Ned entra nella mia stanza, tutto impettito, ammiccando, con un sorrisetto sciocco. Quando ha qualcosa che lo turba davvero, assume sempre quell’aria da pagliaccio.
— Perdonami, padre, perché ho peccato — dice, quasi salmodiando. Strascicando i piedi. Dimenandosi. Sogghignando. Stralunando gli occhi. È chiaramente sconvolto, e capisco che a sconvolgerlo è questa faccenda della confessione. Dopo tutto questo tempo, si è risvegliato in lui l’antico gesuita.
Ned vuole sputar fuori i suoi segreti, e io dovrei essere la sua sputacchiera. Di colpo il pensiero di dovermene star qui ad ascoltare qualche sua lubrica storia di omosessuali mi dà la nausea. Perché diavolo dovrei accogliere le sue penose confidenze? E io chi sono, comunque, da avere il diritto di udire le confessioni di Ned?
Gli domando: — Hai davvero intenzione di rivelarmi il grande segreto della tua vita?
Appare sorpreso. — Certo che l’ho.
— Sei obbligato a farlo?
— Se sono obbligato? Timothy, dobbiamo farlo. E comunque lo voglio. — Sì, lo vuole senz’altro. Trema, si agita, è tutto rosso in faccia e pieno di fervore.
— Che ti succede, Timothy? La mia vita privata non t’interessa?
— No.
— Male. Non volevi sempre sapere tutto, sugli esseri umani?
— Questa è una cosa che non voglio sapere. Non mi serve.
— Peccato, amico mio, perché devo proprio dirtela. Fra Javier assicura che liberarsi delle colpe segrete è essenziale per il prolungamento del soggiorno terreno; perciò voglio fare un bel repulisti.
— Se è davvero necessario… — borbotto, rassegnandomi all’inevitabile.
— Mettiti comodo, Timothy. E spalanca bene gli orecchi. Non hai altra scelta che starmi a sentire.
E così sto a sentire.
Ned è un esibizionista nato, come moltissimi dei suoi consimili. Gli piace sguazzare nell’autodenuncia, nell’autorivelazione. Si mette a raccontare la sua storia in modo assai professionale, descrivendo tutti i particolari da quello scrittore di racconti che afferma di essere, sottolineando qui e ombreggiando là. Quanto mi narra è più o meno ciò che mi aspettavo: una sporca storia di pederasti.
— Tutto è cominciato prima che noi due ci conoscessimo — dice — nella primavera del primo anno di università, quando non avevo ancora diciott’anni. Allora abitavo fuori, in un appartamento che dividevo con altri due ragazzi.
I quali, naturalmente, erano finocchi tutt’e due. L’appartamento era loro: Ned si era aggiunto dopo gli esami di fine trimestre. I due erano maggiori di lui di otto o dieci anni, e vivevano insieme da molto tempo in una specie di equivalente omosessuale del matrimonio. Uno — assistente di letteratura francese — era rude, mascolino, autoritario, e anche un atleta robusto (la sua passione erano le scalate); l’altro invece era il classico tipo effeminato, delicato, quasi etereo: un poeta esile e riservato che rimaneva a casa per la maggior parte del tempo, sbrigava le faccende domestiche, innaffiava i vasi di fiori, e magari (aggiungo io) lavorava a maglia e all’uncinetto.
In ogni modo c’erano questi due finocchi che vivevano beatamente more uxorio, e un bel giorno avevano conosciuto Ned in un bar d’invertiti ed erano venuti a sapere che non gli piaceva il posto in cui abitava: perciò l’avevano invitato a trasferirsi da loro.
La sistemazione non voleva essere che su basi di semplice amicizia: Ned avrebbe avuto una stanza tutta per sé, avrebbe pagato l’affitto e la sua quota del conto del negozio d’alimentari, e non ci sarebbero state complicazioni sessuali con nessuno degli altri due, che nutrivano una profonda fedeltà vicendevole.
Per un paio di mesi la cosa aveva funzionato. Ma la fedeltà fra pederasti, immagino, non è altrettanto forte di quella fra persone normali: la presenza di Ned cominciava a diventare un fattore di disturbo, così come in un matrimonio normale lo sarebbe la presenza di una pollastrella diciottenne e ben fatta.
— Consciamente o inconsciamente — dice Ned — ho fatto nascere la tentazione. Andavo in giro nudo per l’appartamento, civettavo con loro, li coccolavo scherzosamente.
La tensione era aumentata, e inevitabilmente si era verificato l’inevitabile. Un giorno i due amanti avevano litigato per chissà quale motivo (forse proprio a causa di Ned, ma lui non lo sa per certo), e il tipo autoritario se n’era andato via come una furia. L’effeminato, tutto sconvolto, era corso da Ned per farsi consolare, e lui l’aveva consolato portandoselo a letto. Dopo si erano sentiti entrambi in colpa; il che non aveva loro impedito di ripetere la cosa qualche giorno più tardi e infine di farne un’abitudine regolare.
Nel frattempo il secondo finocchio, Oliver (non è interessante, un altro Oliver?), il quale evidentemente non si era accorto di quel che c’era fra Ned e il poeta, Julian, aveva cominciato a fare profferte a Ned, e in breve si erano ritrovati a letto anche loro. E così, per un paio di settimane, Ned aveva mandato avanti contemporaneamente le due relazioni.
— Era una cosa buffa — mi dice — anche se mi rendeva un po’ agitato: gli appuntamenti clandestini, le piccole bugie, la paura che l’altro ci sorprendesse.
Ma i guai erano appena cominciati. Entrambi i pederasti s’innamorarono di Ned. Ognuno decise di troncare col compagno iniziale e di vivere soltanto con lui. Una specie di tiro alla fune, e la fune era Ned.
— Proprio non sapevo come sistemare la faccenda. Ormai Oliver aveva capito che c’era sotto qualcosa fra me e Julian, e Julian sapeva che c’era sotto qualcosa fra me e Oliver, ma nessuno dei due aveva ancora gettato accuse precise. Trovandomi costretto a scegliere, una lieve preferenza l’avevo: per Julian. Ma non volevo certo essere io a prendere una decisione tanto critica.
L’immagine di sé che Ned mi sta tratteggiando è quella di un fanciullo ingenuo e innocente, coinvolto suo malgrado in un triangolo architettato da altri. Inerme, inesperto, gettato di qui e di là dalle furiose passioni di Oliver e di Julian, eccetera eccetera.
Ma c’è qualcosa che trapela da sotto la superficie e giunge fino a me: non parole ma sorrisetti, ammiccatine nello stile degl’invertiti, e altri tipi di commenti non verbali. Ned funziona sempre su almeno sei livelli, e se si mette a spiegare quanto è ingenuo e innocente significa che sta pigliando in giro l’ascoltatore.
L’insieme di questi messaggi sottocutanei mi mostra un Ned sinistro e calcolatore, che manipola per proprio divertimento quei due poveracci di finocchi: si mette fra loro, tenta e seduce prima uno poi l’altro, li costringe a rivaleggiare per possederlo in esclusiva.
— Il momento cruciale è arrivato alla vigilia di un weekend di maggio — dice Ned — quando Oliver mi ha invitato a fare un’ascensione con lui, nel New Hampshire, lasciando a casa Julian. Ha spiegato che avevamo un mucchio di cose da discutere, e l’aria pura in vetta a una montagna era proprio quel che ci voleva.
Ned accettò, il che fece venire a Julian un crisi isterica. — Se vai mi ucciderò — singhiozzava. Ned, seccato per quella specie di ricatto emotivo, si limitò a dirgli di calmarsi: si trattava solo di un weekend, non era poi una cosa così importante, sarebbe stato di ritorno domenica sera. Julian continuò sullo stesso tono, con un gran parlare di suicidio. Senza più prestargli attenzione Ned e Oliver si misero a preparare i bagagli. — Non mi ritroverai vivo! — strillava Julian.
Ned, raccontandomi questo, fa una bella imitazione sprezzante delle urla sgomente di Julian.
— Temevo che Julian facesse sul serio — dice. — D’altra parte sapevo che dargli corda sarebbe stato un errore. E poi — dentro di me, giù giù nell’intimo — ero lusingato al pensiero che qualcuno mi giudicasse tanto importante da meditare il suicidio a causa mia.
Oliver gli disse di non preoccuparsi per Julian: — Sta solo facendo il melodrammatico -. E quello stesso giorno, venerdì, partirono per il New Hampshire.
Sul tardo pomeriggio del sabato erano a milleduecento metri di altezza sul fianco di una grossa montagna. Oliver scelse proprio quel momento per fare il suo discorsetto. Vieni con me e sii il mio amore, disse, e proveremo le gioie del cuore. Il tempo dei tentennamenti era concluso: lui voleva una decisione immediata e definitiva. Scegli fra Julian e me, disse a Ned, e scegli in fretta.
— Ormai io avevo deciso — mi dice Ned — che di Oliver non m’importava molto: aveva la tendenza a comportarsi sempre da spavaldo e da prepotente, finendo con l’essere una specie di Hemingway finocchio. E pur trovando attraente Julian, lo ritenevo troppo passivo e debole, una vite rampicante. E poi, qualunque dei due avessi scelto ero certo che avrei avuto dall’altro ogni tipo di seccature: scenate, minacce, pugni, e così via.
Perciò Ned dichiarò educatamente che non voleva essere la causa della rottura fra Oliver e Julian, la cui relazione rispettava sopra ogni cosa, e che piuttosto di dover fare quell’impossibile scelta se ne sarebbe semplicemente andato via dal loro appartamento.
Allora Oliver cominciò ad accusare Ned di preferire Julian, di essere segretamente d’accordo con Julian per estromettere lui. La discussione si fece accesa e irragionevole, con ogni tipo di recriminazioni e smentite, e alla fine Oliver disse: — Ned, senza di te non posso più vivere. Promettimi di scegliere me: promettimelo subito, se no mi butto giù.
Negli occhi di Ned compare un lampo bizzarro, un bagliore diabolico. Si sta divertendo di tutto cuore. Affascinato dalla sua stessa eloquenza. In un certo senso lo sono anch’io. — Ero stufo di essere tormentato da queste minacce di suicidio — dice. — Non ce la facevo più a sentirmi ripetere dall’uno o dall’altro che dovevo fare così e cosà se no si sarebbe tolto la vita. "Oh, merda!", ho detto a Oliver. "Vuoi proprio fare anche questa scena madre? Va bene, vai a farti fottere. Non me ne frega niente, di quello che fai. Vuoi buttarti giù? E buttati!". Supponevo che Oliver stesse bluffando, come si fa quando si dicono cose simili. Ma Oliver non stava bluffando. Non ha detto una parola, non ha esitato un attimo solo: ha messo un piede fuori della cengia. Per un tempo che mi è parso un’eternità l’ho visto sospeso a mezz’aria, che mi guardava con un’espressione calma e serena; poi è precipitato per seicento metri, è rimbalzato su una roccia come una bambola di pezza, ed è caduto giù fino a valle. È stata una cosa talmente rapida che non l’ho afferrata subito: la minaccia, la mia risposta secca e irritata, il salto. Poi, pian piano, mi è entrata in testa. Ho cominciato a tremare tutto quanto. Infine mi sono messo a urlare come un pazzo.
Per qualche minuto, prosegue Ned, pensò seriamente di buttarsi anche lui. Poi si calmò un pochino e iniziò la discesa, con grande fatica adesso che non c’era più Oliver ad aiutarlo. Impiegò qualche ora, e quando arrivò a valle era già calata la notte.
Non aveva la minima idea di dove fosse andato a finire il corpo di Oliver, e lì intorno non c’era né polizia né telefono né niente; per cui si fece una scarpinata di tre chilometri fino alla statale più vicina, per trovare qualcuno che gli desse un passaggio fino all’università. (Allora non sapeva ancora guidare, e quindi non aveva potuto usare l’auto di Oliver parcheggiata alla base della montagna).
— Per tutta la strada del ritorno sono rimasto in uno stato di panico totale — dice. — Quelli che mi avevano preso su pensavano che stessi male, e uno voleva portarmi addirittura al pronto soccorso. Ma l’unica cosa che mi opprimeva, che mi ronzava nella mente, era un senso di colpa, di colpa, di colpa, di colpa, per aver ucciso Oliver. Mi sentivo responsabile della sua morte, come se l’avessi materialmente spinto io.
Come già prima, le parole di Ned mi dicono una cosa e il suo atteggiamento me ne dice un’altra. — Colpa — dice la sua voce, ma telepaticamente io sento: soddisfazione. - Responsabile della sua morte — dice lui, e sotto sotto intende: eccitato per il fatto che qualcuno volesse uccidersi per amor mio. - In uno stato di panico totale — dice, e silenziosamente si vanta: entusiasta per il mio successo nel manovrare le persone.
— Ho cercato di persuadermi che non era stata colpa mia — prosegue — che non avevo nessun motivo di pensare che Oliver facesse sul serio. Ma non ci sono riuscito. Oliver era un invertito, e gl’invertiti sono instabili per definizione, giusto? Giusto. E se Oliver aveva detto che si sarebbe buttato giù, io non avrei dovuto sfidarlo a buttarsi, perché era proprio quello che gli occorreva per farlo davvero.
A livello verbale, Ned sta dicendo: — Ero ingenuo e sciocco — ma io capto: ero un porco crudele.
— E poi mi sono chiesto che cosa potevo raccontare a Julian. Ero entrato nella loro vita in comune, avevo civettato con loro fino a ottenere quello che volevo, mi ero messo fra loro due, e adesso avevo sostanzialmente causato la morte di Oliver. E Julian era rimasto tutto solo. Cos’avrei dovuto fare? Offrirmi come sostituto di Oliver? Prendermi cura del povero Julian per tutta la vita? Era un pasticcio, un pasticcio spaventoso. Sono arrivato al nostro appartamento che erano quasi le quattro del mattino, e la mano mi tremava al punto che non riuscivo a infilare la chiave. Avevo provato fra me e me almeno otto discorsi diversi da fare a Julian, tutte le possibili spiegazioni e autogiustificazioni. Ma ho scoperto che non ce n’era più bisogno.
— Julian era scappato col portinaio — suggerisco io.
— Julian si era tagliato i polsi subito dopo la nostra partenza — replica Ned. — L’ho trovato nella vasca. Era morto da più di un giorno. Lo capisci, Timothy, che li ho uccisi io tutt’e due? Lo capisci? Loro mi amavano e io li ho distrutti. E da allora ne porto il rimorso.
— Per non averli presi sul serio quando hanno minacciato di uccidersi?
— Per aver gettato su me stesso la responsabilità quando l’hanno fatto davvero.