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Mi sono occupato di probabilità, da un punto di vista professionale, per sette anni prima di sentir parlare di Martin Carvajal. Il mio lavoro, dalla primavera del 1992 in poi, consistette nel fare anticipazioni sul futuro. Io posso guardare la ghianda e vedere la catasta di legna da ardere: è un dono che ho. Dietro pagamento, posso dirvi se, secondo me, quella delle patatine fritte continuerà a essere una attività in espansione, se è una buona idea aprire un gabinetto di tatuaggi a Topeka, se la moda dei capelli tagliati a zero durerà abbastanza da rendere conveniente uno sviluppo della vostra fabbrica di creme depilatorie di San José.

Mio padre amava dire: “Un uomo non sceglie la propria vita. È la sua vita a scegliere lui”.

Può darsi. Non avevo mai pensato di poter entrare nel campo delle profezie. A dire la verità, non mi ero mai aspettato di entrare in nessun campo. Mio padre aveva paura che diventassi un perdigiorno. Certamente dovette avere questa impressione quando presi la laurea. (New York University, 1968.) Mi ero barcamenato durante i tre anni di università senza sapere affatto ciò che volevo fare della mia vita; l’unica cosa di cui ero certo è che doveva trattarsi di qualcosa di comunicativo, creativo, redditizio e, tutto sommato, utile alla società. Non volevo fare il romanziere, né l’insegnante, né l’attore, né l’avvocato, né l’agente di cambio, né il generale e neppure il prete. L’industria e la finanza non mi attiravano, la medicina non era alla mia portata, la politica mi sembrava sporca e volgare.

Conoscevo le mie capacità, che sono essenzialmente verbali e concettuali, e conoscevo le mie esigenze rivolte esclusivamente a una vita sicura e tranquilla. Ero e sono tuttora intelligente, ambizioso, sveglio, energico, disposto a lavorare sodo e innocentemente opportunista, ma non, spero, opportunisticamente innocente. Tuttavia, quando uscii dall’università, mi mancava un centro di interesse, un punto di riferimento.

È la vita di un uomo a scegliere lui. Avevo sempre avuto una curiosa abilità per le intuizioni bizzarre; così, poco per volta, trasformai questa predisposizione in un modo per guadagnarmi la vita. A tempo perso, facevo, come lavoro riempitivo, lo scrutatore alle elezioni; un giorno, in ufficio, mi capitò di fare dei commenti perspicaci sul quadro generale che i primi dati stavano mostrando e il mio capo mi chiese di abbozzare uno schema indicativo di previsioni per la fase successiva della elezione. Si tratta di un programma che mostra quale tipo di domande si dovrebbero fare per ottenere le risposte di cui si ha bisogno. Quando un grosso cliente del mio datore di lavoro mi chiese di licenziarmi per dare consulenze come libero professionista, decisi di correre il rischio. Passare da questo a un vero e proprio studio di consulenze a tempo pieno fu solo questione di pochi mesi.

Quando entrai nel campo delle progettazioni, molte persone male informate pensarono che io fossi un raccoglitore di dati statistici. Non è così. Erano gli esperti di statistica a lavorare per me, avevo alle mie dipendenze un’intera squadra di “tecnici-Doxa”. Svolgevano per me il lavoro che i mugnai fanno per il fornaio: loro separavano il grano dalla pula; io producevo le torte a sette strati. Usando dei campioni di dati raccolti con i soliti metodi quasi-scientifici, ne traevo delle previsioni a lungo raggio, operavo dei cambiamenti repentini basati sull’intuizione; per farla breve, facevo delle supposizioni e ci riuscivo bene. Mi arricchivo, ma provavo anche una specie di rapimento estatico.

Quando confrontavo un gruppo di campioni non elaborati da cui dovevo trarre un pronostico importante, mi sentivo come un tuffatore che si lancia da una ripida scogliera in uno scintillante mare azzurro, alla ricerca di un lucente doblone d’oro nascosto nella sabbia bianca, giù in fondo, sotto le onde: il cuore mi batteva forte, la testa mi girava, il mio corpo e il mio spirito, fortemente stimolati, giungevano a uno stadio energetico più alto e intenso. Estasi.

Quello che facevo era di un’estrema raffinatezza tecnica, ma era anche una specie di arte magica. Il mio lavoro si svolgeva tra strumenti armonici, spioventi positivi, valori modali e parametri di dispersione. Il mio ufficio era un labirinto di schermi dimostrativi e di diagrammi. Mantenevo in funzione ventiquattro ore su ventiquattro una fila di computer giganti e quella specie di orologio che portavo al braccio sinistro era in realtà lo strumento in cui si raccoglievano i dati. Ma la matematica più complicata e la tecnologia Hollywood più raffinata erano semplici aspetti delle fasi preliminari del mio lavoro, lo stadio di acquisizione. Una volta giunto il momento di fare le vere e proprie previsioni, l’IBM non mi sarebbe più stata di nessun aiuto. Il gioco di prestigio dovevo farlo con la mia sola mente, senza aiuto. Mi sarei affacciato, terribilmente solo, dal ciglio di quella scogliera; e pur conoscendo, grazie all’ecogoniometro, la configurazione del fondale marino; pur avendo misurato, con gli strumenti più moderni della General Electric, la velocità del flusso di corrente, la temperatura dell’acqua e l’indice di torbidezza, tuttavia mi sarei trovato completamente solo nel momento cruciale della percezione. Avrei scrutato l’acqua con gli occhi socchiusi, piegando le ginocchia, facendo oscillare le braccia, riempiendo i polmoni di aria, aspettando il momento in cui avrei “visto”, in cui avrei veramente “visto”; e quando avessi sentito quel meraviglioso, sicuro stordimento dietro le sopracciglia, allora finalmente avrei spiccato il balzo; mi sarei lanciato a capofitto nel mare increspato alla ricerca del doblone d’oro; mi sarei proiettato, nudo, indifeso e infallibile, verso la meta.

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