazze che si chiamano Rowan e Choate e Palmer, ragazzi che si chiamano Amory e McGeorge e Harcourt. Io sono cresciuto con ragazze di nome Barbara e Louise e Claire, con ragazzi di nome Mike e Dick e Sheldon. Appartengono proprio a un mondo diverso, questi aristocratici episcopali!
E il divorzio! La madre (signora X. Y. Z.) abita a Chicago, il padre (signor A. B. C. III) appena fuori Filadelfia. I miei genitori, che in agosto festeggeranno il trentesimo anniversario, li ho sempre sentiti urlare per tutta la mia infanzia: divorzio, divorzio, divorzio, ne ho abbastanza, me ne vado e non torno più! La normale incompatibilità della borghesia. Ma divorziare davvero? Andare dall’avvocato? Mio padre si farebbe ricucire il prepuzio, piuttosto. Mia madre se ne andrebbe in giro nuda. Certo, in ogni famiglia ebrea c’è una zia che ha divorziato tanto tempo fa: ma non se ne parla mai. (Capita sempre di scoprirlo quando si origlia la conversazione di parenti più anziani che hanno alzato il gomito e stanno rivangando il passato). Comunque nessuna ha figli. Fra noi non ci sono mai queste congerie di genitori, che danno luogo a complicazioni tipo: ti presento mia madre e suo marito, ti presento mio padre e sua moglie.
Mentre eravamo a Chicago, Timothy non è andato a trovare sua madre. Stavamo non molto a sud di lei, in un motel di fronte al lago (ha pagato Timothy, con la sua carta di credito); ma non le ha neppure telefonato. I teneri e profondi legami tra i membri delle famiglie goyishe, certo. Invece ci ha fatto fare un giro notturno della città, comportandosi in parte come se ne fosse il proprietario unico e in parte come se facesse la guida turistica. Qui abbiamo le torri gemelle di Marina City, qui abbiamo il palazzo John Hancock, questa è l’Accademia di Belle Arti, questi sono i celeberrimi negozi di Madison Avenue.
Sono rimasto veramente impressionato, io che non mi ero mai spinto più a ovest di Parsippany (New Jersey) e che tuttavia mi ero fatto un’immagine chiara e vivida della presumibile natura dell’immensa zona centrale degli Stati Uniti. Mi aspettavo che Chicago fosse sporca e affollata, l’apice dello squallore centroccidentale, con edifici di mattoni rossi e a sette piani, risalenti al diciannovesimo secolo, e una popolazione costituita completamente da operai polacchi e ungheresi e irlandesi, in tuta da lavoro dal primo all’ultimo. E invece è una città di ampi viali e grattacieli luccicanti. L’architettura è sbalorditiva: a New York non c’è nulla che le stia alla pari. Naturalmente siamo rimasti vicino al lago. Spingiti di cinque isolati all’interno, mi ha assicurato Ned, e troverai tutto lo squallore che vuoi.
La sottile striscia di Chicago che abbiamo visitato era un paese delle meraviglie. Timothy ci ha portati a mangiare nel suo prediletto ristorante francese, che sta di fronte a una bizzarra costruzione antica chiamata Torre dell’Acqua.
Ho riscontrato ancora una volta la verità della massima di Fitzgerald sui miliardari: sono davvero diversi da te e me. Io conosco i ristoranti francesi così come potrei conoscere quelli tibetani o marziani. I miei genitori non mi hanno mai portato al Pavillon o allo Chambord per festeggiare qualcosa; siamo andati al Binario d’Ottone quando ho preso il diploma del liceo, da Schrafft quando ho vinto la borsa di studio, poco meno di dodici dollari in tre, e mi sono sempre ritenuto fortunato per questo. Le rare volte che vado a mangiare con una ragazza, la cucina rimane necessariamente a livello pizza o «kung po chi ding».
Il menù del ristorante di Timothy (una cosa davvero stravagante: stampa in oro su fogli di pergamena un po’ più grandi del Times) era per me un mistero. Ma ecco Timothy, il mio caro compagno di corso e di stanza, farsi abilmente strada fra quegli arcani e suggerirci di assaggiare le quenelles aux huître, le crêpes farcies et roulées, le escalopes de veau à l’estragon, i tournedos sautés chasseur, l’homard à l’americane. Oliver, naturalmente, era in alto mare quanto me; ma sono rimasto assai sorpreso vedendo che Ned, di estrazione piccolo-borghese non molto diversa dalla mia, era bene informato e si metteva a discutere con Timothy, da competente, sulle rispettive virtù del gratin de ris de veau, dei rognons de veau à la bordolaise, del caneton aux cerises, della suprême de volaille aux champignons. (L’estate in cui ha compiuto sedici anni, ha spiegato poi, è stato l’amasio di un famoso buongustaio di Southampton).
Per me era decisamente impossibile raccapezzarmi in quel menù, e allora Ned mi ha scelto una cena, mentre Timothy faceva altrettanto con Oliver. Rammento ostriche, zuppa di tartarughe, vino bianco seguito da vino rosso, un fantastico qualcosa d’agnello, patate fatte principalmente di aria, cavolfiori in una densa salsa gialla. Da ultimo, cognac per tutti. Legioni di camerieri aleggiavano intorno a noi, premurosi come se fossimo stati banchieri in baldoria anziché universitari malvestiti. Ho intravisto con la coda dell’occhio il conto, e sono rimasto esterrefatto: 112 dollari, servizio escluso. Con un gesto da gran signore, Timothy ha esibito la sua carta di credito.
Io ho avuto un attacco di febbre, di vertigine, d’indigestione; ho creduto di essere sul punto di vomitare sulla tavola, in mezzo ai candelieri di cristalli, ai parati di stoffa rossa, alle raffinate tovaglie. Poi lo spasmo è passato senza incidenti; una volta fuori mi sono sentito meglio, benché ancora un po’ scombussolato. Ho preso un appunto mentale di dedicare quaranta o cinquant’anni della mia immortalità a un serio studio dell’arte culinaria.
Timothy ha suggerito di proseguire la serata nelle eleganti sale da tè situate più a nord, ma noialtri eravamo stanchi e abbiamo bocciato la proposta. Siamo tornati al motel: quasi un’ora a piedi, in un freddo tagliente.
Avevamo preso un appartamento di due stanze, una per Ned e me e l’altra per Timothy e Oliver. Io tiro giù i vestiti e mi sbatto a letto. Sonno insufficiente, pasto eccessivo: orribile, orribile. Esausto com’ero, sono rimasto più o meno sveglio, in uno stato di torpore malsano. La cena sovrabbondante mi pesava sullo stomaco come una massa di pietre. L’unica soluzione, decido qualche ora dopo, è un bell’emetico. Appena comincio ad avvertirne l’effetto mi dirigo, nudo e barcollante, alla stanza da bagno che divide le nostre due camere. E nel corridoio m’imbatto in un’apparizione terrificante.
Una ragazza nuda, più alta di me, con seni lunghi e pesanti, fianchi straordinariamente larghi, un’aureola di capelli bruni, corti e riccioluti.
Una larva notturna! Uno spettro uscito dalla mia fantasia sovreccitata!
— Ciao, bello! — mi dice la ragazza, facendomi l’occhiolino; e passa oltre, in un alone di profumo e di odor di lussuria. Io rimango lì attonito a contemplare quelle natiche opulente, finché la porta del bagno si chiude dietro di loro.
Rabbrividisco di spavento. Neppure con la droga ho avuto allucinazioni così tangibili: che un’indigestione mi faccia più effetto dell’LSD? Com’era bella, carnosa, elegante!
Sento scorrere l’acqua nel gabinetto. Allungo una sbirciatina nell’altra camera: adesso la vista mi si è completamente adattata nel buio. Costosi indumenti femminili sparsi dappertutto. Timothy russa in un letto; nell’altro, Oliver, e accanto alla sua testa una donna.
Niente allucinazioni, allora! Ma dove avranno trovato queste ragazze? Nella camera successiva? No. Capisco. Prostitute fornite dalla direzione. La fida carta di credito ha funzionato ancora. Timothy capisce il sistema di vita americano come io — diligente ma imbranato ragazzo del ghetto — non potrò mai sperare di capire. Vuoi una donna? Basta prendere il telefono e chiederla.
Ho la gola secca, il pennone si è alzato, mi sento tuonare il cuore in petto. Timothy dorme: benissimo. Visto che la ragazza è stata ingaggiata per tutta la notte, me la prenderò in prestito per un po’. Appena esce dal bagno le vado incontro con baldanza, le metto una mano sulle tette e una sulle chiappe, palpo la sua levigatezza serica, la invito a venire nel mio letto. Proprio così.
E in quel momento si apre la porta del bagno. Lei avanza, con le mammelle che ballonzolano. Din, don, din, don. Un’altra strizzatina. Oltrepassatomi, scompare. La sua schiena lunga e asciutta, che si rigonfia in due natiche sorprendentemente sferoidali; l’olezzo di essenza di muschio a buon mercato; l’andatura sciolta ancheggiante; la porta della camera da letto che mi si chiude in faccia. La ragazza è stata ingaggiata, ma non per me. È per Timothy.
Io mi chiudo in bagno, m’inginocchio davanti al cesso, trascorro un’eternità a vomitare. E poi via, nel mio letto vuoto.
Stamattina, nessuna ragazza in vista. Prima delle nove eravamo già in viaggio, Oliver al volante, prossima tappa, St. Louis.
Io me ne stavo sprofondato in una tetraggine apocalìttica. Se avessi avuto il pollice sul pulsante giusto avrei distrutto chissà quanti imperi. Avrei sguinzagliato il dottor Stranamore. Avrei messo in libertà il mitico lupo Fenris. Avrei fatto scomparire l’universo intero, se ne avessi avuto la possibilità.