Il nucleo dell’intero procedimento, ne sono convintissimo, è la meditazione. Riuscire a introflettersi. Bisogna farlo assolutamente, se si spera di conseguire qualcosa. Il resto — gli esercizi ginnici, il regime alimentare, i bagni, il lavoro nei campi — è soltanto una serie di tecniche per acquisire l’autodisciplina, per sollevare l’Io riottoso fino al grado di dominio dal quale dipende la vera longevità.
Naturalmente, se si vuole vivere a lungo è certo di giovamento fare molto esercizio, tenere in forma il corpo, evitare cibi nocivi eccetera eccetera. Ma credo che sia un errore dare troppa importanza a questi aspetti della normale vita quotidiana della Confraternita. Igiene e ginnastica possono essere utili per prolungare la vita media fino a ottant’anni o ottantacinque, ma è necessario qualcosa di più trascendentale se si vuole vivere fino a ottocento o ottocentocinquanta (o ottomilacinquecento? o ottantacinquemila?). È necessario il completo dominio delle funzioni corporee, e la meditazione ne è la chiave.
In questa prima fase, i frati vogliono farci sviluppare la consapevolezza interiore. Per esempio, dobbiamo fissare il sole al tramonto e convogliare il suo calore e la sua energia in diverse parti del corpo: anzitutto il cuore, poi i testicoli, i polmoni, la milza, e così via. Io sostengo che la radiazione solare, di per sé, non c’entra niente: si tratta solo di una metafora, di un simbolo. Quello che conta, invece, è di riuscire a metterci in contatto con cuore, testicoli, polmoni, milza, eccetera, in modo che, verificandosi un problema in un determinato organo, possiamo raggiungerlo con la mente e sistemare quello che va sistemato.
E anche tutta questa faccenda dei teschi, nei quali s’impernia così gran parte della meditazione: un’ulteriore metafora, intesa soltanto — ne sono sicuro — a fornirci un idoneo punto focale, in modo che possiamo balzare sull’immagine del teschio e usarla come pedana elastica per il nostro salto all’indietro. Probabilmente funzionerebbe altrettanto bene qualsiasi altro simbolo: un girasole, un grappolo di ghiande, un quadrifoglio. Una volta ricoperta dell’opportuna patina psichica (il mana), qualsiasi cosa può andar bene. Vedi caso, la Confraternita ha scelto la simbologia del teschio. Il che (tra parentesi) va proprio a fagiolo, davvero: in un teschio c’è mistero, c’è fascino romantico, c’è qualcosa che fa riflettere.
E così noi fissiamo il piccolo ciondolo di giada a forma di teschio che Fra Antonio ha deposto davanti a sé, e ci viene detto di eseguire varie assimilazioni metaforiche aventi a che fare col rapporto fra la morte e la vita; ma ciò che in realtà vogliono da noi è che impariamo a concentrare su un unico oggetto tutta la nostra energia mentale. Una volta padroni della concentrazione, potremo applicare la nostra nuova facoltà ai compiti dell’autoriparazione perpetua. Questo, è il segreto. Droghe di longevità, cibi salutari, culto del tramonto, preghiera e simili cose sono soltanto marginali: la meditazione è tutto. È una specie di yoga, immagino: la mente che domina la materia; benché, se la Confraternita è antica come lascia capire Fra Miklos, sia più esatto dire che lo yoga è un’emanazione della Casa dei Teschi.
Abbiamo un lungo cammino da percorrere. Queste sono ancora le fasi preliminari della serie di procedure d’allenamento che i Confratelli chiamano Iniziazione. Quanto ci attende, sospetto, è in maggior parte di genere psicologico o addirittura psicanalitico: un repulisti del bagaglio in eccesso giacente nell’anima. E questo procedimento comprende l’orribile faccenda del Nono Mistero.
Non so ancora se interpretare alla lettera o metaforicamente quel passaggio del Libro dei Teschi, ma in entrambi i casi sono sicuro che allude all’eliminazione degli elementi nocivi dal Ricettacolo: uccideremo un capro espiatorio, in realtà o simbolicamente, e il secondo capro espiatorio, in realtà o simbolicamente, e il risultato netto saranno due frati novelli privi dell’incongruo timore della morte nutrito dai due componenti difettosi.
Oltre a purificare il gruppo nel suo complesso, dobbiamo anche purificare individualmente il nostro animo. Ieri sera, dopo cena, Fra Javier mi ha fatto visita in camera mia (e presumo che abbia fatto visita anche agli altri tre); mi ha detto che devo prepararmi ai riti di confessione. Devo passare in rassegna tutta la mia vita, con particolare attenzione a episodi di colpa e di vergogna, ed essere pronto ad analizzare a fondo questi episodi quando mi sarà richiesto.
Immagino che fra poco tempo avremo una specie di primitiva confessione di gruppo, diretta da Fra Javier. Incute terrore, quell’uomo. Occhi grigi, labbra sottili, volto scolpito con l’accetta. Tenero come una lastra di granito. Quando procede lungo i corridoi mi pare quasi di udire un accompagnamento di note cupe e lamentose. Entra il Grande Inquisitore! Sì: Fra Javier, il Grande Inquisitore. Notte e gelo, nebbia e dolore. Quando comincerà l’Inquisizione? Che cosa dovrò dire? Quale delle mie colpe dovrò deporre sull’altare, quale delle mie vergogne?
Immagino che lo scopo ai questa confessione sia di semplificarmi l’anima mediante lo sgravio di… che termine devo usare?… nevrosi, peccati, blocchi mentali, engrammi, depositi di karma negativo? Dobbiamo sfrondarci, sfrondarci. Carne e ossa le possiamo conservare, ma lo spirito dobbiamo tosarlo. Dobbiamo sforzarci di raggiungere una specie di quietismo in cui non ci siano né conflitti né tensioni. Evitare tutto ciò che non procede secondo la venatura, e se necessario riorientare la venatura stessa. Azione senza sforzo, ecco il segreto. Non sono permessi impeti di energia: le fatiche abbreviano la vita.
Bene, vedremo. Io mi porto addosso un sacco di scorie interne, come gli altri. Forse un clistere psichico potrebbe non essere poi così brutto.
Che cosa dovrò dirti, Fra Javier?