E questo sarebbe il posto dove vive un milionario dotato di una seconda vista? Un piccolo, sudicio appartamento in un tozzo condominio di circa cento anni fa poco lontano da Flatbush Avenue nel cuore della parte di Brooklyn abbandonata da Dio? Arrivarci fu un’impresa di folle temerarietà. Sapevo — chiunque faccia parte dell’amministrazione municipale lo impara subito — quali zone della città dovevano essere considerate “off limits”, oltre qualsiasi speranza di redenzione, al di fuori dell’autorità della legge. Questa ne era un esempio. Sotto il velo del tempo e della decadenza vedevo i resti della rispettabilità residenziale di un tempo; una volta era stato un distretto della piccola borghesia ebrea, un quartiere di macellai, di “kosher” e di avvocati falliti; poi diventò la zona della piccola borghesia negra e quindi dei bassifondi negri, forse con qualche colonia portoricana, e adesso era solo una giungla, un deserto corrosivo di casupole accoppiate per due famiglie, di mattoni rossi ormai in briciole, e palazzoni a sei piani coperti di fuliggine, abitati da vagabondi, tossicomani, rapinatori, rapinatori di rapinatori, teppisti selvaggi, bande in pantaloni corti, topi giganteschi e Martin Carvajal.
— Là? — balbettai quando, avendogli chiesto un colloquio, Carvajal mi aveva suggerito di andare a casa sua. Immagino di aver mancato di tatto, mostrandomi così stupito. Lui ribatté tranquillamente che non mi sarebbe stato torto un capello.
— Penso comunque che chiederò di essere scortato dalla polizia — dissi e lui scoppiò a ridere, affermò che quello era il modo migliore per cercare guai e di nuovo mi consigliò, fermamente, di non avere paura, che non mi sarebbe successo niente se fossi andato solo.
La voce interiore di cui seguo sempre i suggerimenti mi disse di avere fiducia e così mi recai da Carvajal senza la scorta di polizia, ma non senza paura.
Nessun taxi si sarebbe addentrato in quella parte di Brooklyn e nessun mezzo pubblico, ovviamente, arriva in posti del genere; presi in prestito una macchina non segnata tra quelle dell’amministrazione municipale e la guidai io, non avendo il coraggio di arrischiare la pelle di un autista.
Arrivai in orario, intatto se non del tutto tranquillo, alla casa di Carvajal. Per strada mi ero aspettato di trovare sporcizia e mucchi fatiscenti di spazzatura, aree cosparse di macerie di edifici in demolizione, simili ai buchi lasciati dai denti caduti; ma non mi aspettavo carcasse secche e annerite di animali — cani, capre, maiali? — e neppure le folte erbacce che crescevano rompendo l’asfalto come se fosse una città fantasma, e neppure il fetore di escrementi umani o i turbinii di sabbia in cui si affondava fino alla caviglia. Un getto di calore torrido mi investì quando uscii, timidamente e con paura, dal fresco della macchina. Benché si fosse solo all’inizio di giugno, un tremendo calore da fine agosto cuoceva quelle miserabili rovine.
Attivai il dispositivo d’allarme della macchina. Quanto a me, avevo un bastone antipersone caricato al massimo e indossavo un cono difensivo pure al massimo che avrebbe abbattuto un malintenzionato a una dozzina di metri. Pure, mi sentivo tremendamente indifeso mentre attraversavo il cupo asfalto, sapendo di non essere protetto contro un’eventuale pallottola sparata dall’alto. Invece, benché alcuni visi terrei mi spiassero con astio dall’oscurità delle finestre cadenti e scrostate, e alcuni cow-boy di strada dai fianchi stretti mi lanciassero lunghe occhiate scostanti, non ci fu nessun colpo di fucile dal quarto piano. In seguito appresi che non sarei riuscito a sopravvivere sessanta secondi dopo essere uscito dalla macchina se Carvajal non avesse dato degli ordini riguardo alla mia incolumità. In quella giungla bruciata la sua autorità era immensa; agli occhi dei suoi feroci vicini Carvajal era una specie di stregone, un totem sacro, un pazzo santo, rispettato, temuto e obbedito. La sua seconda vista, senza dubbio, usata con buon senso e con effetto impressionante, l’aveva reso invulnerabile, laggiù — nella giungla nessuno scherza con lo sciamano — e ora aveva esteso il suo mantello protettivo su di me.
Il suo appartamento era al quinto piano. Non c’era ascensore. Ogni piano di scale fu un’avventura allucinante. Sentivo lo sgambettìo dei topi giganteschi; soffocavo e avvertivo i conati di vomito per strani odori ripugnanti; immaginavo assassini di sette anni nascosti in ogni pozza d’ombra.
Raggiunsi la sua porta senza incidenti. Aprì prima che riuscissi a trovare il campanello. Nonostante il caldo, Carvajal indossava una camicia bianca con il colletto chiuso, una giacca di tweed grigio e una cravatta marrone. Sembrava un professore in attesa di sentirmi ripetere le coniugazioni e le declinazioni latine.
— Visto? — mi disse — sano e salvo. Nessun guaio.
Carvajal viveva in tre stanze: una camera da letto, un soggiorno e una cucina. I soffitti erano bassi, l’intonaco scrostato, le pareti di un verde sbiadito sembrava che fossero state verniciate l’ultima volta al tempo di Dick Nixon il Dritto. Il mobilio era anche più vecchio, doveva risalire all’epoca di Truman ed era pomposo e troppo imbottito, ricoperto di una stoffa a fiori da cui spuntavano robuste zampe da rinoceronte. Non c’era aria condizionata e si soffocava; l’illuminazione era a incandescenza e pallida; il televisore era un vecchio modello da tavolo; il lavello della cucina aveva acqua corrente e non ultrasuoni. Quando ero un ragazzino, a metà degli Anni 70, uno dei miei amici più cari aveva perduto il padre in Vietnam. Il mio amico viveva con i nonni e la loro casa era identica a questa. L’appartamento di Carvajal conservava misteriosamente l’atmosfera dell’America della metà del secolo; era come l’inquadratura di un film o una stanza d’epoca dello Smithsonian Museum. Con ospitalità assente e distratta mi fece accomodare sul logoro divano del soggiorno e si scusò per non avere né liquori né droghe da offrirmi. Non era un vizioso, mi spiegò, e il quartiere non offriva molto.
— Non ha importanza — ribattei magnanimamente. — Andrà benissimo anche un bicchiere d’acqua.
L’acqua era tiepida e sapeva leggermente di ruggine. Sedevo impalato, con la spina dorsale rigida e le gambe tese. Carvajal, appollaiato sul cuscino di una poltrona alla mia sinistra, disse: — Non mi sembrate a vostro agio, signor Nichols.
— Tra un minuto o due sarò completamente rilassato. Sapete, il tragitto per arrivare qui…
— Ma certo.
— Comunque, nessuno mi ha dato fastidio giù in strada. Confesso che mi aspettavo di trovarmi nei guai, ma…
— Ve l’avevo detto che non vi sarebbe stato torto un capello.
— Eppure…
— Ma ve l’avevo detto — ribatté dolcemente. — Non mi credete? Avreste dovuto credermi, signor Nichols. Lo sapete bene.
— Penso che abbiate ragione — convenni, pensieroso.
Gilmartin, coagulamento, Leydecker. Carvajal mi offrì ancora dell’acqua. Meccanicamente sorrisi e scossi la testa. C’era un silenzio viscoso. Dopo un attimo, osservai: — È strano che una persona come voi scelga di vivere qui.
— Strano? Perché?
— Un uomo con i vostri mezzi potrebbe vivere in qualunque altra parte della città.
— Lo so.
— Perché qui, allora?
— Ho sempre vissuto qui — ribatté tranquillamente. — Questa è l’unica casa che abbia mai avuto. I mobili appartenevano a mia madre e alcuni a sua madre. Sento gli echi di voci familiari in questa stanza, signor Nichols. Avverto la presenza viva del passato. È così strano continuare a vivere dove si è sempre vissuti?
— Ma il quartiere…
— È decaduto, sì, lo so. Sessant’anni provocano dei grossi cambiamenti. Ma i cambiamenti non sono mai stati molto visibili ai miei occhi. Un tranquillo declino, anno dopo anno, poi, forse, un declino più rapido, ma io sono accomodante e malleabile. Mi abituo a ciò che è nuovo e gli faccio posto tra ciò che è sempre stato. E poi ogni cosa mi è così familiare, signor Nichols, i nomi scritti sul cemento fresco quando l’asfalto era nuovo, tanto tempo fa, il grande albero d’ailanto nel cortile della scuola, le grondaie rovinate dalle intemperie dell’edificio dirimpetto. Capite quello che voglio dire? Perché dovrei lasciare queste cose per un abbagliante condominio a Staten Island?
— Per i pericoli, innanzi tutto.
— Non c’è pericolo. Non per me. Questa gente mi guarda come l’ometto che è sempre stato qui, il simbolo della stabilità, l’unica costante in un universo di flusso entropico. Per loro io ho un valore rituale. Sono una specie di pegno di buona fortuna, forse. Comunque, nessuno di quelli che vivono qui mi ha mai molestato. E nessuno lo farà mai.
— Potete esserne sicuro?
— Sì — rispose Carvajal con incrollabile sicurezza, guardandomi fisso negli occhi. Provai di nuovo quel senso di freddo, la sensazione di essere sull’orlo di un abisso, sensazioni che andavano oltre la mia comprensione. Ci fu un altro lungo silenzio. Emanava una forza da lui, una potenza che contrastava con il suo aspetto scialbo, il suo modo di fare tranquillo, la sua espressione consunta e logora.
Alla fine mi ricordò: — Volevate farmi delle domande, signor Nichols.
Annuii. Tirando un profondo respiro, mi buttai a capofitto.
— Sapevate che Leydecker sarebbe morto questa primavera, non è vero? Voglio dire, voi non avete previsto che sarebbe morto. Lo sapevate.
— Sì.
Lo stesso definitivo, incontestabile sì.
— Sapevate che Gilmartin si sarebbe trovato nei guai. Sapevate che quelle petroliere avrebbero versato petrolio fluido.
— Sì. Sì.
— Voi sapete come sarà la Borsa valori domani e dopodomani e avete guadagnato milioni di dollari usando questa conoscenza.
— Anche questo è vero.
— Perciò è legittimo affermare che voi vedete gli avvenimenti futuri con chiarezza straordinaria, con chiarezza soprannaturale, signor Carvajal.
— Come voi.
— Sbagliato — ribattei io. — Io non vedo affetto gli avvenimenti futuri. Non ho nessuna visione delle cose a venire. Sono semplicemente molto bravo a fare previsioni, a soppesare le probabilità e a trarne lo schema più probabile, ma io non “vedo”. Non posso neppure essere sicuro di essere nel giusto, solo ragionevolmente fiducioso. Quelle che faccio io sono delle semplici congetture. Voi “vedete”. Me lo avete già detto quando ci incontrammo nell’ufficio di Lombroso: io suppongo, voi “vedete”. Il futuro è come un film che scorre nella vostra mente. Ho ragione?
— Sapete bene che è così.
— Sì, lo so. Non ci può essere nessun dubbio. So perfettamente ciò che si può compiere con i metodi stocastici e quello che fate voi oltrepassa le possibilità del lavoro di congettura. Forse io avrei potuto prevedere la probabilità di guasti a un paio di petroliere, ma non che Leydecker sarebbe morto o che Gilmartin si sarebbe rivelato un truffatore. Avrei potuto prevedere che qualche importante uomo politico sarebbe morto in primavera, ma mai chi. Avrei potuto prevedere che qualche uomo politico sarebbe stato denunciato per truffa, ma non il suo nome. Le vostre predizioni erano esatte e specifiche. Non si tratta di congetture probabilistiche. Si avvicinano di più alla stregoneria, signor Carvajal. Per definizione, il futuro è inconoscibile. Ma sembra che voi ne sappiate molto.
— Del futuro immediato, sì. Sì, è vero.
— Solo il futuro immediato?
Lui rise.
— Pensate che la mia mente possa penetrare in ogni spazio e ogni tempo?
— Non ho nessuna idea di ciò che la vostra mente penetra. Magari lo sapessi. Magari avessi qualche nozione di come funziona e di quali sono i suoi limiti.
— La mia mente funziona come l’avete descritta voi. Quando voglio, io “vedo”. Una visione delle cose future gira dentro di me come una pellicola cinematografica — sembrava quasi annoiato. — Siete venuto qui per scoprire solo questo?
— Non lo sapete forse? Sicuramente avete già “visto” il film di questa conversazione.
— Naturalmente.
— Avete forse dimenticato qualcuno dei particolari?
— Raramente dimentico qualcosa — ribatté Carvajal, sospirando.
— Quindi sapete cos’altro vi chiederò.
— Sì — ammise.
— E nonostante questo, voi non risponderete a meno che io non vi rivolga la domanda.
— Esatto.
— Supponete che io non lo faccia. Supponete che me ne vada adesso, senza fare quello che avrei dovuto.
— Questo non è possibile — ribatté tranquillamente Carvajal. — Ricordo la piega che deve prendere questa conversazione. Voi non andrete via prima di pormi la prossima domanda. C’è solo un modo in cui le cose possono accadere. Non avete altra scelta che dire e fare ciò che vi ho “visto” dire e fare.
— Cosa siete, un dio che decide gli eventi della mia vita?
Sorrise pallidamente e scosse la testa.
— Sono estremamente mortale, signor Nichols. E non decido nulla. Eppure vi dico che il futuro è immutabile. Quello, cioè, a cui voi pensate come futuro. Siamo entrambi attori di un copione che non può essere riscritto. Avanti, allora. Recitiamo le nostre parti. Chiedetemi…
— No. Non seguirò il testo e me ne andrò.
— … del futuro di Paul Quinn — finì Carvajal.
Ero già alla porta. Ma quando pronunciò il nome di Quinn, mi fermai. Era quella, naturalmente, la domanda che ero stato sul punto di fargli, la domanda per cui ero andato da lui, la domanda che avevo deciso di non rivolgergli quando avevo cominciato a giocare con il destino immutabile. Come avevo giocato male! Ero indifeso, sconfitto, paralizzato.
Forse penserete che io fossi ancora libero di andarmene, invece no, no, non dopo che lo sentii pronunciare il nome di Quinn, non dopo che fui tentato dalla promessa di sapere quello che volevo, non dopo che Carvajal mi aveva dimostrato ancora una volta, con sicurezza schiacciante e definitiva, la precisione del suo dono profetico.
— Ditelo voi — mormorai. — Fatela voi la domanda.
— Se volete. — sospirò.
— Insisto.
— Volete chiedere se Paul Quinn diventerà presidente.
— Ecco.
— Penso di sì.
— Voi “pensate”? È tutto quello che potete dirmi? “Pensate” di sì?
— Non so.
— Ma voi sapete tutto!
— No — ribatté Carvajal — non tutto. Ci sono dei limiti e la vostra domanda li oltrepassa. L’unica risposta che posso darvi è una semplice congettura, basata sullo stesso tipo di fattori che sarebbero presi in considerazione da chiunque si interessi di politica. Considerando questi fattori penso che con tutta probabilità Quinn diventerà presidente.
— Ma non lo sapete per certo. Non lo potete “vedere” diventare presidente.
— Esatto.
— È al di là della vostra portata? Non è nell’immediato futuro?
— Oltre la mia portata, avete detto bene.
— Dunque, volete dire che Quinn non sarà eletto nel 2000, ma pensate che abbia delle buone probabilità nel 2004, anche se non siete in grado di “vedere” fino al 2004.
— Avete mai creduto che Quinn potesse essere eletto nel 2000?
— No, mai. Mortonson è imbattibile. Cioè, a meno che a Mortonson non capiti di lasciarci la pelle come Leydecker, nel qual caso diventa l’elezione di chiunque e Quinn… — feci una pausa. — Cosa vedete nel futuro di Mortonson? Vivrà fino alla elezione del 2000?
— Non so — fu la sua tranquilla risposta.
— Neanche questo? L’elezione è tra diciassette mesi. Dunque il vostro raggio d’azione non raggiunge i diciassette mesi?
— Al momento, no.
— È mai stato superiore?
— Oh, sì. Molto superiore, A volte ho visto anche a trenta o quarant’anni di distanza. Ma non ora.
Sentii che Carvajal stava di nuovo giocando con me.
Esasperato, esclamai: — C’è qualche probabilità che la vostra vista a lungo raggio ritorni? E vi dia, diciamo, una visione dell’elezione del 2000?
— Non credo.
Stavo sudando.
— Aiutatemi. È estremamente importante per me sapere se Quinn ce la farà ad arrivare alla Casa Bianca.
— Perché?
— Ecco, perché io… — mi fermai bruscamente, sbalordito di rendermi conto che in realtà non avevo nessuna risposta se non la curiosità. Avevo l’incarico di lavorare affinché Quinn fosse eletto; presumibilmente questo incarico non era condizionato dalla sicurezza che io stessi lavorando per un vincitore. Eppure quando pensavo che Carvajal avrebbe potuto dirmelo, morivo dal desiderio di saperlo. Ripresi, un po’ goffamente: — Perché, ecco, ho molto a che fare con la sua carriera e mi sentirei meglio se potessi sapere che direzione prenderà e soprattutto se sapessi che tutti i nostri sforzi non andranno perduti. Io… eh… — mi fermai, sentendomi sciocco.
— Vi ho dato la migliore risposta possibile. La mia previsione è che il vostro uomo diventerà presidente.
— Questo equivale a dire che il vostro appoggio a Quinn non è basato sulla certezza assoluta ma solo su una previsione.
— Quale appoggio a Quinn?
La sua domanda, il suo tono così innocente, mi presero alla sprovvista.
— Pensavate che sarebbe stato un buon sindaco. Volete che diventi presidente — cercai di spiegarmi.
— Davvero?
— Sentite, voi avete versato delle somme enormi nel fondo a favore della sua campagna per l’elezione a sindaco. Di che cosa si tratta se non di un appoggio? In marzo siete andato nell’ufficio di uno dei suoi principali strateghi e avete offerto di fare tutto quello che avreste potuto per aiutare Quinn a ottenere una carica maggiore. E questo non lo chiamate appoggio?
— Non mi interessa affatto che Quinn vinca o non vinca un’altra elezione.
— Ma allora perché volete contribuire così tanto al suo fondo elettorale? Perché volete offrire agli organizzatori della sua campagna delle preziose anticipazioni sul futuro? Perché volete?
— “Volete”?
— Volete, proprio. Ho usato la parola sbagliata?
— La volontà non ha niente a che vedere con tutto questo, signor Nichols.
— Più parlo con voi, meno vi capisco.
— La volontà implica scelta, libertà, arbitrio. Nella mia vita questi concetti non esistono. Aiuto Quinn perché so di doverlo fare, non perché preferisca lui ad altri uomini politici. In marzo venni nell’ufficio di Lombroso perché, mesi fa, mi ero “visto” andare là e sapevo che dovevo andarci quel giorno, non importa ciò che avrei preferito fare. Vivo in questo quartiere in sfacelo perché non mi sono mai “visto” vivere in qualche altro posto. Vi dico ciò che vi sto dicendo oggi, perché questa conversazione ormai mi è familiare come un film che ho visto cinquanta volte, e quindi so che a voi devo dire cose che non ho mai dette a nessun altro essere umano. Non mi chiedo mai il perché. La mia è una vita senza sorprese, signor Nichols, senza decisioni e senza volontà. Faccio quello che so di dover fare e so di doverlo fare perché ho “visto” me stesso farlo.
Le sue parole calme e tranquille mi terrorizzarono molto più degli orrori reali o immaginari della scala buia di quell’edificio. Mai, prima di allora, mi ero affacciato a un universo da cui erano banditi il libero arbitrio, il caso, l’imprevisto e la fortuna. Vidi Carvajal come un uomo inerme ma impassibile, trascinato attraverso il presente dalla sua visione inflessibile di un futuro immutabile. Mi spaventava, ma dopo un attimo il terrore vertiginoso se ne era andato, per sempre; infatti, dopo il primo spaventoso pensiero di Carvajal come tragica vittima, mi folgorò un altro pensiero, più esaltante, di Carvajal come uno il cui dono naturale era il perfezionamento ultimo del mio, uno che aveva superato i capricci del caso per entrare nel regno della predicabilità assoluta. Mi sentivo terribilmente attratto verso di lui da quella sua vista interiore. Sentivo che le nostre anime si compenetravano e capii che non avrei mai più potuto liberarmi di lui. Era come se quella fredda energia che emanava da lui, quella gelida radiosità che nasceva dalla sua stranezza, che l’aveva reso così ripugnante ai miei occhi, avesse ora invertito il polo calamitandomi verso di lui.
— Ripetete sempre fedelmente le scene che “vedete”?
— Sempre.
— Non provate mai a cambiare il copione?
— Mai.
— Perché avete paura di ciò che potrebbe accadere se lo fate?
Scosse la testa.
— Come potrei mai avere paura di qualche cosa? Ciò che temiamo è l’ignoto, non è così? No: io leggo obbedientemente le battute del copione perché so che non esiste alternativa. Quello che a voi sembra futuro per me è più simile al passato, è qualcosa che ho già sperimentato, qualcosa che sarebbe sciocco tentare di cambiare. Do del denaro a Quinn perché “l’ho già fatto prima” e ho avuto la visione di quel dare. Come potrei aver “visto” me stesso nell’atto di dare se poi, di fatto, non do, quando il momento della mia visione incrocia il momento del mio “presente”?
— Non avete mai paura di dimenticare il copione e di fare la cosa sbagliata quando viene il momento?
Carvajal fece un risolino.
— Se voi poteste, solo per un attimo, “vedere” come vedo io, capireste che è una domanda senza senso. Non c’è modo di “fare la cosa sbagliata”. Esiste solo “la cosa giusta”, quella che accade, quella che è reale. Io ho la percezione di ciò che accadrà: alla fine si verifica; sono l’attore di un dramma che non permette improvvisazioni, e così siete voi, e tutti gli altri.
— Non avete mai provato, neppure una volta, a riscrivere il copione? In qualche particolare secondario? Neppure una volta?
— Oh, sì, certo, più di una volta, signor Nichols, e non solo in particolari secondari. Quando ero più giovane, molto più giovane, prima di capire. “Vedevo” capitare una disgrazia, “vedevo”, per esempio, un bambino tagliare la strada a un camion o una casa in fiamme e decidevo di giocare a essere Dio, di impedire che la disgrazia si avverasse.
— E allora?
— Niente da fare. Qualunque piano escogitassi, quando arrivava il momento, la disgrazia si verificava esattamente come l’avevo “vista” accadere. Sempre. Le circostanze mi impedivano di prevenire qualunque cosa. Molte volte ho tentato di cambiare il corso predestinato degli eventi, e non ci sono mai riuscito; così, alla fine, ho smesso di tentare.
— E lo accettate passivamente? — incalzai, misurando a passi la stanza, inquieto, agitato, eccitato. — Per voi il libro del tempo è scritto, segnato e inalterabile? È destino e non si discute?
— È destino e non si discute.
— Non vi sembra una filosofia ormai passata di moda?
Sembrò leggermente divertito.
— Non è una filosofia, signor Nichols. È un adattamento alla realtà. Sentite, voi “accettate” il presente?
— Cosa?
— Mano a mano che vi capitano degli avvenimenti li riconoscete come validi? Oppure li vedete come eventi incerti e mutabili e avete la sensazione di poterli cambiare nel momento in cui si verificano?
— No, naturalmente. Come si potrebbe mai cambiare…
— Precisamente. Uno può tentare di indirizzare diversamente il corso del proprio futuro, può persino redigere e ricostruire i propri ricordi del passato, ma non si può fare niente nei confronti del momento stesso mentre fluisce nel presente e prende esistenza.
— E così?
— Agli altri il futuro appare alterabile perché è inaccessibile. Uno ha l’illusione di poter plasmare il proprio futuro, di poterlo modellare fuori dall’utero del tempo non ancora nato. Ma ciò di cui ho percezione quando “vedo” è il “futuro” solo in termini della mia temporanea posizione nel flusso del tempo. In realtà è anche il “presente”, l’inalterabile, immediato presente, di me stesso in una posizione differente nel flusso del tempo. O magari nella stessa posizione in un differente flusso del tempo. Oh, ho parecchie teorie interessanti, signor Nichols. Ma arrivano tutte alla stessa conclusione: che ciò di cui sono testimone non è un futuro ipotetico e incerto, soggetto a cambiamenti tramite il riordinamento di fattori precedènti, ma invece un avvenimento reale e inalterabile, fisso come il presente o il passato. Non posso cambiarlo come voi non potete cambiare un film a cui assistete al cinema. Sono riuscito a capirlo molto tempo fa. E ad accettarlo.
— Da quanto tempo avete il dono di “vedere”?
Stringendosi nelle spalle, Carvajal rispose: — Tutta la vita, immagino. Da bambino non riuscivo a capirlo; era come una febbre che mi prendeva, un sogno vivo, un delirio. Non sapevo che stavo vedendo lampi del futuro. Ma poi mi ritrovai a vivere episodi che avevo “sognato” in precedenza. Quella sensazione di “déjà vu”, signor Nichols, che sono sicuro voi stesso avete provato qualche volta, era la mia compagna di ogni giorno. C’erano volte in cui mi sentivo come un pupazzo che scattava seguendo i fili mentre qualcuno recitava le mie battute fuori dal palcoscenico. Poco per volta scoprii che nessuno provava quella sensazione di “déjà vu” così spesso e così intensamente come me. Penso di essere arrivato fino a vent’anni prima di capire esattamente com’ero, e fino a trenta prima di affrontare decisamente il problema. Naturalmente non mi sono mai rivelato a nessuno, mai fino a oggi.
— Perché non c’era nessuno di cui vi sareste fidato?
— Perché non era scritto nel copione — ribatté con esasperante compiacimento.
— Non vi siete mai sposato?
— No.
— L’avreste voluto?
— Come avrei potuto volerlo? Come avrei potuto volere ciò che evidentemente non avevo voluto? Non ho mai “visto” una moglie per me.
— E quindi non siete mai stato destinato ad averne una.
— Mai stato destinato? — i suoi occhi mandarono uno strano lampo. — Non mi piace questa frase, signor Nichols. Implica che ci sia un disegno cosciente nell’universo, un autore del grande copione. Io non lo penso. Non c’è bisogno di introdurre una tale complicazione. Il copione si scrive da solo, minuto dopo minuto, e sul copione stava scritto che avrei vissuto da solo. Non c’è nessun bisogno di dire che ero destinato a rimanere scapolo. Basta dire che io ho “visto” me stesso scapolo e quindi sarei rimasto scapolo, perciò rimasi scapolo e lo sono ora.
— Nella nostra lingua non esistono i tempi adatti per descrivere un caso come il vostro.
— Ma avete colto il significato?
— Penso di sì. Sarebbe corretto dire che “presente” e “futuro” sono semplicemente dei nomi diversi per gli stessi avvenimenti visti da diversi punti di vista?
— È un’approssimazione discreta. Io, comunque, preferisco pensare a tutti gli eventi come simultanei, mentre ciò che si muove è la percezione che noi ne abbiamo, quel punto mobile della coscienza e non gli avvenimenti stessi.
— E a volte è dato a qualcuno di percepire gli eventi da parecchi punti di vista allo stesso tempo, non è così?
— Ho molte teorie — rispose vagamente. — Forse una, fra tutte le altre, è quella giusta. Ma ciò che importa è la visione in sé, non la spiegazione. E io ho la visione.
— Avreste potuto usarla per fare i milioni — riflettei, indicando lo squallido e vecchio appartamento.
— L’ho fatto.
— No, voglio dire una fortuna davvero gigantesca: Rockefeller più Getty più Creso, un impero finanziario quale il mondo non ha mai visto. Potenza. Lusso. Donne. Controllo di tutti i continenti.
— Non era previsto nel copione.
— E voi l’avete accettato.
— Il copione non ammette nient’altro che l’accettazione. Pensavo che l’aveste capito.
— Quindi vi siete fatto i soldi, un sacco di soldi, ma solo una piccola parte di quello che avreste potuto fare, e ciò non ha significato niente per voi? Avete semplicemente lasciato che i soldi si ammucchiassero intorno a voi come foglie d’autunno?
— Non ne avevo bisogno. Le mie necessità e i miei gusti sono parchi e semplici. Ho accumulato il denaro perché mi sono “visto” giocare in borsa e diventare ricco. Faccio ciò che mi “vedo” fare.
— Secondo il copione. Nessuna domanda sul perché?
— Nessuna domanda.
— Milioni di dollari. Cosa ne avete fatto?
— Li ho usati come mi sono “visto” usarli. Una parte, l’ho data via, a opere di beneficenza, a università, a uomini politici.
— Secondo le vostre preferenze o secondo lo schema che avete visto snodarsi davanti a voi?
— Non ho preferenze — ribatté con calma.
— E il resto del denaro?
— L’ho conservato. In banca. Cosa avrei dovuto farne? Non ha mai avuto nessuna importanza per me. Come dite voi, nessun significato. Un milione di dollari, cinque, dieci milioni, solo parole, — Una strana nota, più intensa, si insinuò nella sua voce. — Che cosa ha significato? Che cosa significa “avere significato”? Noi ci limitiamo a recitare la parte assegnataci dal copione, signor Nichols. Volete un altro bicchiere d’acqua?
— Sì, grazie.
La mia mente era in preda a un turbinio vorticoso. Ero venuto per cercare delle risposte, e le avevo avute, a dozzine, eppure ognuna aveva creato nuovi interrogativi. A cui Carvajal era disposto a rispondere, evidentemente, solo perché vi aveva già risposto nella sua visione di quel giorno.
Parlandogli, mi ritrovai a scivolare senza equilibrio tra i tempi presente e futuro, del tutto preso in un labirinto grammaticale di confusione di tempi e disordine sintattico. E lui continuava a rimanere placido, quasi immobile, e la sua voce era piatta, a volte impercettibile, il viso senza espressione che non fosse quell’aria stranamente consunta. Avrebbe potuto essere un morto resuscitato, o un robot. Accettava una vita rigida, preordinata, completamente programmata, senza mai chiedersi le motivazioni delle sue azioni, ma continuando ad andare sempre avanti, simile a un pupazzo ciondolante dal proprio inevitabile futuro, trasportato in una passività esistenziale deterministica che io consideravo sconcertante e innaturale. Per un attimo mi trovai a compiangerlo. Poi mi chiesi se la mia compassione non fosse sbagliata. Sentii la tentazione di quella passività esistenziale, ne fui attirato con forza.
Improvvisamente Carvajal disse: — Penso che dovreste andarvene ora. Non sono abituato a parlare molto e ho paura di essermi stancato.
— Mi dispiace. Non avevo intenzione di rimanere così a lungo.
— Non dovete scusarvi. Tutto ciò che è successo oggi è stato proprio come l’ho “visto” accadere. Quindi va tutto bene.
— Vi sono grato di aver voluto parlare così apertamente di voi.
— Voluto? — disse ridendo. — Ancora la volontà?
— Questa parola non esiste nel vostro dizionario?
— No. E spero di cancellarla anche dal vostro.
Si diresse verso la porta in segno di congedo.
— Parleremo ancora, presto.
— Mi farebbe piacere.
— Mi dispiace non avervi potuto aiutare come vi sareste aspettato. La vostra domanda su ciò che Paul Quinn diventerà… sono spiacente. La risposta giace oltre i miei limiti e non posso darvi nessuna informazione. Posso percepire solo ciò che percepirò, capite? Ho la percezione solo delle mie percezioni future, come se guardassi il futuro attraverso un periscopio e il mio periscopio non mi mostrasse niente della elezione del prossimo anno.
Mi tenne un attimo la mano.
Sentii una corrente fluire tra noi, un fiume distinto e quasi tangibile di contatto. Percepii in lui una tensione enorme, non solo la tensione provocata dalla nostra conversazione, ma qualcosa di più profondo, uno sforzo per mantenere ed estendere quel contatto tra noi, per raggiungermi in una zona profonda del mio essere. La sensazione mi lasciò scosso e inquieto. Durò solo un istante; poi avvertii come uno scatto e ripiombai nella mia solitudine con una sensazione quasi fisica di separazione, e lui sorrise, mi fece un cortese cenno con il capo, mi augurò buon ritorno a casa e mi fece strada verso il corridoio buio e malsano.
Solo qualche minuto dopo, mentre stavo salendo in macchina, tutti i pezzi dell’enigma andarono al loro posto e riuscii a capire il significato di ciò che Carvajal mi aveva detto mentre eravamo già alla porta. Solo allora compresi la natura di quell’ultimo limite che dominava la sua visione, che lo aveva trasformato in quell’inerte pupazzo che era, che aveva tolto ogni significato alle sue azioni. Carvajal aveva visto il momento della propria morte.
Era per quello che non poteva dirmi chi sarebbe stato il prossimo presidente, ma l’effetto di quella sicurezza portava ad altre conseguenze. Spiegava perché si lasciava trasportare dalla vita in quel modo cieco e indifferente. Per decenni Carvajal doveva aver vissuto con la sicurezza di come e quando e dove sarebbe morto, e quella conoscenza assoluta e indubitabile aveva paralizzato la sua volontà in un modo difficilmente comprensibile alle persone normali. Questa fu la mia interpretazione intuitiva della sua condizione e io ho fiducia nelle mie intuizioni. Quindi alla sua morte mancavano meno di diciassette mesi e Carvajal si lasciava trasportare senza far nulla verso la propria fine, accettando, seguendo il copione, senza il minimo interesse.