La volta successiva, Carvajal mi parlò di come sarebbe avvenuta la sua morte. Disse che aveva meno di un anno di vita.
Sarebbe accaduto nella primavera del 2000, tra il 10 di aprile e il 25 di maggio; anche se pretendeva di conoscere la data e l’ora esatte, non era disposto a essere più preciso al riguardo.
— Perché me lo nascondete?
— Perché non ci tengo a essere oppresso dal vostro nervosismo e dalle vostre ansie personali — fu la secca risposta. — Non voglio che quel giorno arriviate sapendo che è “il” giorno e mi capitiate davanti confuso ed emozionato.
— Ci sarò anch’io? — esclamai, attonito.
— Certamente.
— Volete dirmi dove accadrà?
— Nel mio appartamento. Voi e io saremo seduti a discutere di un problema che vi tormenterà in quel periodo. Suonerà il campanello. Io andrò a vedere chi è e un uomo irromperà in casa, un uomo armato, con i capelli rossi, che…
— Aspettate un attimo. Una volta mi avete detto che nessuno vi ha mai disturbato nel vostro quartiere e che nessuno lo farà mai.
— Nessuno di quelli che ci vivono — precisò Carvajal. — Quest’uomo sarà un forestiero. Ha avuto il mio indirizzo per errore — ha il numero dell’appartamento sbagliato — e deve ritirare una partita di droga, una sostanza usata dai tossicomani. Gli dirò che non ho nessuna droga e lui si rifiuterà di credermi; penserà che io stia facendo il doppio gioco e diventerà violento, cominciando ad agitare la pistola e minacciandomi.
— E io cosa faccio nel frattempo?
— State a guardare.
— A guardare? Me ne sto lì, con le braccia incrociate come uno spettatore?
— Solo a guardare. Come uno spettatore.
Notai un tono tagliente nella sua voce. Come se mi stesse dando un ordine: “Tu non farai niente in questa scena. Ne rimarrai completamente fuori, in un angolo, come un semplice spettatore.”
— Lo potrei colpire con una lampada. Potrei tentare di strappargli la pistola.
— Non lo farete.
— D’accordo. Poi, cosa succede?
— Qualcuno bussa alla porta. È uno dei miei vicini, che ha sentito il rumore ed è preoccupato. Il tipo armato si lascia prendere dal panico. Pensa che sia la polizia, o una banda rivale. Fa fuoco tre volte; poi rompe una finestra e fugge per la scala antincendio. I proiettili mi colpiscono al petto, a un braccio e a un lato della testa. Sopravvivo poco più di un minuto. Voi non venite colpito.
— E poi?
Carvajal si mise a ridere.
— E poi? E poi? Come posso saperlo io? Ve l’ho detto: “vedo” come attraverso un periscopio. Il periscopio arriva fino a quel momento, non oltre. Per me la percezione finisce lì.
Era calmissimo.
— È questa la cosa che avete “visto” quel giorno che abbiamo pranzato insieme al Merchants and Shippers Club?
— Sì.
— Avete osservato voi stesso morire sotto i colpi di una pistola e poi, con noncuranza, avete chiesto il menù?
— La scena non mi era per niente nuova.
— Quante volte l’avete “vista”?
— Non ho idea. Venti volte, cinquanta, forse cento. Come un sogno ricorrente.
— Un incubo ricorrente.
— Ci si abitua. Dopo le prime dieci volte la cosa cessa di avere una carica emotiva.
— Quindi, non è niente più di un film per voi? Come un vecchio giallo televisivo di James Cagney?
— Qualcosa del genere. La scena in sé diventa banale, noiosa, stereotipata, monotona. Sono le implicazioni sottintese che non perdono mai la loro forza, mentre i dettagli hanno ormai perso qualsiasi importanza.
— L’accettate. Non tenterete neppure di sbattere la porta sulla faccia di quell’uomo quando arriverà il momento. Non mi permetterete di nascondermi dietro la porta e dargli un colpo in testa. Non chiederete alla polizia di tenervi sotto controllo quel giorno.
— Certo che no. Che vantaggio ne potrei avere?
— Come esperimento…
Contrasse le labbra. Sembrava seccato del mio cocciuto ritornare su un tema che per lui era assurdo.
— Ciò che “vedo” è ciò che accadrà. Gli esperimenti li ho fatti 50 anni fa e sono falliti. No, non faremo niente, Lew. Reciteremo diligentemente le nostre parti. So che sarà così.