E se la Casa dei Teschi non c’è? Se arriviamo alla fine del viottolo e scopriamo che esiste soltanto un invalicabile muro di spine e aculei?
Mi aspetto proprio una cosa del genere, devo confessarlo. Mi aspetto che l’intera spedizione si riveli un fallimento unico, un ulteriore fiasco di Eli lo schmeggege. Che il teschio lungo il viottolo risulti un falso indizio, il manoscritto una favola irreale, l’articolo sul giornale una beffa, la X sulla nostra carta un semplice scherzo insulso.
Davanti a noi nient’altro che cactus e mesquite, una landa squallida, un pezzo di deserto in cui nemmeno i porci si degnerebbero di venire a cagare.
E allora che cosa farò?
Mi rivolgerò con grande dignità ai miei stremati compagni e dirò: — Signori, sono stato ingannato, e voi con me. Abbiamo cercato la luna nel pozzo. — Con un mezzo sorrìso di scusa agli angoli della bocca.
E loro mi afferreranno con calma, senza cattiveria, avendo sempre saputo che doveva andare a finire così; mi spoglieranno, mi ficcheranno nel cuore un palo di legno, m’inchioderanno a un saguaro, mi schiacceranno a morte sotto rocce piatte, m’infileranno negli occhi spine di cholla, mi bruceranno vivo, mi seppelliranno fino al petto in un formicaio, mi castreranno a unghiate, salmodiando solennemente per tutto il tempo: schmeggege, schlemihl, schlemazel, schmendrick, schlep!
Io accetterò con pazienza la mia punizione ben meritata. Non sono nuovo, all’umiliazione. Un disastro non mi lascia mai sorpreso.
Umiliazione? Disastro? Come nel fiasco con Margo? La più recente delle mie sconfitte di una certa gravità. Mi brucia ancora.
Ottobre scorso, all’inizio del semestre, una sera di pioggia e nebbia. «Erba» di prim’ordine, giunta a Ned attraverso il sottobosco degli omosessuali. Timothy, Ned e io ci passavamo a vicenda la pipa. Oliver, naturalmente, si asteneva, e invece andava centellinando tutto compito un vinaccio rosso da quattro soldi. Sullo sfondo risuonava un quartetto, superando il tamburellare della pioggia.
Quando la droga cominciò a farci levitare, Beethoven ci fornì un accompagnamento mistico: inesplicabilmente si aggiunse un secondo violoncello, perfino un oboe in qualche battuta, e un fagotto trascendentale che faceva eco a i violini. La musica pentadimensionale degli ubriachi e dei drogati. Ned aveva ragione: era proprio un’«erba» di prim’ordine.
E a un certo punto io mi sentii scivolare in una nube di disinibizione e cominciai a parlare, ad aprirmi, a svelare ogni mio pensiero più recondito, e d’un tratto dissi a Timothy che la cosa che mi dispiaceva di più era di non aver mai fatto l’amore con una ragazza veramente bella. Timothy, pieno di comprensione, mi domandò quale ragazza considerassi veramente bella. Io rimasi in silenzio, esaminando le alternative. Ned, per essere utile, suggerì Raquel Welch, Catherine Deneuve, Lainie Kazan. Infine, in uno slancio di splendida franchezza, buttai fuori: — Margo la considero veramente bella.
Margo. La Margo di Timothy. La dea goyishe, la shikse d’oro.
Ciò detto, nella mia mente ormai satura di hashish udii risuonare una rapida serie di secche e cadenzate battute di dialogo, un prolisso fluire di parole; quindi il tempo tornò indietro — come fa quando è sotto l’influsso dell’«erba» — e io udii echeggiare tutte le mie battute, ognuna al posto giusto.
Timothy mi aveva chiesto, con calore, se Margo mi avesse acceso i sensi. Con calore pari al suo, gli assicurai di sì. Allora lui volle sapere se facendo l’amore con Margo mi sarei sentito meno inetto, più completo. Esitando, chiedendomi a che gioco giocava, risposi con vaghe perifrasi, e sorprendentemente gli sentii dire che avrebbe organizzato tutto per la sera seguente. Organizzato cosa?, domandai. La faccenda di Margo, rispose. Mi avrebbe concesso Margo, come atto di carità cristiana.
— E lei vorrà…
— Certo che vorrà. Ti trova simpatico.
— Tutti quanti ti troviamo simpatico, Eli. — Questo era Ned.
— Ma io non… lei non… come… cosa…
— Te la cedo in prestito — disse Timothy. Un gran signore che elargisca la propria munificenza. — Non posso permettere che i miei amici se ne vadano in giro frustrati e con brame insoddisfatte. Domani alle otto, da lei. Le dirò di aspettarti.
— Mi puzza d’imbroglio — dissi, facendo il muso. — Troppo facile. Irreale.
— Non essere fesso. Prendila come un’esperienza mediata. Un po’ come vedere un film, solo che sarà una cosa più intima.
— E più tangibile — aggiunse Ned.
— Mi stai pigliando in giro?
— Parola di boyscout: Margo è tua!
Timothy attaccò a descrivermi le preferenze di Margo a letto, le sue zone erogene, i piccoli segnali usati da loro due. Io colsi lo spirito della faccenda, presi a librarmi sempre più in alto, mi misi a superare con mie fantasie scabrose le descrizioni grafiche di Timothy.
Naturalmente un paio d’ore dopo, quando tornai su questa terra, mi convinsi che Timothy mi aveva preso in giro, e questo mi gettò in un abisso tenebroso.
Io avevo sempre pensato che i tipi come Margo non erano per me. I vari Timothy si sarebbero portati a letto intere brigate di Margo, ma io non ne avrei mai avuta una sola.
L’adoravo da lontano, Margo. La shikse per antonomasia, il fiore dell’umanità ariana, snella e con le gambe lunghe, cinque centimetri più alta di me (sembra così grande, la differenza, quando è la ragazza a essere più alta!), serici capelli d’oro, maliziosi occhi azzurri, naso piccolo e all’insù, labbra larghe e frementi. Una ragazza forte, piena di vita, bravissima giocatrice di pallacanestro (lo stesso Oliver ammirava la sua abilità), studentessa modello, mente agile e portata allo scherzo. Insomma una creatura terrificante, tanto perfetta da lasciare istupiditi; una di quelle femmine immacolate che la nostra aristocrazia genera in così gran numero, nate per governare serenamente la tenuta di campagna o per pavoneggiarsi nella Quinta Strada col barboncino al guinzaglio.
Margo tutta per me? Il mio corpo peloso e sudato avrebbe coperto il suo? La mia guancia ispida si sarebbe strofinata sulla sua pelle serica? Sì, e i rospi si sarebbero accoppiati con le comete! A Margo io dovevo apparire sudicio e grossolano, il penoso rappresentante di una specie inferiore. Qualunque relazione fra noi sarebbe stata innaturale: una lega di ottone e argento, un miscuglio di carbone e alabastro. Eliminai dalla mia mente l’intero progetto.
Ma il giorno dopo, durante l’intervallo, Timothy mi rammentò il mio appuntamento. Impossibile, replicai; e addussi sei rapide scuse (lo studio, un esercizio da fare, una traduzione difficile, eccetera).
Timothy spazzò via i miei deboli tentativi. Alle otto nel suo appartamento, disse.
Mi sentii travolgere da un’ondata di terrore. — Non posso — insistetti. — Tu la stai prostituendo, Timothy. Cosa dovrei fare: entrare, sbottonarmi i pantaloni e saltarle addosso? No, non funzionerebbe in nessun modo. Non puoi mutare una fantasia in realtà semplicemente agitando la tua bacchetta magica.
Timothy si strinse nelle spalle, e io ritenni conclusa la faccenda.
Quella sera, Oliver doveva allenarsi alla pallacanestro. Ned se ne andò al cinema. Verso le sette e mezzo, Timothy si congedò. Un salto in biblioteca, disse, ci vediamo alle dieci. Io rimasi tutto solo nel nostro appartamentino. Senza sospettare di nulla. Indaffarato con le mie carte.
Alle otto sento girare una chiave nella serratura: entra Margo, con un sorriso ammaliante. Da parte mia, panico e costernazione.
— Timothy c’è? — domanda lei; e intanto, senza parere, richiude a chiave la porta.
Il cuore mi rimbomba in petto. — In biblioteca — biascico. — Torna alle dieci. — Non so dove nascondermi.
Margo sporge le labbra in un finto broncio. — Ero sicura che l’avrei trovato qui. Tanto peggio per lui. Tu hai molto da fare? — Un’ammiccatina di quegli occhioni azzurri e luminosi, e si abbandona dolcemente sul divano.
— Sto facendo questo esercizio — rispondo. — Sulle forme irregolari dei verbi…
— Affascinante! Di’, vuoi una cicca?
Di colpo capisco. Si sono messi d’accordo lei e Timothy. Una cospirazione per farmi felice, che io lo voglia o no.
Mi sento trattato come un marmocchio, strumentalizzato, beffeggiato. Dovrei ordinarle di andarsene? No, schmendrick, non fare il fesso. È tua per due ore. Al diavolo queste stravaganze morali! Il fine giustifica i mezzi, no? Questa è la tua unica possibilità, e non ne avrai mai più un’altra.
Mi dirigo al divano, con un’aria da dongiovanni (Eli un dongiovanni, sì!). Margo ha due sigarette polpose, confezionate da professionista. Ne accende tranquillamente una, tira una boccata forte, me la tende. Mi trema la mano, manca poco che con la punta incandescente le scotti il braccio.
È «erba» grezza. Mi viene un accesso di tosse, e lei mi batte la schiena. Schlemihl. Schlep. Margo aspira e mi fissa sbattendo le palpebre, con un’espressione di godimento. A me, invece, non succede nulla: sono troppo teso, e l’adrenalina che sto producendo brucia la droga prima che possa avere effetto. In breve la sigaretta si riduce a un mozzicone. Margo, che ha l’aria di essere già partita, mi tende l’altra. Io faccio segno di no. — Dopo — dico.
Lei si alza e gironzola per la stanza. — Qui dentro fa spaventosamente caldo, non trovi? — Che tecnica trita! Una ragazza intelligente come Margo potrebbe trovare di meglio.
Margo si stira. Sbadiglia. Indossa calzoncini corti e un bolerino succinto che le lascia scoperto lo stomaco piatto e abbronzato. Si vede benissimo che non porta né reggiseno né mutandine: noto la protuberanza dei capezzoli, e i calzoncini aderentissimi alle natiche piccole e tonde non mostrano la minima traccia di tessuto sottostante. (Ah, Eli, fantastico osservatore, tenero e abile manipolatore di carne femminile!).
— Che caldo! — ripete Margo, con voce un po’ impastata. E via il bolerino. Con un sorriso innocente, come per dire: siamo vecchi amici, non dobbiamo tormentarci con sciocchi tabù, perché le tette dovrebbero essere coperte più dei gomiti?
I suoi seni sono medio-grandi, pieni, alti, mirabilmente sodi, senza dubbio i più splendidi che io abbia mai visto. Cerco di guardarli senza averne l’aria. Al cinema è più facile, non si è coinvolti personalmente con ciò che avviene sullo schermo.
Margo comincia a parlare di astrologia: per mettermi a mio agio, suppongo. La congiunzione di questo pianeta con quello, la casa tale… Io riesco solo a bofonchiare qualcosa. Piano piano, lei scivola nell’argomento della chiromanzia.
— Di solito le zingare truffano — dice, tutta seria — ma questo non significa che il concetto di base sia infondato. Capisci, tutta la nostra vita è già programmata nelle molecole di DNA, le quali sono anche responsabili dei segni sul palmo della mano. Fammi dare un’occhiata alla tua.
Mi prende la mano, mi attira accanto a sé. Come mi sento idiota, ad aver bisogno di essere adescato in tal modo! Faccio proprio la figura del vergine, nell’atteggiamento se non nell’esperienza pratica.
Margo si china sul mio palmo, titillandomi. — Questa, vedi, è la linea della vita. Oh, com’è lunga! Molto lunga! — Io lancio sbirciatine furtive alle sue tette mentre lei si esibisce nel numero di chiromanzia. — E questo è il monte di Venere. Vedi questa linea che si piega qui? Mi rivela che tu sei capace di passioni profonde ma che le reprimi, le soffochi. Non è vero?
D’accordo. Farò il tuo gioco, Margo. Di colpo il mio braccio le cinge le spalle, la mia mano striscia verso il suo seno.
— Oh, sì, Eh, sì, sì! — Con calore forzato.
Un abbraccio; un bacio appiccicoso. Le sue labbra si aprono e io faccio quel che devo fare. Ma non provo nessuna passione, né profonda né viceversa. Tutto ciò mi sembra formale, un minuetto, una cosa programmata dall’esterno: non riesco a collegarla al concetto di fare l’amore con Margo. Irreale, irreale, irreale. Non provo desiderio neppure quando lei scivola via da me e si toglie i calzoncini, rivelando anche aguzze, solide natiche da ragazzino, fitti riccioli dorati.
Margo mi sorride, mi chiama, m’invita. Per lei la faccenda non è certo più apocalittica di una stretta di mano, di un bacetto sulle guance.
Per me, invece, è una catastrofe cosmica. Eppure dovrebbe essere facilissimo. Giù le braghe, sopra di lei, dentro di lei, tic-tuc-tac, aaaahh! Ma io soffro di intellettualismo sessuale: sono troppo impregnato del concetto di Margo come irraggiungibile simbolo di perfezione per rendermi conto che Margo è raggiungibilissima e non è poi così perfetta (la pallida cicatrice dell’appendicectomia; sottili smagliature ai fianchi, le morene frontali di una corporatura più adiposa in età prepubere; cosce un filino troppo sottili).
Ma poi me ne rendo conto e mi butto. Sì, mi spoglio, e sì, corriamo sul letto, e sì, non ho erezione, e sì, Margo mi aiuta, e infine la libidine trionfa sull’imbarazzo e io divento tutto duro e palpitante come si conviene, e poi, come un toro selvaggio delle pampas, mi getto su di lei, afferrandola, abbrancandola, spaventandola con la mia ferocia praticamente usandole violenza… per ritrovarmi impotente nel momento critico della penetrazione. E poi… oh, sì, una balordaggine dopo l’altra, una goffaggine dopo l’altra, Margo alternativamente atterrita e divertita e sollecita, e infine ecco la consumazione, seguita subito dall’eiaculazione, seguita da baratri di autodisprezzo e da abissi di disgusto.
Non riesco neanche a guardarla in faccia. Rotolo via da lei, nascondo la testa nel cuscino, ricopro d’ingiurie me stesso, Timothy, D. H. Lawrence.
— Posso fare qualcosa per te? — mi domanda Margo, dandomi un colpetto sulla schiena sudata.
— Vai via, per favore — le dico. — Per favore. E non dire niente a nessuno.
Ma naturalmente lei ha raccontato ogni cosa. E tutti hanno appreso tutto. La mia goffaggine, la mia incompetenza più che ridicola, i miei cento complessi culminanti alla fine in cento tipi diversi d’impotenza. Eli lo schmeggege, che ha sciupato la sua grande occasione con la più fantastica ragazza che abbia mai avuto la ventura di sfiorare. Un altro della sua lunga serie di fiaschi elaborati con somma cura.
E un altro fiasco ancora potremmo trovarcelo davanti proprio adesso, mentre arranchiamo in questa cactusville avvicinandoci alla delusione definitiva, nel qual caso i miei tre compagni, giunti così alla fine di quel viaggio, direbbero: — Cos’altro potevamo aspettarci, da Eli?
Ma la Casa dei Teschi c’è.
Il viottolo segue una curva leggera, conducendoci in macchie ancora più fitte di cholla e mesquite; finché, tutto d’un tratto, ci troviamo al limitare di un ampio spiazzo sabbioso.
Da sinistra a destra si stende una fila di neri teschi di basalto, simili a quello che abbiamo incontrato lungo il viottolo ma molto più piccoli, all’incirca delle dimensioni di un pallone da pallacanestro, e ficcati nella sabbia a intervalli di un mezzo metro. All’estremità della fila di teschi, una cinquantina di metri più in là, vediamo la Casa dei Teschi, accovacciata nel deserto come una sfinge: una costruzione abbastanza grande, a un piano solo, col tetto piatto e le pareti rivestite di intonaco rustico color giallobruno. Sette colonne di pietra bianca decorano la facciata, priva di finestre.
L’effetto di assoluta sobrietà è attenuato soltanto dal fregio che corre lungo il frontone: teschi in bassorilievo, che presentano il profilo sinistro. Guancia incavata, narice rientrante, enorme occhio tondo. Bocca spalancata in un orrendo sogghigno. I denti, scolpiti con cura, sembrano sul punto di affibbiare un morso feroce. E la lingua — ah, che tocco sinistro, un teschio con la lingua! — è piegata in un’elegante e orrenda curva ad A; la punta esce appena dai denti, guizzando come la lingua biforcuta di un serpente.
Questi teschi sono decine e decine, ossessivamente identici, congelati in un’immobilità arcana, e uno dopo l’altro avanzano fino a scomparire dietro l’angolo della costruzione. Hanno quell’aria da incubo che riscontro nella maggior parte dell’arte messicana precolombiana. Sarebbero più appropriati, mi sembra, lungo il bordo di un altare su cui si usi tagliare dal petto ancora palpitante della vittima, con un coltello di ossidiana, il cuore ancora vivo.
L’edificio è a forma di U, con due ali che partono dal corpo centrale. Non vedo porte. Al centro dello spiazzo, però, una quindicina di metri davanti alla facciata dell’edificio, si vede un’apertura bordata di pietra, che dovrebbe condurre a un sotterraneo: sbadiglia, buia e misteriosa, simile all’ingresso del mondo degl’Inferi.
Comprendo subito che dev’essere il passaggio per accedere alla Casa dei Teschi. Mi avvicino e guardo dentro. Tenebre assolute. Dobbiamo farci coraggio e andare giù? Non sarebbe meglio aspettare che sbuchi qualcuno e c’inviti? Ma non sbuca nessuno, e il caldo è bestiale. Mi sento la pelle del naso e delle guance diventare sempre più gonfia e dolente: è già mezza giornata che il mio pallore invernale è esposto al sole del deserto.
Ci guardiamo in faccia, perplessi. Il Nono Mistero arde nella mia mente, e certo anche nella loro. Potremmo entrare benissimo, sì; ma poi ne torneremmo fuori solo in due. Chi sopravviverà, chi morirà?
Esamino di malavoglia quali potrebbero essere i candidati alla dipartita, soppesando a uno a uno i miei amici. Consegno rapidamente alla morte Timothy e Oliver, poi li ritiro, rivedo questo giudizio affrettato, sostituisco Oliver con Ned, Timothy con Oliver, Ned con Timothy, Timothy con me stesso, me stesso con Ned, Ned con Oliver, e via via, indeciso, senza concludere nulla.
La mia fede nella veridicità del Libro dei Teschi non è mai stata forte come ora. La mia certezza di trovarmi alle soglie dell’infinito non è mai stata più grande o più terrificante.
— Andiamo — dico con voce roca e tremula, e con qualche passo esitante mi porto sull’orlo dell’apertura. Una ripida scala di pietra conduce giù nel sotterraneo. Cinque, sei, sette gradini, e mi trovo in una galleria buia, larga ma bassa, non più di un metro e mezzo dal pavimento al soffitto. L’aria è freddissima. Qualche esile filo di luce mi consente di scorgere la decorazione delle pareti: teschi, teschi, teschi. Finora non abbiamo visto il minimo frammento d’iconografia mentre invece domina incontrastato il simbolo della morte.
Ned, da sopra, mi lancia una voce. — Che cosa vedi?
Io descrivo la galleria e dico a loro tre di seguirmi. Esitando, strascicando i piedi, scendono tutti: Ned, poi Timothy, infine Oliver. Io abbasso la schiena e mi avvio in testa.
L’aria si fa sempre più gelida. Non si vede più niente, salvo il tenue bagliore rossastro dell’entrata. Cerco di non perdere il conto dei miei passi. Dieci, dodici, quindici. Ormai dovremmo essere sotto l’edificio.
Improvvisamente mi trovo davanti una barriera di pietra levigata: una lastra unica, che blocca interamente la galleria. Me ne accorgo all’ultimo istante, cogliendo un riflesso biancastro della debolissima luce, e mi arresto di colpo prima di sbatterci il muso.
Un cul di sacco? Sì, naturalmente. Mi aspetto di udire dietro di noi il clangore di una lastra di pietra da venti tonnellate che cala sull’ingresso della galleria, lasciandoci lì in trappola a morire di fame o asfissiati mentre negli orecchi ci risuonano scrosci di risate mostruose.
Ma non succede nulla di così melodrammatico. Tanto per provare, premo la mano sulla fredda lastra di pietra che ci blocca il cammino… e la lastra (sembra di essere nel Palazzo Incantato, a Disneyland) si apre, ruotando con estrema dolcezza. È bilanciata perfettamente: basta un minimo tocco per farla muovere.
È giusto, rifletto tra me e me, che l’ingresso nella Casa dei Teschi debba avvenire in questo modo da opera lirica. Mi aspetterei anche un triste accompagnamento di corni e tromboni, e un coro di bassi che intona il Requiem a rovescio: Pietatis fons, me salva, gratis salvas salvandos qui, majestatis tremendae rex.
In alto si vede un’apertura. Ci rimettiamo in cammino, sempre a schiena piegata. Un’altra scala. Su per i gradini.
Sbuchiamo a uno a uno in un’immensa stanza quadrangolare dalle pareti di ruvida arenaria chiara. Non c’è soffitto: una dozzina o giù di lì di grosse travi nere, a intervalli di un metro, lasciano entrare la luce del sole e il caldo soffocante. Il pavimento è di un’ardesia verde e porpora, lucente, quasi oleosa. Al centro c’è una fontana in giada verde, delle dimensioni di una vasca da bagno, dalla quale si erge una figura umana alta poco meno di un metro: la testa è un teschio, fra le cui mascelle sgorga un filo d’acqua che ricade nella conca sottostante. Ai quattro angoli della stanza si trovano alte statuette di pietra, in stile maya o azteco: uomini al naturale, col naso fortemente ricurvo, labbra sottili e crudeli, enormi ornamenti appesi agli orecchi.
Sulla parete di fronte all’uscita della galleria sotterranea è praticata un’apertura che incornicia un uomo, talmente immobile che sulle prime prendo anche lui per una statua. Quando noi quattro siamo entrati tutti nella stanza, l’uomo dice, con una voce profonda e risonante: — Buongiorno. Io sono Fra Antonio.
È basso e tarchiato, non più di un metro e sessanta, e indossa solo un paio di stinti calzoni di cotone azzurro, tagliati a metà coscia. La sua pelle è fortemente abbronzata, quasi color mogano, e ha l’aspetto del cuoio di prima qualità. Il cranio, alto e dalla sommità tondeggiante, è del tutto calvo, senza neppure le usuali ciocche residue dietro gli orecchi. Il collo è corto e tozzo, le spalle larghe e possenti, il petto ampio, le braccia e le gambe molto muscolose: nel complesso da un’impressione di enorme forza e vitalità. Il suo aspetto generale e l’energia che promana da lui mi ricordano in maniera straordinaria Picasso: un uomo piccolo, solido, eterno, capace di resistere a qualsiasi cosa. Non ho la minima idea dell’età che può avere. Non è giovane, certo, ma è ben lungi dall’essere decrepito. Cinquanta? Sessanta? Un settantenne ben conservato? La sua caratteristica più sconcertante è appunto questa mancanza di età. Sembra che il tempo non l’abbia corroso… anzi, neppure sfiorato. Così, penso, è proprio come dovrebbe apparire un immortale.
Fra Antonio ci rivolge un sorriso caloroso, rivelando denti grandi e immacolati, e dice: — Ci sono soltanto io, ad accogliervi. Riceviamo pochissime visite, e non ne aspettiamo nessuna. Gli altri fratelli sono nei campi, e torneranno solo per le devozioni pomeridiane.
Parla in perfetto inglese, ma con un accento privo di vita: un accento IBM, per così dire. La sua voce è salda e musicale, il suo fraseggiare è calmo sicuro. — Consideratevi a casa vostra per tutto il tempo che vorrete rimanere. Abbiamo stanze per gli ospiti, e saremmo lieti di dividere con voi il nostro ritiro. Pensate di trattenervi per più di questo pomeriggio?
Oliver mi guarda. E anche Timothy. E Ned. Mi hanno nominato portavoce. Mi sento stringere la gola. L’assurdità, la pura irragionevolezza di quanto devo rispondere, sale a chiudermi le labbra. Le guance, bruciate dal sole, mi ardono ancora di più per la vergogna. Girati e scappa, girati e scappa, mi mormora all’orecchio una voce. Giù nella galleria. Fuggi. Fuggi. Fuggi, finché sei in tempo.
Riesco a emettere solo un roco monosillabo: — Sì.
— In tal caso occorrerà sistemarvi. Volete seguirmi, per favore?
Fra Antonio fa per lasciare la stanza; Oliver mi lancia un’occhiata furiosa. — Diglielo! — bisbiglia seccamente.
Diglielo. Diglielo. Diglielo. Avanti, Eli, parla. Cosa ti può capitare? Alla peggio ti sentirai ridere in faccia. Non sarà mica la prima volta, no? Perciò diglielo. Tutto quanto converge su questo momento: tutta la retorica, tutta l’autoconvinzione, tutte le fervide discussioni filosofiche, tutti i dubbi e i controdubbi, tutto il viaggio. Tu sei qui. Tu ritieni che questo sia il posto giusto. Perciò digli che cosa stai cercando. Diglielo. Diglielo. Diglielo.
Fra Antonio, avendo colto il bisbiglio di Oliver, si ferma e gira il capo verso di noi. — Sì? — dice garbatamente.
Lottando contro la vertigine che mi ha assalito, trovo infine le parole adatte: — Fra Antonio, deve sapere che… che noi abbiamo letto tutti il Libro dei Teschi…
L’ho detto.
La sua maschera d’incrollabile serenità gli scivola giù per un istante. Nei suoi occhi, scuri ed enigmatici, scorgo un breve lampo di… sorpresa? perplessità? confusione?
Ma il frate si riprende subito. — Davvero? — dice, con voce salda come prima. — Il Libro dei Teschi? Che titolo strano! Cosa sarà mai, questo Libro dei Teschi?
Ma la domanda vuole essere semplicemente retorica. Fra Antonio mi rivolge un sorriso luminoso, brevissimo: come un faro che attraversi per un attimo un fitto banco di nebbia. Poi, con un piccolo movimento delle dita per farci segno di seguirlo, esce tranquillamente dalla stanza.