38 Ned

Entra Eli, grave in volto, ammantato di tetraggine da rabbino, con le spalle cadenti: l’autentica personificazione del Muro del Pianto, duemila anni di sofferenze che gli gravano sulla schiena.

Eli è abbacchiato. Veramente abbacchiato. Ci siamo accorti tutti di quanto gli fa bene il genere di vita che si conduce qui alla Casa dei Teschi: fin dal primo giorno gli è venuta una bella cera, che si è fatta sempre più lustra. Non l’ho mai visto così in forma.

Ma adesso non lo è più. Una settimana fa ha cominciato a scendere di giri, e questi pochi giorni di confessioni sembra che l’abbiano spinto in fondo all’abisso. Sguardo abbattuto, muso lungo. La bislacca smorfia dello scoramento, dell’autodisprezzo. Irradia gelo da tutta la persona. È un veh-is-mir fatto carne. Che ti rode, caro Eli?

Io invece mi sento libero e leggero, piuttosto su di corda: mi sento così da tre giorni, da quando ho scaricato su Timothy la faccenda di Julian e dell’altro Oliver. Fra Javier sa il fatto suo: sgravarmi di quella porcheria era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Tirarla fuori all’aperto, analizzarla, scoprire quale parte dell’episodio era quella che mi bruciava.

Perciò adesso, con Eli, sono rilassato e cordiale; la mia solita blanda cattiveria è assente del tutto; non ho nessuna voglia di punzecchiarlo ma aspetto soltanto, da buon gattone più tranquillo che mai, pronto a ricevere la sua pena e ad aiutarlo a liberarsene. Credevo che avrebbe sparato tutta di fila la sua confessione, nella fretta di sgravarsi l’anima: invece no, vuole parlare di altre cose. Eh già, procedere per vie traverse è tipico di lui.

Mi chiede quali sono secondo me le nostre probabilità in questa Iniziazione.

Io mi stringo nelle spalle e gli rispondo che ben di rado penso a cose del genere: mi limito a seguire la nostra giornata di lavori agricoli e meditazioni e ginnastica e scopate, dicendo a me stesso che ogni giorno che passa (comunque passi) mi avvicina sempre di più alla meta.

Eli scuote il capo. È ossessionato dall’idea di un fallimento imminente. All’inizio era sicuro che la nostra Iniziazione avrebbe avuto esito positivo, e le ultime vestigia di scetticismo rimanente in lui erano scomparse; credeva implicitamente nella veridicità del Libro dei Teschi, ed era altrettanto convinto che del dono là menzionato saremmo stati resi partecipi anche noi. Adesso invece la sua sicurezza a nostro riguardo è molto incrinata, anche se la sua fede nel Libro è ancora salda. Insomma, Eli è convinto che si sta avvicinando una crisi che distruggerà le nostre speranze.

Il problema, dice, è Timothy. Lui è certo che la tolleranza di Timothy nei confronti della Casa dei Teschi è giunta virtualmente alla fine e che fra un paio di giorni Timothy taglierà la corda, lasciandoci in grossi guai per via del Ricettacolo mutilato.

— La penso anch’io così — dico.

— Cosa possiamo fare?

— Non molto. Non possiamo mica obbligarlo a rimanere.

— Se lui va via, a noi cosa capiterà?

— E come faccio a saperlo, Eli? Suppongo che avremo qualche grana con i frati.

— Io non voglio lasciarlo andar via — dice, con improvvisa veemenza.

— Non vuoi? E come ti proponi di fermarlo?

— Non lo so ancora. Ma non voglio lasciarlo andar via. — Il suo volto si contorce in una maschera tragica. — Oh Gesù! Ma non capisci, Ned, che la faccenda sta andando in pezzi?

— Veramente mi sembrava che la stessimo tirando su per benino.

— Per un po’. Per un po’ è stato così. Adesso non più. Non abbiamo mai avuto molta autorità su Timothy, e adesso lui non si cura neanche più di nascondere la sua impazienza, il suo disprezzo… — Eli ficca la testa fra le spalle, come una tartaruga. — E poi la storia delle sacerdotesse. Le orge pomeridiane. Io me la cavo male, Ned. Non ce la faccio a raggiungere l’autodominio. È splendido avere a libera disposizióne quelle donne, ma io non riesco a imparare la disciplina erotica che dovrei invece padroneggiare.

— Ti stai arrendendo troppo presto.

— Non vedo nessun progresso. Non ho mai potuto durare abbastanza per tutt’e tre le donne. Per due, sì: un paio di volte. Per tre, mai.

— È tutta questione di pratica.

— E tu ci riesci?

— Me la cavo benino.

— Naturale. Tu te ne sbatti, delle donne! Per te si tratta solo di un esercizio fisico, come dondolare su un trapezio. Ma io non posso fare a meno di sentirmi coinvolto, Ned, io quelle ragazze le considero oggetti sessuali, quello che faccio con loro ha per me un enorme significato, e così… e così… Oh cristo, Ned, se non me la cavo in questa prova, a cosa serve sgobbare sodo in tutto il resto?

Sprofonda in un baratro di autocommiserazione. Io mormoro opportune parole d’incoraggiamento: non cedere, ragazzo mio, non arrenderti troppo presto. Poi gli rammento che il motivo per cui dovrebbe essere qui da me è la confessione. Lui fa cenno di sì col capo. Per un minuto o più rimane ancora in silenzio, distaccato, dondolandosi avanti e indietro.

Infine, di colpo, butta lì una domanda straordinariamente fuori di proposito: — Ned, ma lo sai che Oliver è un finocchio?

— Non mi sono occorsi più di cinque minuti, per scoprirlo.

— Lo sapevi?

— Non hai mai sentito il proverbio che dice "ci vuole un finocchio per riconoscerne un altro"? Gliel’ho letto in faccia la prima volta che l’ho visto. Mi sono detto: questo qui è un finocchio, che lui lo sappia o no; è uno di noi, chiaro come il sole. Gli occhi vitrei, la mandibola serrata, lo sguardo che tradisce brame represse, la crudeltà a malapena soffocata di un’anima stretta nei ceppi, di un’anima che soffre perché non le è consentito di fare quello che desidera disperatamente. Tutto quanto, in Oliver, è un indizio lampante: lo studio accanito, inteso come una forma di autopunizione; il modo in cui affronta gl’impegni sportivi; perfino quel suo frenetico portarsi a letto una ragazza dopo l’altra. È un classico caso di omosessualità latente, ecco.

— Non latente — dice Eli.

— Cioè?

— Oliver non è un finocchio solo potenzialmente. Ha avuto un’esperienza omosessuale. Una sola, d’accordo: ma gli ha lasciato un’impressione profonda, e ha influito su tutti i suoi atteggiamenti fin da quando aveva quattordici anni. Perché credi che ti abbia chiesto di dividere la stanza con lui? Solo per mettere alla prova il suo autodominio. Tutti questi anni, in cui non si è neppure permesso di sfiorarti, sono stati per lui una vera pratica di stoicismo. Ma ciò che lui vuole sei tu, Ned: non te ne sei reso conto? Non si tratta di omosessualità latente: è conscia, è proprio appena sotto la superficie.

Rimango a fissare Eli in silenzio. Ciò che ha detto è una cosa che forse potrei volgere a mio grande vantaggio; ma, a parte la speranza di ricavare un utile personale dalla rivelazione di Eli, sono rimasto affascinato e sbalordito dalla rivelazione in sé, come capita sempre quando si è messi al corrente di pettegolezzi riservati di questo genere.

Però avverto anche una sensazione sgradevole. Mi è venuta in mente una cosa che mi è capitata una volta a una festa di omosessuali, l’estate che ho passato a Southampton. C’erano due uomini che vivevano insieme da una ventina d’anni, e si sono messi a litigare violentemente, e a un certo punto uno dei due ha strappato via l’accappatoio di spugna dell’altro, lasciandolo nudo davanti a tutti noi, facendoci vedere il ventre grasso e tremolante, l’inguine praticamente glabro, gli atrofizzati genitali di un bambino di dieci anni, e gridandoci di guardare bene che roba aveva dovuto sopportare per tutto quel tempo.

Beninteso, quello smascheramento drammatico aveva fornito per varie settimane deliziosi pettegolezzi da cocktail-party; ma aveva lasciato me nauseato, perché io e tutti i presenti eravamo stati testimoni involontari della sofferenza intima di un altro, e io sapevo che a quel tale non era stato messo a nudo soltanto il corpo.

E adesso Eli mi viene a dire una cosa che sotto un certo aspetto potrebbe essermi utile, ma che nel contempo mi ha fatto ficcare il naso — mio malgrado — nell’anima di un altro.

Gli domando: — Dove hai scoperto tutto questo?

— Me l’ha detto Oliver ieri sera.

Nella sua confess…

— Nella sua confessione, sì. Gli è capitato quando era ancora nel Kansas. Era andato a caccia nella boscaglia con un suo amico, un ragazzo maggiore di lui di un anno, e si sono fermati a nuotare, e quando sono usciti dall’acqua il suo amico l’ha sedotto, e Oliver ha provato piacere. E non ha mai dimenticato quel senso di totale estasi fisica, benché si sia guardato bene dal ripetere l’esperienza. Perciò tu hai perfettamente ragione quando dici che è possibile spiegare gran parte della tensione di Oliver, del suo carattere ossessionato, mediante il presupposto di un suo sforzo incessante per reprimere la…

— Eli?

— Sì, Ned?

— Eli, queste confessioni dovrebbero rimanere segrete.

Eli si mordicchia il labbro inferiore. — Lo so.

— Raccontandomi queste cose… raccontandole proprio a me… tu violi l’intimità di Oliver.

— Lo so.

— E allora perché l’hai fatto?

— Credevo che ti potessero interessare.

— No, Eli, non la bevo. Con la tua sensibilità morale, con la tua consapevolezza esistenziale… Balle, caro mio, tu non volevi fare semplicemente dei pettegolezzi. Sei venuto qui con la precisa intenzione di tradire Oliver. Perché? Stai cercando di far nascere qualcosa fra me e lui?

— No davvero.

— E allora perché mi hai parlato di Oliver?

— Appunto perché sapevo che parlarne a un altro non era una bella azione.

— Che razza di motivo idiota è?

Eli fa una risatina imbarazzata. — Così potevo avere qualcosa da confessare. Questa mia violazione di un segreto altrui è per me la cosa più odiosa che abbia mai fatto. Capisci, rivelare il segreto di Oliver proprio alla persona più indicata per trarre vantaggio dalla sua vulnerabilità. Okay, l’ho fatta: e adesso ne faccio confessione formale. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Il peccato l’ho commesso proprio davanti ai tuoi occhi; ora dammi l’assoluzione, per piacere.

Ha mitragliato così in fretta le parole che per un attimo non sono riuscito a seguire le contorsioni bizantine del suo ragionamento. E anche dopo averlo afferrato, non sono riuscito a credere che lui facesse sul serio. Finalmente esplodo: — Questa è una truffa, Eli!

— Davvero?

— Il tuo è un cinismo di cui non sarebbe capace neppure Timothy. Viola lo spirito e forse anche la lettera delle istruzioni di Fra Javier. Fra Javier non intendeva certo che commettessimo un peccato seduta stante per poi pentircene subito. Tu dovevi confessare qualcosa di reale, qualcosa del tuo passato qualcosa che ti brucia l’anima da anni e anni, qualcosa di profondo e velenoso.

— E se non ho da confessare niente di questo genere?

— Niente, Eli?

— Niente.

— Non hai mai desiderato che tua nonna cascasse morta perché ti aveva costretto a mettere un abito pulito? Non hai mai spiato nelle docce delle ragazze? Non hai mai strappato le ali a una mosca? Eli, puoi dire in tutta onestà di non avere neanche una colpa sepolta in fondo all’anima?

— Neanche una.

— Non sei tu, il più adatto a giudicarlo.

— E chi altri, se no? — Eli comincia a irritarsi.

— Ascolta, se avessi avuto qualcos’altro da dirti te l’avrei detto. Ma non l’avevo. A che scopo fare un dramma per aver strappato le ali a una mosca? La mia vita è un misero insieme di miseri peccatucci con i quali non mi sognerei neanche di annoiarti. Non vedevo nessun modo per ottemperare alle istruzioni di Fra Javier. Poi, all’ultimo momento, ho pensato a questa faccenda di violare il segreto di Oliver, il che appunto è quello che ho fatto. Credo che possa bastare. E adesso, se non ti dispiace, vorrei andarmene.

Si dirige alla porta.

— Aspetta! — esclamo. — Io rifiuto la tua confessione, Eli. Tu stai cercando di condirmi via con un peccato ad hoc, con una colpa fabbricata apposta. Niente da fare. Io voglio qualcosa di reale.

— Quello che ti ho detto su Oliver è reale.

— Hai capito benissimo cosa intendevo.

— Non ho niente da darti.

— Non è per me, Eli. È per te, per il tuo rito di purificazione. Io ci sono già passato, e anche Oliver, e perfino Timothy; e tu invece sottovaluti i tuoi peccati e dichiari di non aver mai commesso nulla di cui valga la pena di provare rimorso… — Faccio una spallucciata. — Benissimo. È in gioco la tua immortalità, non la mia. Vai pure. Va’, va’!

Eli mi lancia un’occhiata terribile, un’occhiata di paura e di rancore e di angoscia; e si precipita fuori dalla camera.


Dopo che se n’è andato, mi rendo conto di avere i nervi tesi allo spasimo: mi tremano le mani, un muscolo nella coscia sinistra seguita a contrarsi.

Che cosa mi ha sconvolto in questo modo? La vigliaccheria dimostrata da Eli nel non voler aprire il suo animo oppure la rivelazione della disponibilità di Oliver? Tutt’e due, concludo. Tutt’e due. Ma la seconda più della prima.

Mi chiedo che cosa succederebbe se mi recassi adesso da Oliver. Lo fisserei in quei suoi glaciali occhi azzurri. Conosco la verità su di te, gli direi con voce calma e sommessa. So tutto su come sei stato sedotto dal tuo amico quando avevi quattordici anni. Soltanto, Oliver, non cercare di dirmi che è stata seduzione: io non credo nelle seduzioni, e sull’argomento ho una certa esperienza. Non si può parlare di seduzioni, quando si è già finocchi. E tu lo eri già, Oliver: lo sei sempre stato fin dall’inizio, codificato nei tuoi geni, nel tuo midollo, nelle tue palle, era lì che aspettava solo l’occasione di manifestarsi e qualcuno te l’ha offerta e tu ti sei rivelato per quello che eri. Che sei.

E gli direi ancora: hai avuto la tua occasione, e la cosa ti è piaciuta, e poi hai passato sette anni a lottare per non ripeterla, e ora la farai con me. Non perché le mie lusinghe siano irresistibili. Non perché io ti abbia intontito con le droghe o con l’alcol. Non sarà una seduzione. No, tu la farai perché la vuoi fare, Oliver, perché l’hai sempre voluta fare. Non hai mai avuto il coraggio di concedertela. Bene, ecco qui la tua occasione. Eccomi qui.

E mi avvicinerei, a lui, lo toccherei, e lui scrollerebbe il capo e farebbe un ringhio gutturale, perché vorrebbe ancora lottare contro se stesso; ma poi qualcosa scatterebbe dentro di lui, la tensione accumulata in sette anni si spezzerebbe, e lui cesserebbe di lottare. Si arrenderebbe, e finalmente la faremmo.

E poi giaceremmo insieme in un viluppo sudato e stremato, ma il suo ardore si spegnerebbe come capita sempre dopo, e in lui nascerebbe un senso di colpa grave e di vergogna; e allora Oliver (lo vedo chiaramente come se la scena si stesse svolgendo adesso davanti ai miei occhi) mi picchierebbe a morte, mi bastonerebbe, mi spiaccicherebbe contro il pavimento di pietra, macchiandolo col mio sangue. E mentre io mi contorcerei fra gli spasimi lui si ergerebbe su di me investendomi con le sue grida furiose, perché gli avrei mostrato il suo vero io, a faccia a faccia, e lui non potrebbe sopportare il pensiero di quanto avrebbe visto nei propri occhi.

D’accordo, Oliver, se devi distruggermi distruggimi. Per me è okay, io ti amo, e quindi tutto ciò che mi fai per me è okay. E questo serve anche ad adempiere al Nono Mistero, no? Io sono venuto qui per averti e poi morire; ti ho avuto, e adesso — al giusto momento mistico — sono pronto a morire, e per me è okay, mio amato Ol, è tutto okay.

E i suoi spaventosi pugni mi fracassano le ossa. E il mio corpo spezzato sussulta e si contorce. E infine rimane immobile. E dall’alto risuona la voce estatica di Fra Antonio che intona la formula del Nono Mistero. E una campana invisibile rintocca: dong, dong, dong, Ned è morto, Ned è morto, Ned è morto.


La mia fantasticheria era così intensamente reale che ho cominciato a tremare e rabbrividire: percepivo in ogni molecola del corpo la violenza di quella visione. Mi parve di essere già stato da Oliver, di essermi già avvinghiato a lui nell’estasi, di essere già defunto sotto il peso della sua collera. E pertanto non avevo più bisogno di fare ora quelle cose. Erano finite, adempiute, incapsulate nei sigilli del passato. Allora mi sono messo ad assaporare i miei ricordi di Oliver. Il tocco della sua pelle liscia. Il granito dei suoi muscoli che cedeva di fronte alle mie dita spinte avanti in esplorazione. Il sapore di lui sulle mie labbra. Il sapore del mio stesso sangue, che mi colava in bocca mentre lui comiciava a pestarmi. La resa del mio corpo. L’estasi. La voce cne risuonava dall’alto. La campana. I frati che salmodiavano per me un requiem.

Sono sprofondato in una fantasticheria a occhi aperti.


Poi mi accorgo che qualcuno è entrato nella mia stanza. La porta si richiude. Rumore di passi. Accetto anche questo come facente parte della fantasticheria. Senza alzare gli occhi decido che Oliver è venuto a trovarmi, mi convinco che è Oliver, che deve per forza essere Oliver… per cui rimango momentaneamente sbalordito quando infine mi giro e scorgo Eli.

Si è seduto in silenzio contro la parete opposta. Nella sua visita precedente (dieci minuti fa? mezz’ora?) era apparso semplicemente depresso, ma ora sembra del tutto a pezzi. Occhi bassi, spalle cascanti.

— Non riesco a trovare il significato di questa faccenda della confessione — dice con voce sorda. — Non ne vedo nessuno: né reale, né simbolico, né metaforico, né altro. Mi sembrava di averlo capito, la prima volta che ce ne ha parlato Fra Javier; ma ora non più. È una cosa che dovremmo fare allo scopo di liberarci dalla morte? Ma perché? Perché?

— Perché ce l’hanno detto loro, di farlo.

— Come sarebbe a dire?

— È questione di ubbidienza. L’ubbidienza origina la disciplina, la disciplina origina l’autodominio, l’autodominio origina il potere di vincere il decadimento. L’ubbidienza è antientropica. Il nostro nemico è l’entropia.

— Come sei facondo!

— La facondia non è peccato.

Eli ride e non replica niente. Mi accorgo benissimo che si trova in equilibrio precario fra sanità mentale e follia, ma non voglio essere proprio io — che barcollo lungo quel sottile confine da quando sono nato — ad avvisarlo del pericolo.

Passa un po’ di tempo. La mia visione di me stesso con Oliver si allontana e svanisce. Non ne porto rancore a Eli: questa serata appartiene tutta a lui.

Finalmente si decide ad aprire bocca. Mi parla di un saggio che ha scritto a sedici anni, quando era al liceo: un saggio sulla decadenza morale dell’Impero Romano d’Occidente considerata in base alla degenerazione del latino nelle varie lingue romanze.

Se ne ricorda tuttora gran parte, e me ne cita lunghi brani. Io lo sto a sentire con un orecchio solo, facendo educatamente mostra di ascoltarlo ma nulla più: il saggio mi sembra brillante, un’opera notevole in assoluto e senz’altro straordinaria considerando che è stata scritta da un ragazzo di sedici anni, ma in questo momento non ho un enorme desiderio di apprendere quali sottili implicazioni morali si possono scoprire negli schemi evolutivi del francese e dello spagnolo e dell’italiano.

Però poi, un pochino alla volta, afferro il motivo per il quale Eli mi racconta questa faccenda: in realtà si sta confessando. Il saggio l’aveva scritto per partecipare a un concorso bandito da una famosa e prestigiosa associazione: e aveva vinto, ricevendo di conseguenza una pingue borsa di studio che gli aveva consentito di accedere all’università. Di più: quel saggio è stato determinante per la sua carriera universitaria, perché venne pubblicato in un’importante rivista filologica rendendolo una celebrità in quel piccolo reame di studiosi. Benché fosse solo una matricola, gli altri studiosi lo citavano in termini elogiativi nelle note in calce; per lui erano aperte le porte di tutte le biblioteche; e infine, se non avesse composto quel saggio dal quale dipendeva la sua fama, non avrebbe avuto l’occasione di scoprire il manoscritto che ci ha condotto qui alla Casa dei Teschi.

Ma… (e neppure in questo momento la sua voce perde il tono inespressivo col quale, pochi minuti fa, aveva fatto un’esposizione dei verbi irregolari)… il concetto fondamentale di quel saggio non era farina del suo sacco. Eli l’aveva rubato.

Ha-hà! Ecco dunque il peccato di Eli Steinfeld! Non banalità di natura sessuale, non episodi infantili di sodomia o di masturbazione reciproca, non coccolamenti incestuosi fra le blande proteste della mammina; ma invece un delitto intellettuale, che più di tutti spalanca le porte dell’inferno. C’è poco da stupirsi che Eli sia stato così riluttante a confessarlo. Adesso, però, non esita più a scodellare la verità accusatrice.

Un giorno suo padre, che si trova per caso a mangiare a un ristorante automatico della Sesta Strada, nota accanto a sé un ometto scialbo e insignificante che sfoglia un librone voluminoso. È un testo di analisi linguistica: Aspetti diacronici e sincronici del linguaggio di Sommerfelt.

Il titolo non direbbe nulla al signor Steinfeld se poco tempo addietro lui non avesse dovuto sborsare sedici dollari e mezzo (mica una somma da ridere, in quella famiglia) per acquistarne una copia a Eli, il quale sentiva di non poter vivere ancora per molto senza quel libro. Sobbalzo di stupore, dunque, nel riconoscere il poderoso volume in-quarto. Empito di orgoglio paterno: mio figlio filologo!

Presentazioni. Conversazione. Immediato rapporto cordiale: un profugo di mezza età, in un ristorante automatico, non ha nulla da temere da un suo simile. — Mio figlio — dice il signor Steinfeld, — sta leggendo lo stesso libro! — Espressioni di grande gioia.

L’ometto è un romeno ex professore di linguistica all’università di Cluj: è espatriato nel 1939, sperando di poter entrare in Palestina ma arrivando invece negli Stati Uniti dopo un giro vizioso attraverso Repubblica Dominicana, Messico, Canada. Incapace di assicurarsi una cattedra, vive in tranquilla povertà nella periferia nordoccidentale di Manhattan, accettando qualsiasi lavoro che riesce a trovare: lavapiatti in un ristorante cinese, correttore di bozze per un quotidiano in romeno che ha avuto vita corta, addetto al ciclostile in un’agenzia d’informazioni che si occupa di persone scomparse, e così via. Nel frattempo prepara con grande diligenza il suo capolavoro, un’analisi strutturale e filosofica della decadenza del latino con l’avvento del medioevo. Il manoscritto è virtualmente completo in romeno, dice al padre di Eli, e lui ha già iniziato la necessaria traduzione in inglese; ma il lavoro va avanti con molta lentezza perché lui con l’inglese non si trova ancora a suo agio avendo la testa così piena di altre lingue. Il suo sogno è di terminare il libro, trovare un editore disposto a pubblicarlo, e col ricavato andare in Israele a trascorrervi gli ultimi anni.

— Vorrei conoscere il suo ragazzo — dice improvvisamente. Istantanee ondate di sospetto da parte del signor Steinfeld. È forse un pervertito, costui? Un molestatore di fanciulli, un pederasta? Ma no, ma no! È un brav’uomo ebreo, uno studioso, un melamed, un membro della confraternita internazionale delle vittime: come potrebbe far del male a Eli? Scambio di numeri telefonici.

Si combina l’appuntamento. Eli va nell’appartamentino del romeno: un’unica stanzetta zeppa di libri, manoscritti, noti periodici in una decina di lingue. Ecco, leggi questo, dice il degno uomo, e questo e questo e questo, i miei saggi, le mie teorie; e ficca nelle mani di Eli fogli e fogli di vergatina fittamente dattiloscritti con interlinea uno e senza margini.

Eli torna a casa, legge, la sua mente si espande. Fantastico! Quel vecchietto ha messo insieme una summa! Infiammato di fervore, Eli si dedica a imparare il romeno, a diventare l’amanuense del suo nuovo amico, ad aiutarlo a tradurre più in fretta possibile il capolavoro di linguistica. Ragazzo e vecchio stendono febbrilmente un piano di collaborazione. Fanno castelli in Romania.

Eli, pagando di tasca propria, fa una fotocopia di tutti i manoscritti, affinché non succeda che un incendio — sviluppatosi in un appartamento limitrofo perché un goy s’è addormentato scioccamente con la sigaretta accesa — distrugga il frutto di un’intera vita di studi. Ogni giorno, finita la scuola, Eli si precipita alla stanzetta ingombra di carte. Poi, un pomeriggio, nessuno risponde al suo bussare. Una disgrazia? Arriva il portinaio, borbottando, con l’alito che sa di whisky; apre la porta con la propria chiave di riserva; dentro c’è il romeno, faccia cadaverica, morto stecchito.

Un’associazione di profughi paga le spese del funerale. Salta fuori un nipote, misteriosamente mai citato prima, e porta via verso un destino ignoto tutti i libri e i manoscritti. Eli rimane solo con le sue fotocopie. E ora? In che modo può essere il tramite mediante il quale l’umanità verrà a conoscenza di quest’opera? Ah! Il concorso per la borsa di studio!

Eli si attacca alla macchina per scrivere, un’ora dopo l’altra, come posseduto. Nella sua mente, la distinzione fra lui stesso e il defunto amico si fa sempre più incerta. Avevano fatto un patto di collaborazione: per mio tramite, pensa, Eli, questo grand’uomo parlerà dalla tomba.

Il saggio viene terminato, e nella mente di Eli non sussiste il minimo dubbio sul suo valore: si tratta di un capolavoro assoluto. In più, Eli ha la grande gioia di sapere che in tal modo ha salvato l’opera di uno studioso rimasto ingiustamente oscuro.

Invia alla commissione esaminatrice del concorso le sei copie prescritte; in primavera arriva la raccomandata in cui gli si comunica che ha vinto; viene convocato in una sala rivestita di marmo dove riceve una pergamena, un assegno per una somma che lui non riesce nemmeno a concepire, e le eccitate congratulazioni di uno stuolo di professoroni illustri. Poco dopo giunge la prima richiesta di collaborazione da parte di una rivista specializzata. Ha inizio la sua carriera.

Soltanto in seguito Eli si accorge che nel suo saggio ha completamente dimenticato — chissà come — di nominare l’autore sulla cui opera si basano le sue teorie. Non un riconoscimento, non una nota in calce, non una sola citazione.

Eli rimane confuso per questo errore di omissione, ma immagina che sia troppo tardi per rimediare; e senz’altro lo è qualche mese dopo, quando il saggio viene pubblicato e ne comincia l’esame da parte degli studiosi… Eli vive nel terrore che da un momento all’altro salti fuori un vecchio romeno, mostrando una serie di fascicoli di un’oscura rivista pubblicata a Bucarest prima della guerra e gridando che quel giovanotto impudente ha spudoratamente saccheggiato il pensiero del suo illustre e compianto collega, il povero dottor Nicolescu. Ma non salta fuori nessun romeno, nessuna accusa. Il saggio viene universalmente accettato come opera di Eli, e all’avvicinarsi degli esami di diploma parecchie università di grido gareggiano per avere l’onore di contare Eli fra i propri studenti.

E questo squallido episodio, dice Eli a conclusione del suo racconto, può ben simboleggiare l’intera sua vita intellettuale: tutto contraffatto, niente profondità di pensiero, idee chiave rubate ad altri. Finora ha potuto tirare avanti grazie alla sua abilità di comporre estratti di cose altrui camuffandoli da opere originali, e grazie a una certa capacità innegabile di assimilare la sintassi delle lingue arcaiche; ma non ha dato nessun contributo autentico all’umano sapere, il che sarebbe perdonabile — data la sua età — se lui non si fosse fraudolentemente guadagnato la prematura reputazione di essere il più acuto pensatore dopo Benjamin Whorf nel campo della linguistica.

E invece cos’è, in realtà? Un golem, un orpello, una Disneyland ambulante di filologia. Ora si attendono da lui miracoli d’intuizione; ma che cosa può dare? Non gli è rimasto da offrire più nulla, mi dice con amarezza. L’ultimo manoscritto del romeno l’ha già sfruttato molto tempo fa.


Cala un silenzio immane. Io non riesco neppure a guardare in faccia Eli. Questa è stata più che una confessione: è stato un hara-kiri. Eli si è autodistrutto davanti ai miei occhi.

Certo, io ho sempre sospettato della presunta profondità di pensiero di Eli: benché non ci siano dubbi sull’acutezza della sua mente, le sue «intuizioni» mi hanno dato sempre l’impressione di essere di seconda mano. Tuttavia non ho mai immaginato questa faccenda, questo furto, questa impostura.

Che cosa potrei dirgli, ora? Dovrei far schioccare la lingua, come un prete, e dirgli: — Sì, bambino mio, hai commesso un peecato orribile? — Lo sa benissimo. Dovrei dirgli che Dio lo perdonerà perché Dio è amore? Non ci credo neanch’io. Forse potrei parafrasare Goethe e dirgli: ci si può sempre redimere dal peccato compiendo opere buone. Eli, bonifica paludi e costruisci ospedali e scrivi qualche brillante saggio che sia farina del tuo sacco, e tutto finirà bene.

E lui se ne sta lì ad aspettare l’assoluzione, ad aspettare il Verbo che lo libererà dal giogo. Ha il volto inespressivo, gli occhi devastati. Vorrei che avesse confessato un banale peccatuccio di carne.

Oliver ha scopato l’amico, nulla più: un peccato che per me non è tale ma soltanto un bel giochetto piacevole; pertanto l’angoscia di Oliver era irreale, il semplice prodotto del conflitto fra i naturali desideri del suo corpo e il condizionamento imposto dalla società. Nell’Atene di Pericle, Oliver non avrebbe avuto niente da confessare.

Il peccato di Timothy, qualunque sia, è certamente qualcosa di altrettanto superficiale, in deroga non a leggi etiche universali ma a tabù tribali circoscritti a un determinato ambiente: forse ha dormito con una servetta, forse ha spiato un amplesso dei genitori.

La mia colpa è più complessa, perché io ho gioito della rovina altrui e forse addirittura l’ho causata, ma in ultima analisi è una cosa di poco conto piuttosto inconsistente.

Ma il peccato di Eli è un altro paio di maniche. Se al centro della brillante carriera di Eli come studioso c’è soltanto il plagio, allora dentro di lui non c’è nulla: Eli è vuoto, è fatto solo di crosta superficiale; e quale assoluzione potrebbe essergli offerta, per questo?

Bene: Eli mi ha fatto la sua brava truffa, all’inizio della serata, e adesso sono costretto a truffare anch’io.

Mi alzo, mi accosto a lui, gli prendo le mani nelle mie, lo faccio alzare in piedi, e pronuncio quelle che per lui sono parole magiche: contrizione, penitenza, perdono, redenzione. Procedi sempre verso la luce, Eli.

Nessuna anima è dannata per l’eternità. Lavora sodo, applicati con zelo, sforzati di comprendere te stesso, e vedrai che alla fine otterrai la misericordia divina; infatti la tua debolezza ti viene da Lui, e se Gli mostrerai che sei capace di superarla non riceverai da Lui nessun castigo.

Eli, con un’aria assente annuisce alle mie parole. Poi esce definitivamente dalla mia camera.

Io penso al Nono Mistero, mi domando se vedrò mai più Eli vivo.

Mi metto a camminare su e giù per la stanza. Cammino e cammino a lungo, covando turpi propositi.

Infine Satana m’infiamma e io mi precipito da Oliver.

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