19

La settimana segoente alla mia visita, Carvajal mi telefonò per invitarmi a colazione con lui il giorno seguente. Ci incontrammo, su suo suggerimento, al Merchants and Shippers Club situato nel distretto finanziario.

Il luogo da lui scelto mi sorprese. Il Merchants and Shippers è uno di quei venerandi circoli privati di Wall Street frequentati esclusivamente da agenti di cambio e banchieri con tutte le carte in regola e quando dico esclusivamente, voglio dire che persino Bob Lombroso che è americano da dieci generazioni ed è molto potente a Wall Street, non può diventarne socio perché è ebreo e ha preferito lasciar perdere senza troppo chiasso.

Come in tutti i posti del genere, la ricchezza da sola non basta a farvi accettare: dovete essere socievole, un uomo amabile e decoroso, della razza giusta, che sia andato alle scuole giuste e appartenga alla società giusta. Da quel che sapevo, Carvajal non aveva nessuno di questi requisiti. Era un nuovo ricco e non aveva alle spalle l’ambiente prescolastico richiesto e importanti affiliazioni corporative. Come era riuscito ad ottenere la tessera da socio?

— L’ho ereditata — mi spiegò con aria di sufficienza mentre prendevamo posto in due comode, elastiche sedie ben imbottite, presso una finestra sessanta piani sopra la strada tumultuosa. — Uno dei miei antenati è stato un socio fondatore, nel 1823. Lo statuto prevede che le undici tessere dei soci fondatori si tramandino automaticamente ai figli più anziani dei figli più anziani, fino alla fine del mondo. Per quella clausola alcune cattive reputazioni hanno contaminato la santità dell’organizzazione.

Improvvisamente fece un risolino cattivo.

— Ci vengo circa una volta ogni cinque anni — disse. — Avrete notato che ho messo il vestito migliore.

Era vero; indossava un farsetto pieghettato con un disegno a lisca di pesce dorato e verde che poteva avere dieci anni, ma che era sicuramente il più elegante e lucente del suo guardaroba triste e sorpassato. Carvajal stesso sembrava trasformato: più vivace, più vigoroso, quasi scherzoso, decisamente più giovane dell’uomo pallido e triste che ormai conoscevo.

— Non sapevo che aveste degli antenati — mi stupii.

— C’erano dei Carvajal nel Nuovo Mondo molto prima che la “Mayflower” salpasse alla volta di Plymouth. Eravamo una famiglia molto importante in Florida all’inizio del XVIII secolo. Quando gli inglesi si annessero la Florida nel 1763, un ramo della famiglia si trasferì a New York e penso che sia stato un periodo in cui eravamo padroni di metà della banchina e di gran parte dell’Upper West Side. Perdemmo tutto nel panico del 1837 e io sono il primo membro della famiglia in un secolo e mezzo che si sia elevato al di sopra di una signorile povertà. Anche nei momenti peggiori, però, abbiamo conservato la nomina di soci del circolo.

Accennò alle splendide pareti rivestite di legno rosso, alle scintillanti finestre con le intelaiature cromate, alla illuminazione discreta. Poi proseguì: — Non dimenticherò mai la prima volta che mio padre mi portò al circolo. Avevo quasi diciotto anni, quindi doveva essere il 1957. Il circolo non si era ancora trasferito in questo edificio, era in Broad Street in un palazzo del 1800 coperto di ragnatele. Entrammo, mio padre e io, con i nostri vestiti da venti dollari e le cravatte di lana, e tutti là dentro mi sembravano dei senatori, persino i camerieri, ma nessuno ci guardò dall’alto in basso, nessuno ci trattò con condiscendenza.

“Bevvi il primo martini della mia vita e mangiai il primo ’filet mignon’; mi sembrava di essere entrato nel Valhalla, sapete, o a Versailles. Una visita in uno strano mondo lucente dove tutti erano ricchi, potenti e maestosi. Quando mi sedetti all’immenso tavolo di rovere di fronte a mio padre, ebbi una visione. Cominciai a ’vedere’, ’vidi’ me stesso ormai vecchio, l’uomo che sono oggi, consunto, con ciuffi radi di capelli grigi, come mi ero già visto altre volte imparando a riconoscermi, e quel mio io sedeva in una sala riccamente arredata, una sala dallo stile agile ed elegante e con mobili fantasiosi, che in realtà era questa sala, e io ero al tavolo in compagnia di un uomo molto più giovane, un uomo alto e robusto che si chinava in avanti guardandomi con un’espressione nervosa e insicura e ascoltando ogni mia parola come se tentasse di impararla a memoria. Poi la visione si dissolse e mi ritrovai nuovamente con mio padre che mi stava chiedendo se mi sentivo bene e feci finta che fosse stato il martini a rendermi gli occhi vitrei e il volto contratto; infatti anche allora non ero un grande bevitore. Mi chiesi se quello che avevo ’visto’ fosse una specie di proiezione al futuro della situazione in cui mi trovavo in quel momento, cioè, se avevo visto me stesso anziano portare mio figlio al ’Merchants and Shippers’ Club del futuro. Per parecchi anni pensai a chi sarebbe stata mia moglie e come sarebbe stato mio figlio, e poi venni a sapere che non avrei avuto né moglie né figlio. Gli anni sono passati ed eccoci qui, io e voi, e voi sedete di fronte a me chino in avanti e mi guardate con un’espressione nervosa e insicura…”

Mi sentii correre un brivido lungo la schiena.

— Mi avete “visto” qui con voi più di quarant’anni fa?

Annuì con noncuranza e con lo stesso atteggiamento si girò per chiamare un cameriere, tagliando imperiosamente l’aria con l’indice come se fosse stato J.P.Morgan. Il cameriere arrivò di corsa al suo fianco e lo salutò ossequiosamente chiamandolo per nome. Carvajal ordinò un martini per me — perché lo aveva “visto”? — e uno sherry per sé.

— Vi trattano molto gentilmente — gli feci notare.

— È una questione d’onore per loro trattare ogni socio come se fosse il cugino dello Czar. Ciò che dicono di me in privato è probabilmente meno lusinghiero. La tessera di socio sarà sepolta con me e immagino che il circolo sarà ben felice che nessun altro piccolo e cencioso Carvajal gli contamini l’ambiente.

Gli aperitivi arrivarono quasi subito. Alzammo solennemente i bicchieri l’uno all’altro in un brindisi meccanico e rudimentale.

— Al futuro — esclamò Carvajal — allo splendente e seducente futuro — e scoppiò in una roca risata.

— Siete di buon umore oggi.

— Sì, mi sento allegro come non mi succedeva da anni. Una seconda primavera per il vecchio, eh?

La sua vivacità era sconcertante e mi metteva quasi paura.

Nei nostri due incontri precedenti Carvajal era riuscito a trovare delle riserve di energia ormai spente, ma oggi sembrava pronto, frenetico, pieno di una forza selvaggia attinta da qualche fonte tremenda.

Di colpo mi chiese: — Ditemi, Lew, avete mai avuto dei momenti di seconda vista?

— Penso di sì. Certamente, qualcosa di meno vivido di ciò che dovete provare voi. Ma penso che molte delle mie intuizioni siano basate su guizzi di vere e proprie visioni, lampi meno che minimi che vengono e spariscono così velocemente che non riuscirei a riconoscerli.

— Molto probabile.

— E poi sogni — proseguii. — Spesso in sogno ricevo premonizioni e presentimenti che poi si rivelano corretti. Come se il futuro fluttuasse verso di me e bussasse ai cancelli della mia coscienza addormentata.

— Sì, infatti la mente che dorme è molto più ricettiva a cose di quel genere.

— Ma ciò che percepisco in sogno mi giunge sotto forma simbolica, come una metafora più che un film. Poco prima che Gilmartin fosse arrestato sognai che veniva fucilato da un plotone di esecuzione, per esempio. L’informazione giusta mi era arrivata ma non in forma testuale.

— No. Il messaggio vi è arrivato in modo accurato e testuale, ma la vostra mente lo ha reso confuso e l’ha cifrato perché stavate dormendo e non potevate far funzionare nel modo giusto i vostri ricettori. Solo la mente razionale sveglia può trattare e integrare in modo attendibile i messaggi. La maggior parte delle persone sveglie, però, respingono i messaggi e quando dormono sono le loro menti a confondere ciò che si presenta loro.

— Pensate che siano molte le persone che ricevono messaggi dal futuro?

— Credo che capiti a tutti — rispose con fòga. — Il futuro non è il regno inaccessibile e intangibile che si pensa. Però sono così pochi ad ammettere la sua esistenza, eccetto che come concetto astratto. Così pochi permettono che i suoi messaggi li raggiungano!

La sua espressione aveva una strana intensità. Abbassò la voce e proseguì: — Il futuro non è un costrutto verbale. È un posto con una sua propria esistenza. In questo momento, mentre sediamo qui, noi siamo anche là, là + 1, là + 2, là + n, un’infinità di “là”, tutti simultaneamente, prima e dopo la nostra attuale posizione lungo la nostra linea di tempo. Quelle altre posizioni non sono né più né meno “reali” di questa. Semplicemente, sono in un posto che per caso non è il posto in cui hanno solitamente sede le nostre percezioni.

— Ma occasionalmente le nostre percezioni…

— Sconfinano. Vagano in altri segmenti della linea del tempo. Raccolgono avvenimenti o stati d’animo o stralci di conversazione che non appartengono all’“adesso”.

— Sono le nostre percezioni che vagano o sono gli eventi stessi a non essere ancorati bene al loro “adesso”?

Carvajal si strinse nelle spalle. — Ha importanza? Non c’è modo di saperlo.

— Ma non vi interessa sapere come funziona? Tutta la vostra vita è stata modellata da questo e voi semplicemente…

— Ve l’ho detto, ho molte teorie. Così tante, che tendono a cancellarsi l’una con l’altra. Lew, Lew, pensate che non mi interessi? Ho passato tutta la vita a cercare di capire questo mio talento, la mia facoltà, e posso dare a ogni vostra domanda una dozzina di risposte, ciascuna plausibile come la successiva. La teoria della doppia linea del tempo, per esempio. Ve ne ho parlato?

— No.

— Ecco, allora.

Con calma, tirò fuori una penna e disegnò due righe parallele attraverso la tovaglia. Alle due estremità di una riga mise X e Y, all’altra X' e Y'.

— La linea che va da X a Y è il corso della storia come la conosciamo noi. Inizia con la creazione dell’universo al punto X e finisce con l’equilibrio termodinamico a Y, va bene? E queste sono alcune date significative del suo corso.

Con colpetti precisi vi tratteggiò delle lineette perpendicolari, cominciando dal lato della tavola più vicino a sé e proseguendo verso di me.

— Questa è l’era dell’uomo di Neanderthal. Questo è il tempo di Gesù. Questo è il 1939, l’inizio della II Guerra Mondiale. E anche l’inizio di Martin Carvajal. Voi quando siete nato? Intorno al 1970?

— Nel 1966.

— 1966. Benissimo. Questo siete voi, 1966. E questo è l’anno corrente, 1999. Questo, poi, è l’anno della vostra morte, 2056. Questo per quanto riguarda la linea X–Y. Adesso prendiamo l’altra, la linea X'–Y', anche questo è il corso della storia di questo universo, lo stesso corso di storia indicato da un’altra linea. Solo che procede in senso inverso.

— Cosa?

— Perché no? Supponete che vi siano molti universi, ciascuno indipendente dagli altri, ciascuno con il proprio singolo gruppo di soli e pianeti su cui gli avvenimenti si verificano nella loro unicità per quell’universo. Un’infinità di universi, Lew. C’è una ragione logica perché il tempo debba fluire nella stessa direzione?

— L’entropia — brontolai. — Le leggi della termodinamica. L’arco del tempo. Causa ed effetto.

— Non confuterò nessuna di queste teorie. Per quello che ne so, sono tutte valide in un sistema chiuso. Ma un sistema chiuso non ha responsabilità entropiche relative a un altro sistema chiuso, non è vero? Il tempo può scattare da A a Z in un universo e da Z ad A in un altro, ma solo un osservatore posto al di fuori di entrambi lo può sapere, perché in ciascun universo il flusso quotidiano scorre dalla causa all’effetto e non al contrario. Ne ammettete la logica?

Chiusi gli occhi un momento.

— Va bene. Abbiamo un’infinità di universi separati l’uno dall’altro, e la direzione del flusso temporale, in ciascuno di essi, può sembrare capovolta rispetto agli altri. Va bene. E allora?

— In un’infinità di qualsiasi cosa, esistono tutti i possibili casi, esatto?

— Sì. Per definizione.

— Quindi convenite anche voi che al di fuori di quella infinità di universi separati ne può esistere uno identico al nostro in tutti i particolari, tranne che nella direzione del suo flusso temporale?

— Non sono sicuro di afferrare…

— Guardate — esclamò con impazienza, indicando la linea che andava da X' a Y'. — Questo è un altro universo, a fianco del nostro. Tutto ciò che accade nel nostro, anche nel minimo particolare, accade nell’altro. Ma in questo la creazione è in Y' invece che in Y. Quaggiù — e tratteggiò una riga attraverso la seconda linea vicino al mio lato del tavolo — vi è l’uomo di Neanderthal. Qui la Crocifissione. Qui il 1939; il 1966, il 1999 e il 2056. Gli stessi avvenimenti, le stesse date chiave, ma che vanno in senso inverso. In senso inverso, cioè, se voi per caso vivete in questo universo e riuscite a fare capolino nell’altro. Là, naturalmente, tutto sembra andare nella direzione giusta.

Carvajal estese le righe perpendicolari dal 1939 al 1999 segnate sulla linea X–Y finché incontrarono la linea X'–Y', e fece lo stesso con le righe dal 1999 al 1939 segnate sulla seconda lìnea. Poi chiuse le due serie di righe collegando le estremità, fino a formare uno schema come questo:



Un cameriere di passaggio lanciò un’occhiata a ciò che Carvajal stava facendo sulla tovaglia e, tossicchiando, passò oltre, senza dire niente e con un’espressione impenetrabile. Carvajal non sembrò neppure notarlo. Continuò: — Adesso supponiamo che una persona nata nell’universo X–Y riesca, Dio sa perché, a vedere di tanto in tanto nell’universo X'–Y'. Io. Eccomi dunque qua, in movimento dal 1939 al 1999 nell’universo X–Y, con la possibilità di fare capolino occasionalmente nell’universo X'–Y' e di osservare gli avvenimenti dei loro anni dal 1939 al 1999 che sono identici ai nostri, con la differenza che trascorrono in senso inverso, cosicché al tempo della mia nascita qui, ogni avvenimento della mia vita in X–Y si è già verificato in X'–Y'. Quando la mia coscienza entra in collegamento con quella del mio altro io nell’altro universo, la colgo nel momento in cui ricorda il suo passato, che è poi il mio futuro.

— Molto chiaro.

— Sì. La persona normale confinata in un unico universo può vagare a piacere con la propria memoria, ritornando quando vuole al proprio passato. Io, invece, ho accesso alla memoria di qualcuno che vive in direzione opposta e questo mi permette di “ricordare” il futuro altrettanto bene che il passato. Posto, naturalmente, che la teoria della doppia linea di tempo sia corretta.

— Lo è?

— Come posso saperlo? È solo un’ipotesi operativa plausibile per spiegare quello che succede quando “vedo”. Ma come potrei provarla?

Dopo un po’ di tempo, chiesi: — Le cose che “vedete”… vi giungono in ordine cronologico inverso? Come se il futuro si srotolasse in una pergamena continua?

— No, mai. Così come i vostri ricordi non formano un unico rotolo continuo. Ricevo visioni irregolari, frammenti di scene, a volte passaggi abbastanza lunghi che hanno apparentemente una durata di dieci o quindici minuti o anche più, ma si tratta sempre di un guazzabuglio disordinato, mai di una sequenza lineare, consecutiva. Ho imparato poi io a trovare il quadro più vasto della situazione, a ricordare le sequenze e a legarle insieme in un ordine plausibile. È stato come imparare a leggere la poesia babilonese decifrando le iscrizioni cuneiformi su mattoni rotti e scrostati. Poco per volta ho elaborato delle indicazioni che mi guidassero nelle ricostruzioni del futuro: questo è il mio viso quando avrò quarant’anni, quando ne avrò cinquanta e quando ne avrò sessanta; questi sono gli abiti che ho indossato dal 1965 al 1973; questo è il periodo in cui ho portato i baffi, quando i miei capelli erano scuri, oh, un’intera schiera di piccoli riferimenti e associazioni e postille che alla fine mi sono diventati così familiari da poter vedere ogni scena, anche la più breve, e collocarla al posto giusto in uno spazio di settimane o anche giorni. All’inizio non è facile, ma ora è diventata come una seconda natura.

— State “vedendo” in questo momento?

— No. È necessario un notevole sforzo per provocare la condizione. È come cadere in trance — un’ombra spettrale gli passò sul viso. — Quando è molto forte, è quasi una doppia visione, un mondo che si sovrappone all’altro, tanto che non sono del tutto sicuro quale sia il mondo in cui vivo e quale quello che “vedo”. Dopo tutti questi anni non mi sono ancora abituato a quel disorientamento, a quella confusione. Di solito non è così intenso. Fortunatamente.

— Potete farmi vedere com’è?

— Qui? Adesso?

— Se volete.

La sua espressione cambiò, gli occhi si fecero vitrei, fissi come se stesse assistendo a un film dall’ultima fila di un cinema enorme, oppure come se fosse assorto in una profonda meditazione. Le sue pupille si dilatarono e gli occhi, una volta spalancati, rimasero immobili, incuranti delle fluttuazioni della luce quando passava qualcuno accanto al nostro tavolo. Il viso mostrava una tensione tremenda. Il respiro era lento, rauco e regolare. Sedeva perfettamente immobile; sembrava assente. Passò, forse, un minuto; a me sembrò insopportabilmente lungo. Poi la sua fissità si frantumò come un ghiacciolo che cade a terra. Si rilassò e le spalle s’incurvarono in avanti; il colore tornò alle guance in un riflusso rapido di sangue; gli occhi gli si bagnarono e ritornarono tristi; prese con mano tremante il bicchiere pieno d’acqua e ne bevve il contenuto.

Alla fine chiese: — Quanto è durato?

— Solo pochi attimi. È sembrato molto più lungo di quanto non sia stato in realtà.

— Per me è durato mezz’ora. Come minimo.

— Cosa avete “visto”?

Scosse le spalle.

— Niente che non abbia già “visto”. Le stesse scene ritornano, sapete, cinque, dieci, venti volte. Come nel ricordo. Ma il ricordo altera le cose. Invece, le cose che io “vedo” non cambiano mai.

— Volete parlarne?

— Non è niente — ribatté, sbrigativo. — Qualcosa che accadrà la primavera prossima. C’eravate anche voi. Passeremo molto tempo insieme, noi due, nei mesi prossimi.

— Che cosa stavo facendo?

— Guardando.

— Guardando chi?

— Me.

Sorrise, e fu un sorriso scheletrico, un terribile, pallido sorriso, un sorriso simile a quello che avevo visto quel primo giorno nell’ufficio di Lombroso. L’imprevedibile ottimismo di venti minuti prima l’aveva abbandonato. Rimpiansi di avergli chiesto una dimostrazione; era come se avessi chiesto a un moribondo di ballare la giga. Dopo un momento di silenzio imbarazzato, però, sembrò riprendersì. Tirò una spavalda boccata dal suo sigaro, finì di bere lo sherry, si rimise a sedere eretto.

— Va meglio. A volte è davvero spossante. Che ne direste di chiedere il menù, eh?

— Siete sicuro di star bene?

— Sicurissimo.

— Mi dispiace di avervi chiesto…

— Non vi date pensiero. Non è stato poi così brutto come deve esservi sembrato.

— Era spaventoso ciò che avete visto?

— Spaventoso? No, no. Ve l’ho detto, non era niente che non avessi già visto prima. Ne parleremo uno di questi giorni — chiamò il cameriere. — Penso sia ora di pranzare.

Il mio menù non aveva i prezzi, un segno di classe. La lista dei piatti era incredibile: bistecca di salmone affumicato, aragosta del Maine, lombo di manzo arrosto, filetto di sogliola, un elenco intero di cibi introvabili, che non avevano niente a che fare con le disgustose schifezze di soia mangiate il giorno prima o le confezioni di alghe marine. Non avendo idea di quali fossero i prezzi, ordinai allegramente insalata di molluschi di mare e lombo di manzo. Carvajal scelse un cocktail di gamberi e salmone; non volle vino ma mi spinse a prenderne una mezza bottiglia. Anche sulla lista dei vini non c’erano prezzi; optai per un Latour ’91, che costava probabilmente venticinque dollari.

Carvajal mi stava osservando attentamente. Era più che mai un enigma. Sicuramente voleva qualcosa da me; certamente voleva che io facessi qualcosa. Sembrava quasi che mi stesse corteggiando, in quel suo modo lontano, silenzioso, segreto. Ma non faceva cenni di nessun tipo. Mi sentivo come uno che gioca a poker bendato contro un avversario che gli vede le carte.

La dimostrazione che avevo ottenuto da lui era stata una parentesi così inquietante nella nostra conversazione che ebbi timore a ritornare subito sull’argomento e per un certo tempo parlammo amabilmente del vino, del cibo, della Borsa, di economia nazionale, politica e altri argomenti non impegnativi.

Inevitabilmente arrivammo a Paul Quinn e l’aria sembrò diventare più pesante. Carvajal mi chiese: — Quinn sta facendo un buon lavoro, vero?

— Mi sembra di sì.

— Dev’essere il sindaco più popolare che la città abbia avuto. È affascinante, vero? E ha un’energia incredibile. Troppa, a volte, no? Spesso sembra impaziente, riluttante a passare attraverso i soliti canali politici per ottenere quello che vuole.

— Credo che abbiate ragione. È certamente un tipo impetuoso. Errori di gioventù. Non ha ancora quarant’anni, non dimenticatelo.

— Dovrebbe prenderla con più calma. A volte la sua impazienza lo rende tirannico. Anche Gottfried era violento e tiranno e sapete cosa gli è successo.

— Gottfried era un dittatore senza vie di mezzo. Ha tentato di trasformare New York in uno stato militare e… — mi bloccai, spaventato. — Un momento! Volete dire che Quinn corre il pericolo di essere assassinato?

— Non più di qualunque altro personaggio politico importante.

— Avete “visto” qualcosa che…

— No, niente.

— Devo saperlo. Se siete in possesso di qualche informazione riguardante un attentato alla vita del sindaco, dovete dirmelo. Devo saperlo.

Carvajal sembrò divertito.

— Mi avete frainteso. Quinn, che io sappia, non è in pericolo di vita, e se pensate che volessi dire qualcosa del genere, ho scelto male le parole, evidentemente. Ciò che intendevo è che la tattica di Gottfried procura dei nemici. Se non fosse stato ucciso, avrebbe potuto, solo potuto, avere dei problemi per la rielezione. Ultimamente anche Quinn si è fatto dei nemici. Prevaricando continuamente il City Council, irrita certi gruppi elettorali.

— I negri, lo so, ma…

— Non solo i negri. Anche gli ebrei sono alquanto irritati con lui.

— Non ne ero al corrente. I sondaggi non…

— Non ancora. Questo malcontento comincerà ad affiorare tra qualche mese. La sua presa di posizione sulla faccenda dell’istruzione religiosa nelle scuole, per esempio, gli ha già alienato apparentemente molte simpatie nei distretti ebrei. E i suoi commenti su Israele all’inaugurazione della nuova Banca del Kuwait in Lexington Avenue…

— Quell’inaugurazione avrà luogo fra tre settimane — feci notare.

Carvajal scoppiò a ridere.

— Davvero? Oh, ho di nuovo fatto confusione! Ho sentito il suo discorso in televisione; così mi sembrava, almeno, ma forse…

— No, non in televisione; l’avete “visto”.

— Senza dubbio, senza dubbio.

— Cosa dirà su Israele?

— Qualche battuta di cattivo gusto. Ma gli ebrei sono molto sensibili a certe osservazioni scherzose, e la reazione non è stata — non sarà — favorevole. A loro non piace la sua aggressività. Presto cominceranno a pensare che Quinn non ha le idee giuste su Israele. E si faranno sentire.

— Quando?

— In autunno. Il “Times” pubblicherà un articolo in prima pagina sulla perdita dell’elettorato ebreo.

— No. Manderò Lombroso a inaugurare la Banca del Kuwait al posto di Quinn. Questo chiuderà la bocca a Quinn e ricorderà a tutti che abbiamo proprio un ebreo al gradino più alto dell’amministrazione municipale.

— Oh, no, non potete farlo.

— Perché no?

— Perché Quinn parlerà comunque. L’ho “visto” là.

— E se lo spedissi in Alaska quella settimana?

— Vi prego, Lew, credetemi: Quinn non può essere in nessun luogo al di fuori dell’edificio della Banca del Kuwait il giorno dell’inaugurazione. Impossibile.

— E altrettanto impossibile, immagino, che eviti di dire delle spiritosaggini su Israele, anche se gli viene detto di non farlo?

— Sì.

— Non ci credo. Sono sicuro che, se domani vado da lui e gli dico: “ehi, Paul, secondo i miei sondaggi sembra che gli ebrei stiano diventando un po’ inquieti; lascia perdere quella faccenda del Kuwait”, lui lascerà perdere. O almeno modererà i commenti.

— Andrà — ribatté tranquillamente Carvajal.

— Qualunque cosa dica o faccia io?

— Esatto.

Scossi la testa.

— Il futuro non è così inflessibile come dite voi. Noi possiamo modificare gli avvenimenti che devono ancora accadere. Parlerò a Quinn di questa faccenda.

— Per favore, non fatelo.

— Perché no? — dissi duramente. — Perché avete bisogno che il futuro si avveri nella maniera giusta?

Sembrò ferito.

Con gentilezza disse: — Perché io so che il futuro si avvera sempre nella maniera giusta.

— Gli interessi di Quinn sono i miei interessi. Se l’avete “visto” fare qualcosa che risulti dannoso a questi interessi, come potete pretendere che rimanga qui seduto e glielo lasci fare?

— Non c’è altra scelta.

— Non lo so ancora.

Carvajal sospirò.

— Se parlate di questa faccenda con il sindaco — disse gravemente — questa sarà l’ultima volta che avrete accesso alle cose che vedo.

— È una minaccia? Un’affermazione che tende a far sì che la vostra profezia si autoadempia? Sapete che voglio il vostro aiuto; così cercate di chiudermi la bocca con la vostra minaccia e così, naturalmente, la cerimonia si svolge come l’avete “vista”. Ma che vantaggio c’è a sapere da voi certe cose se poi non sono libero di agire su di loro? Perché non correte il rischio e mi date carta bianca? Siete così poco sicuro della validità delle vostre visioni da essere costretto ad agire in questo modo per garantirvi che si realizzino nel modo giusto?

— Molto bene — ribatté lui dolcemente, senza malizia. — Avete carta bianca. Fate come vi pare. Vedremo cosa succede.

Mi aveva in pugno. Una volta di più mi aveva giocato, perché come avrei potuto rischiare di perdere accesso alla sua visione e come potevo prevedere quale sarebbe stata la sua reazione al mio tradimento?

Mi feci un appunto mentale per consigliare a Quinn di cominciare a riaggiustare i rapporti con gli ebrei della città, facendo una capatina in qualche salumeria ebrea, andando qualche volta nelle sinagoghe il venerdì sera.

— Siete arrabbiato per quello che ho detto poco fa? — gli chiesi.

— Non mi arrabbio mai.

— Ferito, allora. Mi siete sembrato offeso quando ho detto che avete bisogno che il futuro si avveri nel modo giusto.

— Penso di sì. Perché mi rendo conto di quanto poco mi avete capito, Lew, se pensate davvero che io soffra di qualche forma nevrotica che mi spinge a volere che le mie visioni si realizzino a tutti i costi. No, Lew. I disegni non possono essere cambiati, e se non li accettate, non ci può essere nessuna vera affinità di pensiero tra noi, nessuna comunanza di visione. Ciò che avete detto mi ha rattristato perché mi ha rivelato quanto siete ancora lontano da me. Ma no, non sono arrabbiato con voi.

Finimmo il pasto in completo silenzio e ce ne andammo senza aspettare il conto. Il circolo avrebbe pensato ad addebitarglielo.

Fuori, mentre ci stavamo lasciando, Carvajal disse ancora: — Un giorno, quando anche voi “vedrete”, capirete perché Quinn deve dire ciò che io so che sta per dire all’inaugurazione della Banca del Kuwait.

— Quando anch’io “vedrò”?

— Sì.

— Ma io non ho questa dote.

— Tutti ce l’hanno. Pochissimi sanno usarla.

Mi diede una rapida stretta al braccio e sparì tra la folla di Wall Street.

Загрузка...