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Non ci fu un seguito immediato al mio incontro con Paul Quinn, né io me l’aspettavo. In quel periodo la vita politica di New York era soggetta a tumultuosi cambiamenti. Solo poche settimane prima della festa di Sarkisian, un disoccupato furibondo aveva avvicinato il sindaco Gottfried a un banchetto del Partito Liberale e in faccia all’attonito sindaco sostituì il piatto di pompelmo con un grammo di “ascenseur”, il nuovo esplosivo politico francese. Bilancio delle vittime della clamorosa esplosione: Suo Onore, l’assassino, quattro presidenti di contea e un cameriere. La cosa provocò un vuoto di potere in città, perché tutti pensavano che il formidabile sindaco sarebbe stato rieletto ancora quattro o cinque volte, e di colpo l’invincibile Gottfried non c’era più, come se Dio fosse morto una domenica mattina proprio mentre il cardinale si accingeva a distribuire il pane e il vino. Il nuovo sindaco, l’ex presidente del Consiglio Municipale DiLaurenzio, era una nullità. Era dato per scontato che DiLaurenzio fosse una figura di transizione e che, nelle elezioni del ’97 per la carica di sindaco, avrebbe ceduto il posto a qualsiasi candidato sufficientemente forte. E Quinn stava aspettando tra le quinte.

Non seppi più niente di lui per tutto l’autunno. Il potere legislativo stava deliberando e Quinn era alla sua scrivania ad Albany, che è come starsene su Marte, tanto poco se ne interessano quelli di New York. In città il solito folle carrozzone stava andando avanti a tutta velocità, solo un po’ più convulso ora che era uscita di scena quella potente forza freudiana che era il sindaco Gottfried, il Dio Cittadino, dalle sopracciglia scure e il naso lungo, angelo custode dei deboli e persecutore degli insubordinati. La Milizia della 125a Strada, un nuovo gruppo militare negro che si era autopromosso a esercito e che per mesi si era vantato di comprare carri armati dalla Siria, non solo presentò tre di quei mostri corazzati durante un’agitatissima conferenza stampa, ma arrivò al punto di inviarli attraverso Columbus Avenue in una missione di distruzione a Hispano-Manhattan con il risultato di lasciare quattro isolati in fiamme e dozzine di morti. In ottobre, mentre i negri celebravano la Giornata di Marcus Garvey, i portoricani resero pan per focaccia con l’incursione di diversi commandos ad Harlem. I gruppi terroristici, con un’azione improvvisa che arrivò fino a Lenox Avenue, non solo fecero saltare per aria l’hangar dei carri armati e tutti e tre i mezzi corazzati, ma devastarono anche cinque negozi di liquori e il principale centro elettronico “Numbers”, mentre un gruppo diversivo riusciva a dirigersi verso ovest dove lanciò bombe incendiarie sull’Apollo Theater.

Poche settimane dopo, vicino alla sede dell’Impianto dì Fusione della 23a Strada Ovest ci fu una sparatoria tra il gruppo favorevole al progetto, il Movimento A Favore Della Città Splendente, e gli antifusionisti, il Comitato Contro La Tecnologia Incontrollata. Quattro delle guardie di sicurezza di Con Edison furono linciate e ci furono trentadue morti tra i dimostranti, ventuno tra gli uomini del Movimento e undici tra quelli del Comitato, tra cui molte madri appartenenti a entrambi i gruppi e alcuni bambini; la tragedia provocò raccapriccio e un grande scalpore (persino in una città dura come New York l’uccisione di alcuni bambini durante una dimostrazione può provocare orrore) e il sindaco DiLaurenzio, come ripiego, incaricò un gruppo di studio di riesaminare la convenienza di costruire impianti di fusione dentro i confini della città. Poiché questa decisione equivaleva a una vittoria per il Comitato, un gruppo di dimostranti del Movimento assediarono il Municipio e, per protesta, cominciarono a piazzare delle mine nei cespugli, ma furono dispersi da un bombardamento aereo di un elicottero della Polizia Tattica che provocò la morte di altre nove persone.

Il “Times” riportò la notizia a pagina 27.

Il sindaco DiLaurenzio, parlando dal suo Municipio Ausiliario situato nei Bronx orientali — aveva aperto sette uffici in zone periferiche, tutti in distretti italiani, la cui esatta posizione era tenuta accuratamente segreta — rinnovò gli inviti all’ordine e al rispetto della legge. Tuttavia, nessuno in città gli prestava molta attenzione, in parte perché il nuovo sindaco era una nullità e in parte per reazione alla scomparsa della presenza protettiva, sinistra e opprimente di Gottfried, il Gauleiter per eccellenza. Un articolo di fondo del “Wall Street Journal” suggeriva di sospendere l’imminente elezione del sindaco, di porre New York sotto un’amministrazione militare, e di stabilire un “cordone sanitario” che impedisse al “newyorkismo” infettivo di contagiare il resto del paese.

— Io sono convinta che l’esercito delle Nazioni Unite per il mantenimento dell’ordine pubblico sarebbe un’idea migliore — affermò Sundara.

Si era all’inizio di dicembre, la sera della prima nevicata stagionale. — Questa non è una città, è il palcoscenico di tutte le ostilità razziali ed etniche accumulate negli ultimi tremila anni.

— No, non è così — ribattei io. — I vecchi rancori non significano un accidente di niente a New York. Gli indù vanno a letto con i pakistani, turchi e armeni si mettono in società e aprono ristoranti. In questa città siamo noi a inventare nuove ostilità etniche. New York deve essere sempre all’avanguardia, in tutto. Lo capiresti anche tu se avessi vissuto qui tutta la vita come me.

— Mi sento come fosse davvero così.

— Sei anni non possono fare di te una del posto.

— Sei anni passati nel mezzo di una continua guerriglia significano più di trent’anni in qualsiasi altro posto.

La voce era scherzosa ma i suoi occhi scuri avevano un bagliore malinconico. Mi stava sfidando a schivare, contraddire, rintuzzare. Sentivo l’aria intorno a me diventare incandescente e febbrile. Di colpo, ci stavamo di nuovo impegolando nella discussione io-odio-New-York che creava sempre delle incrinature nel nostro rapporto, e ben presto ci saremmo ritrovati a litigare sul serio. Un indigeno può odiare New York con amore; uno straniero, e la mia Sundara sarebbe sempre rimasta una straniera in questa città, mette sempre una foga eccessiva nel ripudiare questo posto da pazzi in cui ha scelto di vivere e si gonfia di un’ingiusta furia omicida.

Nel tentativo di eludere l’inevitabile lite, dissi: — Va bene, allora, andiamo a vivere in Arizona.

— Ehi, ma quella è la mia battuta!

— Oh, scusami, devo aver perso la mia parte.

La tensione se ne era andata.

— Ma è davvero una città orribile, Lew.

— Prova Tucson, allora. Gli inverni sono molto più miti. Vuoi fumare, amore?

— Sì, ma sono stufa di osso.

Una bella, semplice fumata d’erba come tanto tempo fa, allora?

— Sì, grazie.

Presi l’erba che avevo messo da parte. L’atmosfera era limpida e piena d’amore. Stavamo insième da quattro anni e, nonostante alcune incomprensioni, eravamo ancora il migliore amico l’uno dell’altra. Mentre preparavo le sigarette, lei mi massaggiava i muscoli del collo, premendo sapientemente sui punti sensibili e facendo scivolare via dai legamenti e dalle vertebre i problemi del XX secolo. I suoi erano originari di Bombay ma Sundara era nata a Los Angeles, eppure le sue agili dita giocavano sul mio corpo come se lei fosse stata una padmini dell’aurora indù, una geisha estremamente abile nei giochi erotici della carne, come in effetti era.

I terrori e i traumi di New York sembravano colpevolmente lontani mentre stavamo lì fermi davanti alla lunga finestra di cristallo, stretti l’una all’altro, fissando la notte invernale invasa dal chiarore della luna e vedendo, in realtà, solo le nostre immagini riflesse: un uomo alto dai capelli biondi e una sottile donna bruna, a fianco a fianco, alleati contro l’oscurità.

Ci passavamo la sigaretta, lasciando che le nostre dita si accarezzassero languidamente a ogni passaggio. In quel momento Sundara mi sembrava perfetta, la mia donna, il mio amore, l’altro me stesso, intelligente e splendida, misteriosa ed esotica, con la fronte alta, i capelli nero-azzurri, il viso di luna, ma una luna in eclissi, una luna imporporata dall’ombra; la perfetta donna-lotus delle raccolte di aforismi, pelle fine e morbida, occhi lucenti e belli come quelli di un cerbiatto, ben disegnati e rossi ai lati, seni sodi, pieni e diritti, collo elegante, naso lungo e ben fatto. “Yoni” simile a un germoglio di lotus in fiore, voce bassa e melodiosa come quella di un uccello “kokila”, il mio scopo, il mio amore, la mia compagna, la mia moglie straniera. Nel giro di dodici ore avrei cominciato a perderla ed è forse per questo che la studiai con tale intensità quella notte d’inverno; eppure non sapevo niente di quello che sarebbe successo, niente. E solo io avrei potuto saperlo.

In un delirio di visioni ci lasciammo cadere sul ruvido e irregolare divano rosso e giallo che si trovava di fronte alla finestra grande. C’era luna piena, gelido faro bianco che spazzava la città con la sua luce trasparente come il ghiaccio. Fuori i fiocchi di neve brillavano, cadendo in volute vorticose. Dal posto in cui eravamo si vedevano le torri illuminate dal centro di Brooklyn, esattamente al di là del porto. Lontana, esotica Brooklyn, fosca Brooklyn, Brooklyn dalle zanne e dagli artigli arrossati. Chissà cosa stava accadendo quella notte, nella giungla di quelle luride strade, dietro l’abbagliante facciata della rispettabilità? Chissà quali aggressioni da cui qualcuno sarebbe uscito storpiato, un altro strozzato, un altro ancora crivellato dai colpi di una pistola, chissà quali vantaggi e quali perdite? Mentre noi nascondevamo la mente sublimata nella nostra calda e felice intimità, i meno privilegiati, in quel deprimente distretto, stavano sperimentando la vera New York. Bande di scippatori di sette anni, in Flatbush Avenue, sfidavano la neve e assalivano vedove dagli occhi stanchi che se ne tornavano a casa, ragazzi armati di torce munite di aghi elettrici tagliavano allegramente le sbarre delle gabbie dei leoni nello Zoo di Prospect Park, e bande rivali di prostitute appena adolescenti dalle cosce nude e semicoperte da vistose sottovesti termiche e diademi di alluminio in testa, si affrontavano per la loro abituale contesa territoriale alla Grand Army Plaza. Ecco a te, cara vecchia New York. E a te, sindaco DiLaurenzio, benevolo e fiducioso condottiero imprevisto. E a te, Sundara, amore mio.

Anche questo è New York: i giovani, belli, ricchi, tranquilli e sereni nelle loro torri riscaldate, loro che sono i creatori, gli inventori, i modellatori, gli eletti degli dei. Se noi non esistessimo, questa non sarebbe New York, ma solo un enorme e ostile accampamento di poveri sofferenti e disadattati, vittime dell’olocausto urbano; il crimine e il sudiciume da soli non fanno New York. Ci deve essere anche l’incantesimo della ricchezza e, bene o male, Sundara ed io ne facevamo parte.

Giove rovesciò una rumorosa manciata di grandine sulla nostra finestra inaccessibile. Scoppiammo a ridere. Le mie mani scivolarono sui suoi lisci e piccoli seni con i capezzoli turgidi, e con la punta del piede accesi il registratore: dagli amplificatori giunse la voce bassa e musicale di Sundara. Era la registrazione di una lettura del Kama Sutra.

“Capitolo Sette. I vari modi di colpire una donna e i suoni di accompagnamento. Il rapporto sessuale può essere paragonato a un litigio tra amanti, a causa delle piccole contrarietà provocate con estrema facilità dall’amore e dalla tendenza da parte di due individui appassionati a passare rapidamente dall’amore all’ira. Al culmine della passione capita che spesso si colpisca il corpo dell’amante; le parti del corpo che dovrebbero essere prese di mira da questi colpi di amore sono: le spalle — il capo — la zona tra i seni — la schiena — la ’jaghana’ — i fianchi. Inoltre, ci sono quattro modi di colpire l’amante: con le dita leggermente contratte — con il pugno — con il rovescio della mano con l’interno della mano. Questi colpi sono dolorosi e la persona percossa a volte emette un grido di pena. Esistono otto suoni che esprimono tormento mescolato a piacere e che corrispondono ai differenti tipi di colpi. I suoni sono: hinn — phoutt — phatt — soutt — platt…”

Così, quando toccai la sua pelle e la sua pelle toccò la mia, Sundara sorrise e mormorò all’unisono con la sua voce registrata, ma con un tono più profondo: — Hinn… phoutt… soutt…

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