12

Per LUH fu diverso.

Sedeva, sola, in uno spazio completamente buio, troppo piccolo perché ci si potesse stare in piedi. Riusciva solo a stare seduta con le ginocchia sotto il mento. Perse la cognizione del tempo. Dapprima non riusciva a dormire, era troppo terrorizzata per chiudere gli occhi. Poi fu presa dalla fame e dall’esaurimento. Si addormentò.

La svegliarono i crampi della fame. Era debole, indolenzita, con la schiena che le faceva un male terribile. Gambe e braccia formicolavano in modo insopportabile.

Un suono.

No, erano solo i suoi piedi che sfregavano sul pavimento di metallo della cella.

«Distrutta.» L’avrebbero distrutta. Ricordò la faccia dell’avvocato difensore diventare rossa, e la sua espressione piuttosto imbarazzata quando il Pontefice aveva detto — Distrutta.

Stringendosi nelle spalle, il difensore aveva detto: — Ho fatto del mio meglio.

Proprio così. Del suo meglio. La sua vita sarebbe finita. E lui era imbarazzato.

«Era» un suono. Veniva da fuori. Passi. Una voce soffocata. Una risata.

Improvvisamente fu inondata da luci provenienti dall’alto. Chiuse gli occhi che le lacrimarono.

— Su, vieni — le gridò una voce d’uomo. — Non fare la scontrosa.

Lei guardò, ma non riusciva a distinguere la sagoma con tutta quella luce improvvisa.

— Su, allunga le mani. Non farmi fare tutto il lavoro.

Lei ubbidì, e un paio di mani forti afferrarono le sue braccia e la tirarono fuori dalla cella. Era una specie di corridoio stretto, col pavimento pieno di piccoli portelli quadrati: il suo era l’unico aperto.

— Da questa parte.

L’uomo fece un cenno con la mano e le indicò la direzione. LUH camminava lenta, barcollando sulle gambe intorpidite per le lunga immobilità.

Inciampò in uno dei portelli. Stava per cadere, ma l’uomo le circondò la vita con un braccio e la tenne su.

— Così va meglio?

Era un uomo grosso, alto e robusto, coi denti radi. Ora le stava sorridendo, e la sua faccia era così vicina che lei sentiva il suo alito.

— Grazie — balbettò.

Lui rise e continuò a reggerla. In fondo al corridoio aprì una porta e LUH vide una stanza piccola, illuminata di un bianco opaco. Niente mobilio, solo una sedia, al centro. L’unica porta era quella da cui erano entrati.

— Siediti — comandò l’uomo.

Lei andò a sedersi. La sedia era dura e fredda, e voltava le spalle alla porta.

Lei si girò verso di lui e disse: — Che cosa… cosa succederà?

— Lo vedrai.

Con un intimo brivido, LUH cercò di mostrarsi calma, si impose di star lì tranquilla, di tenere la testa eretta e di non guardarsi intorno. Ma le mani, strette sui braccioli, tremavano.

Guardò dritto davanti a sé. Notò che c’era uno scherano sulla parete.

«Distrutta!» Questa parola continuava a risuonarle nella mente. Quando? Come? Forse lì, in quella stanza? Che lui fosse il carnefice?

La porta si aprì. Si girò involontariamente e vide entrare un altro uomo, alto, che la guardò duramente.

Lei si voltò e tornò a fissare lo schermo.

— È lei? — chiese il nuovo arrivato.

Il primo uomo evidentemente annuì.

— Bene.

La porta si aprì ancora. Passi, poi di nuovo chiusa. Poi niente. LUH si morse le labbra e rimase immobile. Silenzio. Solo il suo respiro e il battito del suo cuore che martellava nelle orecchie.

Alla fine non ne poté più e si girò a guardare. La stanza era vuota. Era sola.

Non sapeva se restare seduta o no. Stava per alzarsi, quando la porta si aprì e gli uomini tornarono dentro, portando un carrello con un’olocamera. Dietro di loro c’erano tre robopoliziotti.

Sistemarono l’olocamera. Lei li guardò terrorizzata.

— Bene, siamo pronti.

Il primo uomo le si avvicinò e tirandola delicatamente per un braccio la fece alzare dalla sedia. — Non avrai più bisogno di questa, carina. — Rise. Lei sentì le ginocchia che cedevano.

D’improvviso, con l’intensità di una fiammata, le fu tutto chiaro. «Gli oloshow che THX guardava… La ragazza non era un manichino!»

— Pronto con l’olocamera?

— Sì.

— Bene, tesoro, ecco la tua grande occasione nel mondo dello spettacolo.

LUH avrebbe voluto svenire, correre, urlare. Ma non poteva muoversi, non riusciva a dire una sola parola.

I tre robot le fecero cerchio intorno. Portavano alla cintura le sbarre d’acciaio. Sentì che i cameramen ridevano.

Uno dei robot le afferrò le braccia. LUH gemette quando un altro le lacerò la camicia. Gliela tolsero, le strapparono di dosso i pantaloni. Rimase lì, nuda, desiderosa di farsi piccola piccola, di essere morta.

— Va tutto bene, bella. Non aver paura — disse uno dei cameramen.

Lei si voltò nella direzione della voce, e un robot la colpì in faccia. Forte. LUH sentì il sapore del proprio sangue. Si mise a piangere.

Continuarono a picchiarla.


Il Controllore stava rivedendo i risultati della giornata: indici economici, rapporti su incidenti, arresti, premi, nuovi livelli di produzione, curve di consumo, grafici, diagrammi, tavole di numeri e simboli ermetici che correvano attraverso lo schermo troppo in fretta per un occhio umano.

Mentre i dati gli scorrevano davanti annuiva.

La luce del suo citofono cominciò a lampeggiare. Toccò l’indicatore «Occupato», ma la luce insisteva.

Qualcosa d’importante. Non un allarme rosso, ma qualcuno che voleva parlargli con urgenza.

«Sarà meglio che sia proprio urgente» si disse, e interruppe il flusso dei dati.

Apparve sullo schermo la faccia di un medico del Controllo. L’espressione era di preoccupazione professionale.

— Signore, mi dispiace terribilmente interrompervi…

— Il mio tempo è prezioso — disse il Controllore con rabbia. — Di cosa si tratta? Dite.

— Ho appena ricevuto un rapporto di laboratorio riguardante un criminale condannato, signore. Evidentemente i1 rapporto era stato messo nel posto sbagliato e non è arrivato qui prima di…

Sbuffando d’impazienza, il Controllore disse: — Di cosa si tratta?

— Della prigioniera tre quattro uno sette, prefisso LUN, no scusi, LUH. È stata condannata alla distruzione: atto sessuale, evasione, nata-naturalmente.

— Allora?

— Be’, signore, il rapporto del laboratorio indica che, ehm, che è incinta, signore. — Il dottore pronunciò appena quella parola ripugnante.

Il Controllore si appoggiò alla spalliera della poltrona. — Ne siete sicuro?

— Sì, signore. Non ci sono dubbi. Il feto è appena all’inizio, naturalmente, ma è certo che c’è.

— Benissimo — disse il Controllore. — Mettete il rapporto nello schedario giusto.

— Sì, signore. Io, ehm, ho pensato che la notizia vi interessasse, signore.

— Sì, sì. — Il Controllore toccò un bottone e la faccia scomparve dallo schermo.

Per un lungo attimo sedette lì con lo sguardo fisso all’immagine del Primo Controllore, sulla parete. Poi toccò di nuovo il bottone.


LUH giaceva in una pozza di sangue. Da un occhio non ci vedeva, aveva le labbra intorpidite e la bocca rigida. Il dolore era talmente forte in tutto il corpo, che si sentiva sul punto di svenire. Sentiva ancora i calci che le davano, ma ormai tutto era indistinto, il dolore aveva raggiunto il massimo, un massimo che i nervi non potevano più sopportare.

— Basta così — disse una voce. Una voce tagliente, abituata a dare ordini e a vederli eseguire immediatamente.

— Pulitela e riportatela al Controllo — disse la voce.

LUH alzò la testa troppo tardi per vedere l’uomo che aveva parlato. Sullo schermo non c’era più niente.

— Portate via l’olocamera — disse uno degli uomini.

— Ahi! Queste dannate luci scottano!

Sentì due mani afferrarla e trascinarla fino alla sedia. Era stordita e non riusciva a mettere a fuoco le cose.

Finalmente vide la faccia di un uomo che le stava molto vicino. — Non è stato poi così brutto, vero? — Rise.

— Pulirla, vero?

— Ci sarà tempo a volontà per quello. Il Controllo non ha mica fretta di averla.

— Dalle questo da odorare.

Qualcosa di pungente le esplose in faccia. Buttò indietro la testa. Le premettero una compressa fredda contro la bocca.

— No, non è stato poi così brutto… Sei ancora abbastanza carina.

— Ecco. — Le misero due pillole in bocca. — Ingoia.

Provò varie volte prima di riuscire a inghiottirle. Quasi subito le parve di sentire meno dolore. Ora poteva distinguere la stanza e gli uomini. Contro una parete c’erano i robot disattivati, macchiati del suo sangue.

— Ecco, sta rinvenendo.

— Sei pronta per guardarti sullo schermo? Qua!

Lo schermo s’illuminò e LUH vide se stessa con THX. Prima seduta accanto a lui nell’olostanza, poi a letto con lui.

— Guardate lì! — disse uno degli uomini.

— Ce la, mettono proprio tutta.

Lei cercò di voltarsi dall’altra parte, ma le tennero la testa verso lo schermo. — Guarda! Ti è piaciuto farlo, no, e allora, perché non guardi?

— No… — La sua voce le suonava strana, come strozzata.

Cercò di alzarsi dalla sedia, ma scivolò in ginocchio. Uno degli uomini le tirò su la testa. Vide allora davanti a sé, in piedi, un uomo nudo, bestiale, col membro eretto.

— Prova questo — disse.

Il Controllore toccò un tasto e vide la stanza dove c’erano LUH e i suoi tre carcerieri. LUH fu buttata contro la sedia di metallo, poi uno dei carcerieri la tirò su e la mise a cavalcioni dei braccioli.

Il Controllore rabbrividì. «Perché i carcerieri sono peggio dei criminali? Se non avessimo bisogno di loro»… Mentre guardava sentì che il cuore gli batteva più in fretta. «Be’, purché riusciamo a conservare il feto, che importanza ha il modo in cui viene distrutta?» Si dondolò avanti e indietro, guardandoli, madido di piacere.

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