I frati vanno matti per noi. Non c’è espressione più idonea. Cercano di apparire impassibili, solenni, ieratici, distaccati; ma non riescono a celare la pura gioia che la nostra presenza gli dà. Noi li ringiovaniamo. Li abbiamo salvati da un’eternità di faccende monotone. È da chissà quanti eoni che non hanno novizi, che fra loro non ci sono dei giovani: sempre lo stesso gruppo chiuso di quindici frati che praticano le loro devozioni, lavorano nei campi, intonano salmodie. E adesso ecco qui noi quattro in procinto di essere guidati nelle cerimonie dell’iniziazione: per loro è finalmente qualcosa di nuovo, e ci vogliono bene appunto perché siamo venuti.
Partecipano tutti al nostro illuminamento. Fra Antonio presiede alla nostra meditazione, ai nostri esercizi spirituali. Fra Bernardo ci guida negli esercizi fisici. Fra Claudio, il frate cuciniere, sovrintende alla nostra dieta. Fra Miklos c’insegna, in maniera un po’ vaga, la storia dell’Ordine, fornendoci le opportune nozioni basilari. Fra Javier è il frate confessore che un giorno o l’altro ci condurrà nei meandri della psicoterapia (pare che sia il nucleo dell’intera Iniziazione). Fra Franz, il frate operaio, ci mostra le nostre responsabilità per quanto riguarda spaccare la legna e attingere l’acqua. Gli altri frati non abbiamo ancora avuto l’occasione di conoscerli, ma sappiamo che ognuno rivestirà nei nostri confronti un ruolo ben determinato.
Qui ci sono anche donne, ignoriamo quante: forse solo tre o quattro, forse una decina. Di loro abbiamo una visione periferica: un’apparizione adesso, un’apparizione più tardi. Attraversano sempre da lontano il nostro campo visivo, passando di stanza in stanza per misteriose commissioni private, senza mai fermarsi, senza mai guardarci. Così come i frati, anche loro sono vestite nello stesso modo; solo che invece di calzoni azzurri tagliati corti indossano una tunichetta bianca. Quelle che ho visto avevano lunghi capelli neri e petto abbondante, e neppure gli altri tre ne hanno incontrate di sottili o bionde o rosse. Hanno fra loro una stretta somiglianza il che è appunto ciò che mi rende incerto sul loro numero: non riesco mai a capire se la donna che vedo in un certo momento è diversa dalle precedenti o è sempre la stessa.
Il secondo giorno che eravamo qui, Timothy ha chiesto a Fra Antonio qualche chiarimento sulla presenza di quelle donne: gli è stato risposto compitamente che è proibito porre ai membri della Confraternita domande relative alla procedura interna; ogni cosa ci verrà spiegata al momento opportuno, ha promesso Fra Antonio. Abbiamo dovuto accontentarci di questo.
La nostra giornata è programmata tutta dall’inizio alla fine. Ci alziamo col sole: poiché non esistono finestre dipendiamo da Fra Franz, che all’alba passa per il corridoio del dormitorio battendo alle porte. La prima occupazione (obbligatoria) è il bagno. Poi andiamo nei campi a lavorare per un’ora.
Tutto il cibo dei frati viene preparato da loro; coltivano un orto che si trova duecento metri dietro l’edificio. Un complesso sistema d’irrigazione pompa l’acqua da chissà quale sorgente sotterranea: installarlo dev’essere costato una fortuna, così come dev’essere costato una fortuna e mezzo costruire la Casa dei Teschi; ma io sospetto che la Confraternita sia enormemente ricca. Come ha fatto notare Eli, qualsiasi organizzazione capace di sopravvivere ai secoli, e che investa il proprio patrimonio all’interesse composto del cinque o sei per cento, finirebbe col trovarsi proprietaria d’interi continenti.
I frati coltivano frumento, erbe aromatiche, e un intero assortimento di frutti, bacche e radici. Non conosco quasi nessuna delle piante che sarchiamo e curiamo così amorevolmente, ma sospetto che la maggior parte siano esotiche. Riso, fagioli, grano, e ortaggi «forti» come la cipolla, sono vietati. Il frumento, mi pare di capire, è tollerato solo a malincuore, essendo ritenuto di nessun valore spirituale ma in un certo senso necessario al fisico; ma prima che sia trasformato in pane viene sottoposto a cinque vagliature e dieci moliture, accompagnate da meditazioni speciali.
I frati non mangiano carne, e non ne mangeremo neppure noi per tutto il tempo che resteremo qui. La carne, evidentemente, è’fonte di vibrazioni deleterie. Il sale è bandito. Il pepe è fuorilegge. Il pepe nero, cioè; il capsico rientra nell’ortodossia, e i frati ne fanno grande uso, consumandolo in mille modi come i messicani: fresco, secco, in polvere, sott’aceto, ecc. ecc. ecc. La qualità che coltivano qui è veramente di fuoco. Eli e io andiamo matti per le spezie, e ne usiamo in abbondanza anche se talvolta ci fanno venire le lacrime; ma Timothy e Oliver, abituati a cibi più insipidi, non le sopportano per niente.
Un altro alimento prediletto, qui, sono le uova. C’è un allevamento pieno di galline indaffaratissime, e il menù della casa prevede uova — preparate in questo o in quel modo — tre volte al giorno. I frati producono anche certi liquori di erbe, moderatamente alcolici, sotto la supervisione di Fra Maurizio, il frate distillatore.
Quando abbiamo terminato la nostra ora di servizio nei campi, un gong ci chiama: andiamo nelle nostre stanze per fare un altro bagno, e poi c’è la colazione. I pasti sono serviti in una delle stanze «pubbliche» a un elegante tavolo di pietra. Il menù è calcolato secondo certi principi arcani che non ci sono ancora stati rivelati: pare che il colore e la consistenza di quanto mangiamo siano determinanti allo stesso modo del valore nutritivo. Mangiamo uova, minestre, pane, passati di verdura, e così via, il tutto abbondantemente condito con capsico. Come bevande abbiamo acqua, un tipo di birra di frumento, e alla sera i liquori di erbe; nient’altro. Oliver, gran consumatore di bistecche, si lamenta per l’assenza di carne. Anch’io ne ho sentito la mancanza, all’inizio; ma poi mi sono adattato completamente a questo strano regime, come pure Eli. Timothy borbotta fra sé e sé e tracanna liquori. Il terzo giorno, a pranzo, ha bevuto troppa birra e ha vomitato su quel fantastico pavimento di ardesia; Fra Franz ha atteso che terminasse, poi gli ha teso uno straccio e senza parlare gli ha ordinato di pulire quella porcheria.
È chiaro che Timothy non piace ai frati; e forse anche ne hanno un po’ paura, perché è alto quasi una spanna più di loro e peserà una cinquantina di chili di più. A noialtri tre, come ho detto, vogliono un gran bene, e in astratto ne vogliono anche a Timothy.
Dopo la colazione vengono le meditazioni del mattino, con Fra Antonio. Lui non si dilunga in troppe chiacchiere, ma si limita a fornirci un contesto spirituale usando il minor numero possibile di parole.
Ci riuniamo nell’altra ala posteriore dell’edificio, di rimpetto all’ala del dormitorio: è completamente adibita alle funzione monastiche. Invece di camere da letto, ci sono cappelle: diciotto, corrispondenti (suppongo) ai Diciotto Misteri. Hanno mobilio parso e arredamento severo, come le altre stanze, e contengono una serie di straordinari capolavori artistici. La maggior parte sono precolombiani; ma alcuni calici e bassorilievi hanno l’aria di essere medioevali, e ci sono certi oggetti astratti (di avorio? di osso? di pietra?) che non riesco assolutamente a catalogare.
Quest’ala dell’edificio possiede anche una biblioteca zeppa di libri: autentiche rarità, a giudicarle da lontano. La porta non è mai chiusa, ma per ora noi abbiamo il divieto di entrare.
Fra Antonio ci riceve nella cappella più vicina all’ala pubblica. La stanza è vuota, a parte l’onnipresente maschera a forma di teschio appesa alla parete. Il frate s’inginocchia; noi c’inginocchiamo; lui si toglie dal petto il minuscolo ciondolo di giada (che raffigura un teschio, come c’era da aspettarsi) e lo depone davanti a noi sul pavimento, come punto focale su cui concentrarci per le nostre meditazioni.
In quanto frate superiore, Fra Antonio porta l’unico ciondolo di giada; ma Fra Miklos, Fra Javier e Fra Franz hanno il diritto di portare un analogo ciondolo di una pietra bruna e lucida (ossidiana, immagino, o onice). Questi quattro frati sono i Custodi dei Teschi, un’élite all’interno della comunità.
Ciò che Fra Antonio ci esorta a contemplare è un paradosso: il teschio che giace sotto il volto, la presenza del simbolo di morte celato sotto la nostra maschera viva. Mediante un esercizio di «visione interiore» dovremmo assorbire, assimilare fino in fondo e distruggere definitivamente il potere del teschio, purificandoci così dall’impulso di morte.
Non so se e quanto ci siano riusciti i miei compagni; un’altra cosa vietata è scambiare commenti sui rispettivi progressi.
Timothy? Dubito che sia molto bravo, in meditazione. Oliver lo è manifestamente, invece: contempla il teschio di giada con una fissità da pazzo, avvolgendolo, fagocitandolo, e io mi figuro che la sua anima esca da lui ed entri nell’oggetto. Ma lui starà procedendo nella direzione giusta?
Eli. Una volta mi aveva manifestato la sua difficoltà a raggiungere sotto l’effetto delle droghe i massimi livelli dell’esperienza mistica: la sua mente è troppo vivace, troppo eccitabile, e lui ha sprecato vari «viaggi» con l’«acido» guizzando qui e là invece di mettersi lì buono buono e scivolare nel Tutto. Credo che anche qui gli sia difficile concentrarsi: durante l’ora di meditazione ha un aspetto teso e impaziente e sembra che cerchi di spingersi a tutti i costi in un campo nel quale non può penetrare.
Quanto a me, la sessione quotidiana con Fra Antonio mi piace molto: il paradosso del teschio, naturalmente, corrisponde in pieno al mio tipo d’irrazionalità, e a me pare di assimilarlo nella maniera giusta (anche se ammetto la possibilità che mi stia ingannando). Mi piacerebbe discutere con Fra Antonio sui miei eventuali progressi, ma per il momento ogni verifica di questo genere è vietata. Perciò tutti i giorni m’inginocchio e fisso il piccolo teschio verde, e protendo l’anima, e conduco la mia perpetua lotta interna fra cinismo corrosivo e fede abbietta.
Terminata l’ora con Fra Antonio, torniamo nei campi. Strappiamo le erbacce, spruzziamo i fertilizzanti (sono tutti organici, beninteso) e facciamo i trapianti.
Oliver si trova completamente a suo agio, in questo lavoro. Ha sempre cercato di ripudiare la sua origine campagnola, ma ora se ne pavoneggia; allo steso modo che Eli si pavoneggia del proprio yiddish anche se non entra in una sinagoga da quando ha fatto il Bar Mitzvah. Buon sangue non mente, e Oliver si getta a corpo morto su zappa e vanga.
I frati tentano di fargli rallentare il ritmo. Credo che siano un po’ spaventati per la sua forza ma al tempo stesso preoccupati per la possibilità che si prenda un colpo di sole: Fra Leone, il frate medico, gli ha parlato parecchie volte, sottolineando il fatto che già a metà mattina la temperatura tocca i trentacinque gradi e che ben presto sale a valori molto più alti. Ma Oliver continua a sfacchinare come un matto.
Dal canto mio, tutto questo frugare nel suolo lo trovo piacevolmente strano e stranamente piacevole. Mi sembra che faccia appello a quell’aspirazione di stampo romantico che secondo me gl’intellettuali eccessivamente urbanizzati portano sepolta nel cuore: il ritorno alla natura. Finora io non ho mai compiuto un lavoro manuale più faticoso della masturbazione, per cui nell’ora di agricoltura non solo mi scoppia la testa ma anche mi si spezza la schiena; ciononostante mi adeguo di buona voglia. Per ora.
L’atteggiamento di Eli nei confronti di questa roba da contadini è molto simile al mio, benché (se possibile) più intenso, più romantico: lui parla di trarre dalla Madre Terra un rinnovamento fisico.
E Timothy, il quale naturalmente non ha mai fatto nulla di più faticoso che allacciarsi le stringhe delle scarpe, assume un’aria raffinata da gentiluomo di campagna: noblesse oblige, sembra che dicano i suoi gesti apatici. Fa quello che gli ordinano i frati, ma mettendo bene in chiaro che si degna d’insudiciarsi le mani solo perché trova divertente giocare al loro gioco.
In sostanza lavoriamo tutti, ciascuno a modo suo.
Verso le dieci-dieci e mezzo del mattino il caldo si fa insopportabile: ci ritiriamo tutti, salvo tre frati contadini di cui non conosco ancora il nome. Quei tre passano ogni giorno dieci o dodici ore fuori casa: una penitenza, forse? Noialtri, frati e Ricettacolo, andiamo nelle nostre stanze e facciamo un altro bagno. Poi noi quattro ci rechiamo nell’altra ala per la sessione quotidiana con Fra Miklos, il frate storico.
Fra Miklos è un ometto massiccio e possente, con avambracci grossi come cosce e cosce grosse come tronchi d’albero. Dà l’impressione di essere più anziano degli altri frati, anche se ammetto che c’è un che di paradossale nell’applicare un comparativo come «più anziano» a un gruppo d’immortali. Parla con un lieve accento indefinibile, ed è chiaro che i suoi processi mentali non sono lineari: divaga, cambia argomento, salta inopinatamente di palo in frasca. Credo che sia una cosa intenzionale, che la sua mente sia sottile e insondabile piuttosto che decrepita e non avvezza alla disciplina. Nel corso dei secoli, forse, gli sono venuti a noia i discorsi piani e consecutivi: a me accadrebbe, ne sono certo.
I soggetti da lui trattati sono due: origine e sviluppo della Confraternita, e storia del concetto di longevità umana.
Riguardo al primo è elusivo al massimo, quasi fosse fermamente intenzionato a non darci mai una spiegazione franca. Siamo molto vecchi, continua a dire, molto vecchi, molto vecchi; e io non ho modo di sapere se allude ai frati oppure alla Confraternita in sé. Per conto mio intende sia gli uni che l’altra: forse qualcuno di loro ne è membro fin dall’inizio, e la sua vita si misura non in semplici decenni o secoli ma in interi millenni. Fra Miklos accenna a origini preistoriche: le grotte dei Pirenei, della Dordogna, di Lascaux, di Altamira; una confraternita segreta di sciamani, sorta all’alba dell’umanità e sopravvissuta fino a oggi.
Quanto ci sia di vero e quanto di leggendario, non lo so; così come non so se è vero che i Rosacroce risalgono ad Amenofi IV. Ma mentre Fra Miklos parla io ho visioni di caverne fumose, di torce tremolanti, di artisti che indossano strisce di pelle di mammut lanuto e pasticciano sulle pareti della grotta utilizzando pigmenti dai colorì vivaci, di stregoni che dirìgono la strage rituale di bisonti e rinoceronti. E vedo gli sciamani, tutti stretti insieme a parlottare sottovoce.
— Noi non moriremo, fratelli — dicono. — Noi continueremo a vivere, vedremo l’Egitto sorgere dalle paludi del Nilo, vedremo nascere la civiltà sumera, vivremo per contemplare da vicino Socrate e Cesare e Gesù e Costantino, e saremo ancora vivi quando il fungo ardente brillerà sopra Hiroshima con una vampa pari a quella del sole e quando gli uomini giunti con la nave di metallo discenderanno la scaletta per camminare sulla superficie della luna.
Ma è stato Fra Miklos a dirmi questo o l’ho sognato io nel torpore prodotto dall’afa del mezzogiorno? Ogni cosa è confusa ogni cosa si sposta e si scioglie e fugge via mentre le frasi ingarbugliate di Fra Miklos danzano, girano in tondo, si contorcono, girano in tondo, s’intrecciano.
Il frate ci racconta anche, parlando per enigmi e con perifrasi, di un continente perduto, di una civiltà scomparsa, da cui deriva la scienza arcana della Confraternita. E noi lo fissiamo imbambolati, scambiandoci furtive occhiatine di sbalordimento, e non sappiamo se ridacchiare di scettico scherno o lasciarci affascinare da un senso di meraviglia e soggezione.
Atlantide! Fra Miklos è riuscito a evocare nelle nostre menti quelle immagini di una città luccicante di oro e di cristallo, con ampi viali alberati, imponenti edifici dalle pareti bianche, cocchi scintillanti; di filosofi, solenni nel loro lunghissimo manto; di bronzei strumenti di una scienza dimenticata; dell’aura di un karma benefico; della musica di un altro mondo, che riecheggia lungo le navate di vasti templi dedicati a divinità ignote.
Atlantide? Com’è sottile, la linea tra la fantasia e la follia! Non ho mai udito Fra Miklos pronunciarne il nome, ma fin dal primo giorno mi ha ficcato in testa Atlantide e ora sono sempre più convinto di non sbagliarmi e che lui sostiene effettivamente la discendenza della Confraternita da Atlantide.
Che cosa sono quelle decorazioni a teschi, sulla facciata del tempio? Che cosa sono quei gioielli a forma di teschio (orecchini, ciondoli) che portano gli abitanti della grande città? Chi sono quei missionari in vesti biondo rame, che si dirigono alla terraferma, salgono fino agl’insediamenti sulle montagne, abbagliano con i lampi delle loro armi i cacciatori di mammut, e reggendo in alto il sacro Teschio chiedono ai cavernicoli di prosternarsi, di genuflettersi.
E gli sciamani, accovacciati intorno ai fuochi che scoppiettano nelle caverne dipinte, bisbigliano, confabulano, e alla fine rendono omaggio ai fulgidi stranieri: s’inchinano, baciano il Teschio, bruciano i propri idoli, le venerine dai fianchi adiposi e le schegge d’osso scolpite.
La vita eterna offriamo a te, dicono i nuovi venuti; e mostrano uno schermo luccicante nel quale scorrono immagini della loro città, delle torri, dei cocchi, dei templi, delle gemme; e gli sciamani annuiscono, fanno crocchiare le nocche, gettano acqua sui fuochi sacri, danzano, battono le mani, fanno atto di sottomissione, fissano lo schermo luccicante, uccidono il mastodonte ingrassato, offrono agli ospiti un banchetto d’amicizia.
E così ha inizio, in quell’alba gelida, l’alleanza fra gli uomini della montagna e gli uomini dell’isola; e così hanno inizio il flusso di karma verso la terraferma circondata dai ghiacci, il risveglio, il trasferimento del sapere. E quando poi giunge il cataclisma, quando il suolo si lacera e le colonne vacillano e il mondo è ricoperto da un drappo nero, quando i viali e le torri sono inghiottiti dal mare infuriato… qualcosa continua a vivere, qualcosa sopravvive nelle caverne: i segreti, le cerimonie, la fede, il Teschio, il Teschio, il Teschio!
È andata così, Fra Miklos? Per dieci, quindici, ventimila anni, da un remotissimo passato che noi vorremmo negare? Gran benedizione, essere vivi in quell’alba! E tu sei ancora qui, Fra Miklos?
Sei giunto fino a noi da Altamira, da Lascaux, dalla stessa Atlantide condannata. Tu e Fra Antonio e Fra Bernardo e tutti gli altri. Siete sopravvissuti all’Egitto, siete sopravvissuti ai Cesari, prosternandovi davanti al Teschio, sopportando ogni cosa, ammassando ricchezze, dissodando il suolo, migrando di terra in terra, dalle caverne benedette ai neonati villaggi neolitici, dalle montagne ai fiumi, di nazione in nazione, fino alla Persia, a Roma, alla Palestina, alla Catalogna, apprendendo le lingue a mano a mano che si evolvevano, parlando alle popolazioni, dichiarandovi inviati dei loro dèi, costruendo i vostri templi e monasteri, rendendo omaggio a Iside, a Mitra, a Jahvè, a Gesù, a questa e a quella divinità, assimilando ogni cosa, sopportando ogni cosa, mettendo la Croce sopra il Teschio quando venne di moda la Croce, padroneggiando l’arte di sopravvivere, accogliendo di tanto in tanto fra voi un altro Ricettacolo, chiedendo sempre nuovo sangue benché il vostro non invecchiasse mai.
E poi? Poi vi siete trasferiti nel Messico, dopo che Cortés vi ebbe aperto la strada. Era una regione che capiva già il potere di morte, era un luogo in cui già regnava il Teschio, forse portato lì (così come nella vostra terra) dalla gente dell’isola, da missionari atlantidi recatisi anche a Cholula e a Tenochtitlan per mostrare la via della maschera di morte.
Terreno fertile, per qualche secolo. Ma voi esigete un rinnovamento costante; perciò avete ricominciato a peregrinare portando con voi il vostro bottino, le maschere, i teschi, le statue, i tesori paleolitici; verso nord, nella nuova terra, nella terra deserta, nel cuore disabitato degli Stati Uniti, nel territorio da bombe; e grazie all’interesse composto accumulatosi nei secoli avete costruito la vostra più recente Casa dei Teschi, eh, Fra Miklos?
Ed eccovi qui, ed eccoci qui anche noi.
È andata così? Oppure ho avuto io un’allucinazione, pasticciando le tue parole vaghe e oscure in uno sfarzoso sogno d’autoillusione? Come faccio a saperlo? Come potrò saperlo mai? Tutto quello che ho è quanto mi hai detto, che tremola e svanisce dalla mia mente. E vedo ciò che mi sta intorno, vedo la vostra iconografia originaria contaminata da visioni azteche, da visioni cristiane, da visioni atlantidi; e posso solo domandarmi, Fra Miklos, come mai tu sei ancora qui mentre i mammut sono scomparsi dalla scena, e se io sono uno sciocco o un profeta.
Il secondo soggetto sul quale c’intrattiene Fra Miklos è esposto in maniera meno nebulosa, e viene compreso e assimilato con maggior facilità. Costituisce un seminario sul prolungamento della vita, durante il quale il frate percorre spassionatamente il tempo e lo spazio alla ricerca di concezioni apparse su questo mondo parecchio dopo di lui.
Tanto per cominciare, domanda Fra Miklos, perché opporsi alla morte? Non è forse una conclusione naturale, un’auspicabile liberazione dagli affanni, una fine da desiderare di tutto cuore? Il teschio sottostante al volto ci rammenta che tutte le creature, quando è giunta la loro ora, sono destinate a perire, nessuna esclusa: perché ribellarsi, dunque, a questa legge universale? Polvere sei e polvere tornerai, no? Tutta la carne dovrà perire; noi scompariremo da questo mondo come in autunno le mosche; e quindi è cosa meschina aver paura dell’inevitabile.
Ah, ma possiamo forse essere così filosofi? Se è nostro destino andarcene, non è anche nostro desiderio ritardare il momento della dipartita?
Le domande di Fra Miklos non attendono risposta. Seduti a gambe incrociate davanti a quella nerboruta torre di anni, noi non osiamo certo interferire col ritmo dei suoi pensieri. Il frate ci guarda senza vederci. E se uno — domanda ancora — potesse davvero posporre indefinitamente la morte, o almeno ricacciarla nel futuro remoto? Naturalmente è necessario conservare energie e salute: a che giova diventare un immortale vecchio e cisposo, che parla biascicando e sbavando, insomma una massa deambulante in decadimento perpetuo? Prendiamo per esempio Titone, che ha supplicato gli dèi di esentarlo dalla morte e ha ottenuto il dono dell’immortalità ma non quello dell’eterna giovinezza: grigio, avvizzito, ora giace in una stanza, sigillata, invecchiando per l’eternità, vincolato alle limitatezze della sua carne corruttibile e corrotta. No, insieme alla longevità dobbiamo conseguire il vigore.
Ci sono alcuni, osserva Fra Miklos, che disdegnano simili domande e sostengono la passiva accettazione della morte.
Ci ricorda Gilgamesh, che camminò dal Tigri all’Eufrate per cercare la spinosa pianta dell’eternità e se la lasciò sottrarre da un serpente affamato. Gilgamesh, dove corri? La vita che cerchi non la troverai, perché quando gli dèi crearono l’umanità le assegnarono la morte, e la vita se la tennero al sicuro tutta per loro.
Prendiamo Lucrezio, dice Fra Miklos: Lucrezio osserva che è inutile cercare di allungare la propria vita: per numerosi che siano gli anni che possiamo guadagnare con questo o quel sistema, sono meno di niente in confronto all’eternità che dovremo comunque trascorrere nella morte. Anche prolungando l’esistenza, non sottrarremo uno iota alla durata della morte… Possiamo lottare in tutti i modi per rimanere; ma alla fine dovremo pur sempre andarcene, e non importa quante generazioni saremo riusciti ad aggiungere alla nostra vita: ci attenderà ugualmente la medesima morte eterna.
Fra Miklos cita Marco Aurelio: anche se dovessi vivere tremila anni, o tremila volte diecimila anni, ricordati che non si perde altra vita se non questa che viviamo ora… la più lunga e la più corta, pertanto, finiscono con l’equivalere… tutte le cose che appartengono all’eternità hanno la medesima forma e girano in cerchio: non fa differenza vedere le medesime cose per cent’anni o per duecento o per un tempo infinito.
E una citazione di Aristotele, che ho imparato a memoria: di conseguenza tutte le cose di questo mondo, in ogni tempo, si trovano in uno stato di transizione e vengono in essere per poi scomparire… e non saranno mai eterne fintanto che conterranno qualità contrarie.
Che desolazione! Che pessimismo! Accettare, sottomettersi, arrendersi, morire, morire, morire, morire!
Che cosa dice la tradizione giudeo-cristiana?
Chi è nato di donna vivrà un breve numero di giorni, e pieni di tribolazioni. Sboccia come un fiore, e poi viene reciso: svanisce come un’ombra, e non c’è più. I suoi giorni fuggono e il numero dei suoi mesi è presso Dio, il quale gli ha posto un limite invalicabile.
Questa è la lugubre saggezza di Giobbe, appresa nel modo più duro. E San Paolo?
Per me, la vita è Cristo e la morte un guadagno. Se devo avere vita di carne, questa per me significa apostolato proficuo. Tuttavia non so che cosa io debba preferire, anche se il mio desiderio è di andarmene ed essere con Cristo, che è di gran lunga la cosa migliore.
Ma, domanda Fra Miklos, dobbiamo accettare simili insegnamenti? Lascia capire che San Paolo, Giobbe, Lucrezio, Marco Aurelio, Gilgamesh, sono tutti degli ultimi arrivati, ancora con la bocca sporca di latte, irrimediabilmente postpaleolitici; e ci dà un’altra immagine delle buie caverne mentre rientra in argomento zigzagando verso il passato infestato dai bisonti.
Poi torna di colpo a recitare gli annali della longevità: tutti i nomi altisonanti con cui Eli ci ha fatto rintronare gli orecchi durante i mesi invernali, mentre ci preparavamo a questa avventura. Le Isole dei Beati, la Terra degl’Iperborei, la Terra della Giovinezza, Shangri-La, la fontana incantata di Ponce de Leon, il pescatore Glauco che rosicchia le erbe accanto al mare e torna giovane per sempre, i fantasiosi resoconti di Erodoto, gli Uttarakuru e l’albero Jambu… Davanti ai nostri occhi abbagliati danzano centinaia di miti rutilanti, al punto che vorremmo gridare — Vieni! Vieni, Eternità! — e prosternarci al Teschio.
Ma subito Fra Miklos cambia di nuovo argomento e ci trascina un’altra volta — come su un nastro di Mòbius — nelle caverne, facendoci percepire le raffiche dei venti glaciali e il gelido bacio del Pleistocene; ci prende per gli orecchi e ci gira verso ovest, facendoci vedere il sole infuocato che arde sopra Atlantide; ci spinge — incespicanti ed esausti — lungo il nostro cammino, verso il mare, verso la terra del tramonto, verso le meraviglie sommerse, e oltre ancora, verso il Messico con i suoi dèi-demoni, con i suoi dèi-teschi, Huitzilopochtli dallo sguardo bieco e il terribile Quetzalcoatl dal corpo di serpente, verso il dio scorticato, verso tutti i paradossi della vita nella morte e della morte nella vita…
E il serpente piumato ride e scuote i sonagli della coda, clic-clic-clic, e noi siamo davanti al Teschio, davanti al Teschio, davanti al Teschio, con grandi rintocchi di gong che ci risuonano nel cervello dai labirinti dei Pirenei, e beviamo il sangue dei tori di Altamira, e balliamo il valzer con i mammut di Lascaux, e udiamo i tamburelli degli sciamani, e c’inginocchiamo, posiamo la fronte sulla pietra, facciamo l’acqua, piangiamo, rabbrividiamo alle vibrazioni dei tamburi atlantidi che martellano cinquemila chilometri di oceano per il furore di una perdita irreparabile, e il sole sorge e la luce ci riscalda e il Teschio sorride e le braccia si aprono e la carne prende il volo e la sconfitta della morte è a portata di mano…
Ma l’ora di storia è terminata e Fra Miklos si ritira, lasciandoci lì a sbattere le palpebre e a incespicare per l’improvviso ritorno alla realtà, lasciandoci soli, soli, soli, soli. Fino a domani.
Dopo l’ora di storia facciamo lo spuntino di mezzogiorno. Uova, passato di capsico, birra, compatto pane nero. Dopo mangiato c’è un’ora di meditazioni in privato, ciascuno nella propria stanza, durante le quali ci sforziamo di ricavare un senso da tutto quello che ci hanno ficcato in testa.
Poi suona il gong, chiamandoci di nuovo nei campi. Ormai il calore del pomeriggio si è abbattuto in pieno, e anche Oliver mostra qualche traccia di stanchezza. Con movimenti pacati puliamo la stia delle galline, mettiamo il tutore alle pianticelle giovani, diamo una mano agl’instancabili frati contadini che sono lì a lavorare dal mattino. Così per due ore; è presente tutta la Confraternita tranne Fra Antonio, che se ne sta da solo nella Casa dei Teschi (ecco perché c’era soltanto lui, quando siamo arrivati qui). È finalmente le nostre fatiche hanno termine. Sudati, cotti dal sole, ci trasciniamo nelle nostre stanze, facciamo un ennesimo bagno, e riposiamo fino all’ora di cena.
Dopo mangiato (il solito genere di piatti) aiutiamo a sparecchiare. Mentre si avvicina il tramonto andiamo con Fra Antonio (e quasi sempre con quattro o cinque degli altri frati) su una bassa collina esattamente a ovest della Casa dei Teschi, dove compiamo il rito dell’assimilazione dell’alito del sole.
Prendiamo una singolare e scomodissima posizione accovacciata a gambe incrociate — una via di mezzo fra la posizione del loto e quella del velocista che si prepara a scattare — e fissiamo lo sguardo sul rosso globo del sole calante. Nell’attimo in cui ci sembra che ci si stia producendo un foro nella retina dobbiamo chiudere gli occhi e meditare sullo spettro di colori che fluisce dal disco solare a noi. Bisogna fare in modo, ci hanno detto, che lo spettro attraversi le palpebre e si diffonda — passando per i seni frontali e le vie nasali — fino alla gola e al petto. Alla fine le radiazioni solari dovrebbero fermarsi nel cuore e lì generare calore e luce datori di vita.
Ci assicurano che quando ci saremo impratichiti potremo collegare questa radiazione con qualsiasi parte del corpo che abbia bisogno di un particolare rinvigorimento: i reni, tanto per dire, o i genitali, o il pancreas, e così via. Presumibilmente, i frati accovacciati accanto a noi fanno appunto questo.
Quale sia il valore di tale pratica, è al disopra della mia capacità di giudizio. Per me non vale una cicca, dal punto di vista scientifico, ma Eli ha continuato a ripetere fin dall’inizio che si può vivere più a lungo di quanto dice la scienza; e se le tecniche di longevità qui applicate si basano su metaforici e simbolici riorientamenti del metabolismo, che conducono a modifiche empiriche nel meccanismo corporeo, allora forse questo assimilare l’alito del sole è per noi di primaria importanza. I frati non ci hanno mica fatto vedere il loro certificato di nascita: per quel che ne sappiamo, la validità dell’intero procedimento dobbiamo accettarla per atto di fede.
Quando il sole è tramontato ci ritiriamo in una delle stanze pubbliche per assolvere l’ultimo dovere della nostra giornata: l’ora di ginnastica, con Fra Bernardo. Secondo quanto afferma il Libro dei Teschi, per conseguire il prolungamento della vita è essenziale mantenere agile il corpo. Be’, non è certo una novità; ma naturalmente la tecnica della Confraternita per mantenere agile il corpo è permeata da una particolare atmosfera mistico-cosmologica.
Cominciamo con esercizi di respirazione, il significato dei quali ci è stato spiegato da Fra Bernardo nel suo solito modo laconico: si tratta di qualcosa che c’entra col ridimensionamento del proprio rapporto con l’universo fenomenico, in modo che il macrocosmo venga a trovarsi all’interno e il microcosmo all’esterno. O almeno credo che sia così ma spero che andando avanti avremo altri chiarimenti.
Poi c’è dell’altra roba esoterica connessa con lo sviluppo del respiro interiore ma, a quanto pare, non ha importanza che noi la comprendiamo.
Comunque sia, ci rannicchiamo e cominciamo una vigorosa iperventilazione, scaricando dai polmoni tutte le impurità e introducendo la buona e pulita e spiritualmente approvata aria notturna. Dopo un prolungato periodo di espirazioni e inspirazioni ci alleniamo a trattenere il fiato (il che ci lascia pieni di esaltazione e di vertigini) e infine passiamo a strani esercizi di trasporto del fiato stesso con i quali dobbiamo imparare a dirigere in varie parti del corpo l’aria inspirata, così come abbiamo già fatto con la luce del sole.
Tutto questo è una faticaccia, ma l’iperventilazione produce una piacevole euforia: ci sentiamo la testa leggera, diventiamo ottimisti, e ci convinciamo facilmente di essere ben avviati lungo la strada che conduce alla vita eterna. Forse è proprio così, se è vero che ossigeno = vita e che anidride carbonica = morte.
Quando Fra Bernardo giudica che a furia di esercizi respiratori abbiamo raggiunto lo stato di grazia, passiamo alle torsioni. Gli esercizi cambiano ogni sera, quasi il frate attingesse a un repertorio infinitamente vàrio sviluppatosi per un migliaio di secoli.
Sedere a gambe incrociate e calcagni a terra, congiungere le mani sopra la testa, toccare con i gomiti il suolo, per cinque volte e rapidamente (ohi!).
Mano sinistra sul ginocchio sinistro, mano destra sopra il capo, respirare profondamente dieci volte. Ripetere con la mano destra sul ginocchio destro e la sinistra alzata.
Con le mani alte sopra il capo, agitare freneticamente la testa fino a quando si vedono le stelle dietro le palpebre chiuse.
Mettere le mani sui fianchi e piegarsi violentemente di lato finché il tronco si trovi a un angolo di novanta gradi, prima a sinistra e poi a destra.
Stare su una gamba sola,.con l’altro ginocchio attaccato al mento, e saltare come matti.
E via di questo passo, comprese molte cose che non siamo ancora abbastanza duttili da poter fare (avvolgere i piedi intorno alla testa, piegare le braccia al contrario, alzarsi e sedersi a gambe incrociate, eccetera).
Noi ce la mettiamo tutta, che per Fra Bernardo non è mai abbastanza: senza parlare, con la sola scioltezza dei suoi movimenti, lui ci rammenta la grande meta alla quale ci sforziamo di giungere. Ormai io sono pronto ad apprendere, uno di questi giorni, che per conseguire la vita eterna è assolutamente necessario padroneggiare l’arte di ficcarsi il gomito in bocca: se non ci riesci, caro il mio bimbo, mi rincresce tanto ma sei destinato ad appassire per strada.
Fra Bernardo ci fa esercitare fino allo stremo. Esegue lui pure quello che esige da noi, senza saltare un solo piegamento e senza mostrare segni di stanchezza mentre fa le sue contorsioni. Di noi quattro, il migliore di questi esercizi a corpo libero è Oliver e il peggiore è Eli; tuttavia Eli li affronta con un goffo entusiasmo che bisogna per forza ammirare.
Finalmente veniamo congedati, di solito dopo un’ora e mezzo di sfacchinata. Il resto della sera è libero, ma noi non approfittiamo di questa libertà: ormai siamo bell’e pronti a sbatterci sul letto. E così facciamo, perché l’alba arriverà fin troppo presto e Fra Franz passerà col suo allegro bum-bum-bum. Prendiamo sonno subito. Da quando siamo qui, dormo profondamente come non ho mai fatto in vita mia.
Questa, dunque, è la nostra giornata. Che significato ha? Stiamo ringiovanendo? Stiamo invecchiando? Per qualcuno di noi si adempierà la fulgida promessa del Libro dei Teschi? C’è qualcosa che abbia senso, di tutto ciò che facciamo ogni giorno?
I teschi sulle pareti non mi danno risposta. I sorrisi dei frati sono impenetrabili. Tra noi quattro non discutiamo di niente.
Camminando per la mia ascetica stanza, odo nel cranio — nel mio teschio — i rintocchi del gong paleolitico: dang-dang-dang-dang-dang-dang, aspetta e vedrai, aspetta e vedrai, aspetta e vedrai.
E il Nono Mistero incombe su di noi come una spada, di Damocle.