Ed eccoci trasformati in investigatori. Su e giù per Phoenix, cercando di scoprire l’ubicazione della Casa dei Teschi. Io lo trovo divertente, essere arrivati fin qui e non poter effettuare l’ultimo collegamento. Tutto ciò che Eli ha come guida è quel suo ritaglio di giornale, che situa il monastero «non molto a nord di Phoenix». Questo «non molto a nord di Phoenix» è un’area piuttosto vasta: significa da qui al Grand Canyon, per dire beninteso da un lato all’altro dello stato.
Questa mattina, dopo colazione, Timothy ha mostrato al portiere il ritaglio di Eli, dato che Eli si sentiva troppo timido o riteneva di avere un’aria troppo da americano dell’est per fare lui le domande. Il portiere non sapeva nulla su nessun monastero da nessuna parte, e ci ha suggerito di chiedere negli uffici del giornale, proprio di fronte al motel. Ma il giornale, essendo del pomeriggio, non apriva fino alle nove; e noi, ancora abituati all’ora dell’est, ci eravamo alzati prestissimo. Erano le otto meno un quarto.
Così abbiamo gironzolato in città per ammazzare quei quarantacinque minuti, osservando le botteghe di barbiere, le edicole, le vetrine dei negozi che vendevano vasi indiani e accessori per cowboy. Il sole era già forte, e il termometro sopra una banca annunciava che la temperatura era di ventisei gradi. Prometteva di essere una giornata afosa. Il cielo era di un azzurro immacolato; le montagne subito oltre la città, di un bruno chiaro. Strade silenziose, praticamente senza traffico. Non era un’ora di punta, lì in centro.
Non ci siamo quasi scambiati una sola parola. Oliver sembrava ancora di cattivo umore per la scenata di ieri a proposito di quell’autostoppista: evidentemente si sentiva imbarazzato, e con buone ragioni. Timothy aveva un’aria seccata e sprezzante. Si era aspettato che Phoenix fosse più vivace, che fosse il dinamico centro della dinamica economia dell’Arizona; e quella tranquillità l’aveva come offeso. (Poi abbiamo scoperto che il quartiere vivace e dinamico si trova due o tre chilometri a nord del centro). Eli era teso e chiuso in se stesso: senza dubbio si stava chiedendo se ci avesse trascinati per nulla attraverso l’intero continente.
E io? Irritabile. Labbra secche, gola secca. Lo scroto rigido, come mi succede sempre quando sono molto ma molto nervoso. Continuavo a contrarre e rilasciare i glutei. E se la Casa dei Teschi non esiste? Peggio ancora: se esiste? In tal caso la mia complessa danza oscillante avrà fine: o dovrò prendere posizione, arrendermi all’evidenza, consegnarmi anima e corpo alle cerimonie dei Custodi… oppure, con una risata di scherno, sparire. Che cosa farò? Il Nono Mistero occhieggia sempre fra le quinte, minaccioso e tentatore. Le eternità devono essere controbilanciate dalle estinzioni. Due vivranno per sempre, due moriranno subito. Questa frase la sento vibrare di una musica dolce e tremula; la vedo luccicare in lontananza; mi pare di udirla cantare in toni seducenti fra le alture spoglie. La temo, e tuttavia non resisto davanti alla possibilità (benché rischiosa) che offre.
Alle nove in punto ci presentiamo alla sede del giornale. È ancora Timothy, che parla: i suoi modi disinvolti, sicuri, da membro delle classi superiori, gli consentono di andare via liscio in ogni genere di situazione. I vantaggi della discendenza aristocratica!
Timothy dichiara che siamo studenti universitari impegnati in ricerche per una tesi sulla vita monastica contemporanea; il che (attraverso la centralinista e un cronista) ci conduce a un caposervizio il quale legge il nostro ritaglio e dice di non sapere nulla su un monastero nel deserto (sconforto!); però, aggiunge, c’è un suo redattore che è sempre al corrente di tutte le «comuni», sedi di culto e simili che s’installano ai margini della città (speranza!). E dov’è, ora, costui? Oh, è in vacanza (disperazione!). Quando sarà di ritorno a Phoenix? Veramente non è andato via (speranza rinata!). Passa le vacanze a casa. Potrebbe essere disposto ad aiutarci. Dietro nostra richiesta, il caposervizio fa una telefonata e ci procura un invito alla casa di questo suo specialista in bislaccherie. — Abita oltre via casa di Betania, subito dopo la Centrale, all’isolato 6400. Sapete dov’è?
Sono dieci minuti di auto. Ci lasciamo alle spalle il centro ancora addormentato e filiamo a nord attraverso l’animato quartiere degli affari, tutto grattacieli di vetro e immensi centri-acquisti, dal quale passiamo in un rione di sconcertanti case moderne seminascoste da giardini di fitta vegetazione tropicale. Poi un breve tratto fino a una zona residenziale più modesta, e finalmente arriviamo all’abitazione dell’uomo che ha la risposta per noi.
Si chiama Gilson. Quarant’anni, molto abbronzato, occhi azzurrissimi, fronte alta e lucida. Tipo simpatico. Tenersi al corrente sulle comunità bislacche non è per lui una mania ma un semplice hobby: Gilson non è uomo da avere manie. Sì, conosce la Confraternita dei Teschi, anche se lui usa l’espressione «Padri messicani». Non c’è stato di persona, ma ha parlato con un tale del Massachusetts che c’era andato: forse lo stesso che ha scritto il famoso articolo.
Timothy gli domanda se sa indicarci dove si trova il monastero. Gilson ci fa entrare: casa piccola, pulita, tipico arredamento sudoccidentale (tappeti Navaho sulle pareti, sugli scaffali della libreria una mezza dozzina di vasi Hopi color crema e arancione). Gilson prende una carta di Phoenix e dintorni. — Adesso siete qui — dice, indicando sulla carta. — Per uscire dalla città prendete in questo punto la superstrada del Canyon Nero e andate a nord. Seguite i cartelli per Prescott, ma senza arrivare fin là. Infatti in questo punto, vedete?, due o tre chilometri fuori città, lasciate la superstrada. Ma avete una carta? Ecco, vi segno la rotta. Adesso prendete questa strada qui, poi girate in questa, ecco, verso nordest, la seguite per un nove o dieci chilometri… — Gilson traccia sulla nostra carta una serie di zigzag e finalmente una grossa X.
— No — dice — non è qui che si trova il monastero. Questo è il punto in cui dovete lasciare la macchina e proseguire a piedi. La strada diventa un semplice viottolo: non ci passa neanche una jeep, ma quattro giovanottoni come voi non troveranno nessuna difficoltà. Fate cinque o sei chilometri, sempre verso est, e ci siete.
— E se non lo troviamo? — domanda Timothy. — Il monastero, non il viottolo.
— Non può sfuggirvi. Ma se arrivate alla riserva indiana Forte McDowell, vorrà dire che siete andati un po’ troppo avanti. E se vedete il lago Roosevelt, vorrà dire che siete andati veramente troppo avanti.
Quando ci congediamo, Gilson chiede di fermarci da lui, sulla strada del ritorno, per raccontargli cos’abbiamo scoperto. — Mi piace tenere aggiornati i miei schedari — spiega. — Vorrei andarci di persona a dare un’occhiata, ma… sapete com’è, un sacco di cose da fare e così poco tempo per farle.
Certo, replichiamo noi. Gli riferiremo tutto dall’A alla Z.
In auto. Oliver guida; Eli fa l’ufficiale di rotta, con la carta distesa in grembo. Verso ovest, per prendere la superstrada del Canyon Nero. Un’arteria ampia, bollente nell’afa di metà mattina. Niente traffico, a parte qualche enorme camion. Puntiamo a nord.
Presto tutte le nostre domande troveranno risposta; e senza dubbio ne nasceranno altre. La nostra fede (o forse, semplicemente, la nostra ingenuità) sarà compensata. In questo caldo torrido, mi viene un brivido gelido. Odo salire dall’orchestra una risonante ouverture, sinistra, wagneriana, con le tube e i tromboni che producono una cupa melodia vibrante. Il sipario sta salendo, benché io non sappia con certezza se questo è il primo atto o l’ultimo.
Non ho più dubbi sull’esistenza del monastero. Gilson è stato categorico: non si tratta di un mito, di un’ulteriore manifestazione dell’esigenza di spiritualismo che questo deserto sembra destare nell’umanità. Troveremo il monastero; e sarà quello giusto, il diretto discendente di quello descritto nel Libro dei Teschi. Un altro brivido delizioso: e se ci trovassimo a faccia a faccia con l’autore in persona di quell’antico manoscritto, millenario, senza tempo? Tutto è possibile, se si ha fede.
Fede. Quanta parte della mia vita è stata foggiata da questa parolaccia?
Ritratto dell’artista da mocciosetto.
Il collegio dei gesuiti, col tetto che faceva acqua, il vento che sibilava attraverso le finestre bisognose di stucco, le suore pallide e impalate che ci guatavano arcigne dai loro occhiali severi. Il catechismo. I bambini ben pettinati, con la camicia bianca e la cravatta rossa. Padre Burke, che ci faceva la dottrina. Paffuto, giovane, volto roseo, le eterne goccioline di sudore sul labbro, una piega di carne morbida sopra il collarino romano. Sui venticinqueventisei anni: il suo celibato lottava contro gli ancora indomiti pruriti della giovinezza, e durante le meditazioni notturne lui doveva certo chiedersi se ne valeva la pena. A Ned (anni sette), Padre Burke appariva come l’incarnazione dello Spirito Santo, un’incarnazione enorme e feroce. Aveva sempre in mano una bacchetta: e la usava, anche!
Ed ecco che chiama me. Mi alzo, tremante, con una gran voglia di farmela addosso e scappar via. Mi cola il naso. (Mi colava in continuazione, da piccolo: sono andato avanti così fino ai dodici anni. Il ricordo che ho della mia infanzia è imbrattato da Una macchia scura: una candela di moccio impolverato. Poi la pubertà ci ha messo il tappo).
Con una rapida passata del dorso della mano, mi tolgo dal naso il moccio penzolante.
— Non fare lo schifoso! — grida Padre Burke, e i suoi occhi di un azzurro sbiadito mandano lampi.
Dio è amore, Dio è amore; ma Padre Burke cos’è?
La sua bacchetta sibila nell’aria. Poi, puntandomela contro con aria irritata: — Avanti, sentiamo il Credo Apostolico!
Io comincio, balbettando: — Credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo… e in Gesù Cristo…
Esitazione. Da dietro di me, Sandy Dolan, in un bisbiglio roco: — Suo unico figlio, nostro Signore.
Mi tremano le ginocchia. Mi sento rabbrividire fino in fondo all’anima. Domenica, dopo la messa, Sandy Dolan e io siamo andati a spiare dalle finestre e abbiamo visto sua sorella che si spogliava per cambiarsi. Quindici anni, piccoli seni dalla punta rosea, e più in basso un ciuffo di peli neri. Peli neri. Anche a noi cresceranno i peli, ha bisbigliato Sandy. Ma Dio ci avrà visti, mentre spiavamo? Un simile peccato proprio di domenica, nel Giorno del Signore! La bacchetta si agita, ammonitrice.
— …Suo unico figlio, nostro Signore, il quale fu concepito per mezzo dello Spirito Santo, nacque da Maria Vergine… — Sì. Adesso sono al nucleo, alla parte melodrammatica che mi piace così tanto. Recito con maggior sicurezza, a voce più alta. Col mio limpido registro di soprano proseguo: — …patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e sepolto, discese all’Inferno, il terzo giorno resuscitò da morte, salì al Cielo…
Ho perso di nuovo il filo. Sandy, aiutami! Ma Padre Burke è troppo vicino e Sandy non osa suggerirmi.
— …salì al Cielo…
— C’è già arrivato, bambino — scatta il prete. — Avanti! Salì al Cielo…
Ho la lingua appiccicata al palato. Tutti mi fissano. Non posso sedermi? Non può continuare Sandy? Ho solo sette anni, Signore Iddio! Devo proprio conoscere il Credo fino in fondo?
La bacchetta… la bacchetta…
Cosa incredibile, è Padre Burke a suggerirmi. — Siede alla destra…
Benedetta imboccata. L’acchiappo al volo. — Siede sulla destra. …
— Alla destra! — E la mia mano sinistra si piglia la bacchettata. Un colpo rovente pungente ardente tagliente, simile allo schianto secco di un ramo spezzato mi fa accartocciare la mano come una foglia nel fuoco. Per lo spavento e per il dolore, calde lacrime mi salgono agli occhi.
Posso sedermi, adesso? No, devo continuare. Si aspettano così tanto, da me! Come l’anziana Suor Maria Giuseppe, con la faccia ridotta a una ragnatela di rughe, che ha letto in pubblico una delle mie poesie, la mia ode sulla domenica di Pasqua e dopo mi ha detto che ho un grande talento.
Avanti, adesso! Il Credo, il Credo, il Credo! Non è leale. Mi hai picchiato, e ora avrei il diritto di sedermi. — Continua — dice l’inesorabile prete. — Siede alla destra…
Faccio segno di sì col capo. — Siede alla destra di Dio Padre onnipotente, da dove verrà a giudicare i vivi e i morti.
Il peggio è passato. Col cuore che mi batte forte, recito tutto d’un fiato il resto. — Credo nello Spirito Santo, la Santa Chiesa Cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la resurrezione della carne, la vita eterna». Un torrente di parole mormorate. — Amen. — Bisogna finire con l’amen? Sono tanto confuso che non lo so più.
Padre Burke sorride acido; io ricado a sedere, stremato. Hai recitato il Credo, hai la fede.
Fede! Il Gesù Bambino nel presepio e la bacchetta di Padre Burke che ti si abbatte sulle nocche. Corridoi gelidi, facce truci, l’odore secco e polveroso dei luoghi sacri. Un giorno venne in visita da noi il cardinale Cushing. L’intera scolaresca era in preda al terrore; io non avrei potuto essere più spaventato se il Salvatore in persona fosse uscito dall’armadietto dei libri di testo. Le occhiatacce incollerite, gli ammonimenti bisbigliati con acredine: state in fila, tenete la bocca chiusa, mostrate un atteggiamento rispettoso.
Dio è amore, Dio è amore.
E i rosari, i crocefissi; i ritratti a pastello della Vergine, il magro al venerdì, l’incubo della prima comunione, il terrore di entrare nel confessionale… tutto l’apparato della fede, i relitti di secoli e secoli… be’, naturalmente ho dovuto buttar via tutto.
Mi sono sbarazzato dei gesuiti, di mia madre, degli apostoli, dei martiri, di San Patrizio, di San Dionigi, di Sant’Ignazio, di Sant’Antonio, di Santa Teresa, di Santa Taide la meretrice penitente, di San Kevin, di San Ned.
Sono diventato uno spregevole apostata esecrando; non il primo della mia famiglia, comunque, a fuggire dalla Verità. Quando finirò dannato troverò zii e cugini a bizzeffe, ognuno infilato nel suo bravo spiedo.
E adesso Eli Steinfeld esige da me una nuova fede! Come tutti sappiamo, dice Eli, Dio è un argomento fuori luogo, una causa d’imbarazzo; nella nostra epoca moderna, confessare di credere nella Sua esistenza è un po’ come confessare di avere i foruncoli sul culo. Noialtri smaliziati, noi che abbiamo visto tutto e sappiamo che non vale un fico secco, non possiamo costringere noi stessi ad arrenderci a Lui, così come non vogliamo che quel vecchio bastardo sorpassato pigli per noi le decisioni importanti. Ma un momento!, grida Eli. Spogliatevi del vostro cinismo, spogliatevi della vostra superficiale sfiducia nell’invisibile! Einstein, Bohr e Thomas Edison hanno distrutto la nostra capacità di concepire l’Aldilà; ma voi non sareste lieti di concepire l’Aldiqua, l’Adesso?
Credete, dice Eli. Credete nell’impossibile. Credete, proprio perché è impossibile. Credete che la storia del mondo, così come è giunta a noi, è un mito, e che il mito è ciò che sopravvive nella storia vera. Credete nei Teschi, credete nei loro Custodi. Credete. Credete. Credete. Fate un atto di fede, e la ricompensa sarà la vita eterna.
Così parlò Eli.
E ora stiamo andando a nord, a est, a nord, di nuovo a est, zigzagando in questa landa selvaggia e spinosa, e dobbiamo aver fede.