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Dal settembre 1997 alla fine dell’inverno del 2000.

Sette o otto mesi fa, nel giugno 2000, cominciai a essere ossessionato dall’idea di fare eleggere Paul Quinn Presidente degli Stati Uniti.

“Ossessionato”. È una parola forte. Fa pensare a Sacher-Masoch, Krafft-Ebing, ad abluzioni rituali e indumenti intimi di gomma. Eppure, credo che sia la parola adatta a descrivere i miei rapporti con Paul Quinn e le sue ambizioni.

Fu Haig Mardikian a presentarmi a Quinn, nell’estate del 1995. Haig e io abbiamo frequentato la stessa scuola privata, la Dalton, intorno al 1980-82, dove abbiamo praticato molta pallacanestro, e da allora siamo sempre rimasti in contatto. Haig è un ottimo avvocato dagli occhi di lince, alto circa tre metri, che vuole diventare, tra le altre cose, il primo Ministro della Giustizia degli Stati Uniti di stirpe armena, e probabilmente ci riuscirà. (Probabilmente? Come posso dubitarne?) Mi telefonò in un afoso pomeriggio d’agosto.

— Sarkisian dà una gran festa stasera — mi disse. — Sei invitato anche tu. Ti prometto che ci sarà qualcosa di interessante per te.

Sarkisian è un operatore in beni immobili che, dicono, è padrone delle due rive del fiume Hudson per sei o settecento chilometri.

— Chi ci sarà? Oltre a Ephrikian, Missakian, Hagopian, Manoogian, Garabedian e Boghosian, naturalmente.

— Berberian e Khatisian. E… — e Mardikian sciorinò un elenco abbagliante di celebrità del mondo della finanza, della politica, industria, scienza e delle arti, terminando con: — … e Paul Quinn.

C’era un’enfasi molto significativa su quel nome finale.

— Dovrei sapere chi è, Haig?

— Già, ma al momento attuale probabilmente non lo sai. In questo momento è il deputato di Riverdale. Un uomo che farà strada nella vita pubblica.

— A che ora è la festa?

— Alle nove.

E così andai a casa di Sarkisian: un triplice attico in cima a una torre condominiale circolare di 90 piani in alabastro e onice posta su una piattaforma sul fiume, al largo del Lower West Side. Guardie dalla faccia inespressiva, che avrebbero potuto benissimo essere dei robot di plastica e metallo, controllarono la mia identità, mi perquisirono e infine mi lasciarono entrare. L’aria, all’interno, era carica di una nebbiolina azzurra. L’odore aspro e aromatico di osso in polvere dominava ogni cosa: si fumava calcio drogato quell’anno.

Finestre ovali di cristallo, simili a enormi oblò, si aprivano sulle pareti circolari di tutto l’appartamento. Nelle stanze che guardavano a oriente la vista era chiusa dalle due fette monolitiche del World Trade Center, ma nelle altre Sarkisian offriva un panorama di 270 gradi del Porto di New York, del New Jersey, della Superstrada del West Side e qualcosa della Pennsylvania.

Solo in una delle enormi stanze a forma di cuneo i vetri degli oblò erano opachi, e capii il perché quando entrai nel cuneo adiacente e sbirciai fuori da una stretta angolatura: quel lato della torre si trovava di fronte al moncone non ancora demolito della Statua della Libertà, e Sarkisian evidentemente non voleva che quello spettacolo deprimente intristisse i suoi ospiti. (Eravamo nell’estate del ’95, non dimenticate, uno degli anni più violenti di quel decennio e i bombardamenti avevano scosso i nervi a tutti.)

Gli ospiti! Erano, come previsto, una folla spettacolare e variopinta di contrasti, astronauti, capitani d’industria e presidenti di consigli di amministrazione. Gli abiti tendevano al vistoso-formale con la prevedibile ostentazione di seni e organi genitali, ma c’erano anche i primi accenni, da parte di chi ci teneva a essere all’avanguardia, del gusto “fin de siècle” per la moda pudica, oggi dominante, con abiti accollati e “bandeaux” attillati. Qualche uomo e parecchie donne ostentavano un abbigliamento clericale e ci dovevano essere una quindicina di pseudo-generali decorati con un numero di medaglie sufficienti a far arrossire di vergogna un dittatore africano. Io ero vestito abbastanza semplicemente, almeno mi pareva, con una camiciola senza pieghe verde-radiazione e una collana di bolle a tre giri. Benché le stanze fossero affollate di ospiti, l’andamento della festa era perfetto; infatti notai otto o nove tizi robusti, bruni e impeccabili, in abiti severi (sicuramente uomini-chiave della onnipresente mafia armena di Mardikian), che, distribuiti in modo equidistante nella sala principale come altrettanti attaccapanni, pali di una porta di calcio o piloni, occupavano una posizione fissa prestabilita e offrivano premurosamente da fumare o da bere, facevano le presentazioni e indirizzavano gli ospiti verso altri ospiti che avrebbero avuto piacere di conoscere. Mi lasciai attirare facilmente in questa sottile ragnatela, ebbi la mano semistritolata da Ara Garabedian o Jason Komurjian o George Missakian e mi ritrovai nella stessa orbita, in fase di collisione, di una giovane donna dal viso splendente, i capelli biondi e di nome Autumn, con cui ritornai a casa molte ore dopo.

Molto prima che Autumn e io arrivassimo a questo, comunque, ero passato, di gomitata in gomitata, attraverso una lunga rotazione di compagni di chiacchiere, durante la quale…

…mi ritrovai a parlare con una persona di sesso femminile, negra, arguta, favolosamente bella e più alta di me di mezzo metro, che immaginai essere, con ragione, Ilene Mulamba, direttrice di Rete Quattro, che mi procurò un contratto per la progettazione delle loro trasmissioni nella fascia etnica a segnale diviso…

…declinai gentilmente le scherzose avance del Consigliere Comunale Ronald Holbrecht, la sedicente Voce della Comunità Omosessuale e primo uomo che fosse riuscito, fuori della California, a vincere un’elezione con l’appoggio del Partito Omofilo…

…mi smarrii in una conversazione tra due uomini alti dai capelli bianchi che sembravano dei banchieri e che scoprii essere due specialisti in bionergetica di Bellevue e Columbia-Presbyterian, mentre si scambiavano pettegolezzi sul lavoro di sonopuntura che stavano svolgendo in quel periodo e che riguardava il trattamento ultrasonico dei tumori ossei maligni a stadio avanzato…

…ascoltai un funzionario dei Laboratori CBS che parlava a un giovane dagli occhi sporgenti del loro nuovissimo occhiello metallico ad alimentazione biologica per il potenziamento delle doti carismatiche…

… appresi che il giovane dagli occhi sporgenti era Lamont Friedman della malfamata e poliedrica società finanziaria di investimenti delle Asgard Equities…

… scambiai quattro chiacchiere senza senso con Noel MacIver della Spedizione Ganimede, con Claude Parks della Sezione Narcotici (che si era portato dietro il suo sassofono molecolare e non aveva bisogno di molto incoraggiamento per suonarlo), con tre campioni del basketball professionistico e un astro nascente del cricket nazionale, con una promotrice della nuova lega per gli incarichi pubblici alle prostitute, con un ispettore comunale delle case di tolleranza, con una frotta di funzionari municipali di poco conto e con il Direttore del Museo di Brooklyn delle Arti Incarnate, Meiling Pulvermacher…

… incontrai per la prima volta un apostolo della Dottrina del Transit, la piccola ma energica Catalina Yarber che tentò di convertirmi “ipso facto”, tentativi a cui mi opposi con delle scuse piuttosto evasive…

… e incontrai Paul Quinn.

Quinn, proprio lui. Talvolta mi sveglio, tremante e sudato, dopo aver sognato, come in un “playback”, quella festa, in cui mi vedo trasportato da una irresistibile corrente attraverso un mare di celebrità in lacrime verso la radiosa, sorridente figura di Paul Quinn che mi aspetta, come Cariddi, con gli occhi brillanti e le mandibole spalancate. Allora Quinn aveva 34 anni, cinque più di me, ed era un uomo tozzo e robusto, biondo, dalle spalle ampie e con grandi occhi azzurri, un sorriso cordiale, abiti severi e tradizionali, una stretta di mano forte e virile che vi afferrava, oltre alla mano, anche l’interno del bicipite, un modo di agganciare il vostro sguardo che sembrava quasi produrre uno scatto sonoro e che stabiliva un rapporto istantaneo.

Tutto questo faceva parte di una normalissima tecnica politica che avevo già visto in azione abbastanza spesso prima di allora, ma mai con quel grado di intensità e potenza.

Quinn riusciva a superare il vuoto psicologico che si crea tra due persone appena presentate con una tale rapidità e sicurezza che mi venne il sospetto che portasse all’orecchio uno degli anelli della CBS per il potenziamento delle doti carismatiche.

Mardikian gli disse il mio nome e Quinn si dette subito da fare con: — Siete una delle persone che ero più ansioso di conoscere questa sera — e: — Chiamatemi Paul — e: — Andiamo in un posto un po’ più tranquillo, Lew — e io mi resi conto di essere stato manovrato con maestria, ma ormai ero irretito mio malgrado.

Mi condusse in un salottino appartato, posto a nord-ovest della stanza principale. Vidi figurine in creta precolombiane, maschere africane, schermi in rilievo, un piacevole miscuglio di pezzi decorativi vecchi e nuovi. La carta da parati riproduceva il “New York Times”, annata 1980 o giù di lì.

— Gran bella festa — osservò Quinn, ammiccando.

Poi scorse rapidamente la lista degli invitati, rivelandomi la sua infantile meraviglia nel vedere il proprio nome tra quelli di tante celebrità.

Quindi restrinse il suo centro di interesse e si concentrò su di me. Devo dire che era stato ben istruito. Sapeva tutto di me, quale scuola avevo frequentato, in che cosa mi ero laureato, che tipo di lavoro stavo facendo, dove era il mio ufficio. Mi chiese se c’era anche mia moglie.

— Sundara, si chiama così, vero? Di origine asiatica?

— La sua famiglia è indiana.

— Dicono che sia bellissima.

— Questo mese è nell’Oregon.

— Spero di avere l’occasione di conoscerla. La prossima volta che vengo a Richmond magari vi do un colpo di telefono, va bene? A proposito, vi piace stare a Staten Island?

Anche questo non mi era nuovo, la Cura completa, la mente calcolatrice dell’uomo politico al lavoro, come se una piccolissima particella di microcircuito fosse entrata in azione là dove erano richiesti dei fatti, tanto che per un secondo pensai che fosse una specie di robot. Ma Quinn era troppo in gamba per essere irreale. Da una parte non faceva che ripetere a memoria tutti i dati che gli erano stati riferiti su di me e ne dava una splendida interpretazione, mentre, d’altra parte, mi mostrava di divertirsi per la voluta esagerazione della sua stessa recita, come se, dentro di sé, mi stesse ammiccando e dicendo: — Sono costretto a caricare un po’ la mano, Lew; è così che si deve portare avanti questo stupido gioco.

Inoltre sembrava che si rendesse conto che anch’io ero divertito e nello stesso tempo meravigliato della sua abilità. Era in gamba. Tremendamente in gamba.

Automaticamente, il mio cervello studiò uno schema e mi restituì una serie di titoli del “Times” che suonavano più o meno così:

“IL DEPUTATO DEI BRONX QUINN CRITICA VIOLENTEMENTE IL RITARDO NELLO SGOMBERO DEI BASSIFONDI” “IL SINDACO QUINN CHIEDE LA RIFORMA DEL DOCUMENTO COSTITUTIVO DELLA CITTÀ” “IL SENATORE QUINN ANNUNCIA LA SUA CANDIDATURA ALLA CASA BIANCA” “QUINN GUIDA I NUOVI DEMOCRATICI A UNA VITTORIA SCHIACCIANTE IN TUTTO IL PAESE” “VALUTAZIONE DELL’OPERA DEL PRESIDENTE QUINN DOPO IL SUO PRIMO MANDATO”.

Intanto, Quinn continuava a parlare, sempre sorridente, senza mai smettere di fissarmi negli occhi, tenendomi inchiodato.

— Dicono che abbiate il migliore indice di attendibilità di tutti i progettisti del nordest… Scommetto, però, che nemmeno voi avevate previsto l’assassinio di Gottfried… Non è necessario essere un gran profeta per provare pietà per quel povero cristo di DiLaurenzio che deve cercare di amministrare City Hall in un periodo come questo… Questa città non può essere governata, si dovrebbero inventare dei giochi di prestigio… Non siete disgustato anche voi da quell’ipocrita Legge sul Vicinato?… Che ve ne pare del progetto di Con Ed sull’impianto di fusione nella 23a Strada?… Dovreste vedere i prospetti dei movimenti di capitale che sono stati trovati nella cassaforte dello studio di Gottfried…

Molto abilmente sondava le possibilità di comuni vedute in filosofia politica, anche se doveva essere già sicuro che condividevo gran parte delle sue idee; infatti, se mi conosceva tanto, doveva anche sapere che ero iscritto al partito dei Nuovi Democratici, che la pensavo come luì circa le precedenze, le riforme e quella folle idea puritana di voler codificare la moralità. Più parlavamo più mi sentivo attratto da lui.

Cominciai a fare, a caso, dei paragoni mentali tra Quinn e alcuni grandi uomini politici del passato, Franklin Delano Roosevelt, Rockefeller, Johnson, il primo Kennedy. Tutti avevano avuto quella meravigliosa, duplice capacità di riuscire a compiere i rituali della conquista politica e di far contemporaneamente capire alle loro vittime più intelligenti che “non ho nessuna intenzione di prenderti in giro, sappiamo benissimo che si tratta di una farsa, ma non pensi che ci riesco bene?”. Anche allora, persino quella prima sera nel 1995, quando Quinn era solo un piccolo deputato sconosciuto al di fuori della sua circoscrizione, lo vidi primeggiare nella storia politica a fianco di Roosevelt e Kennedy.

In seguito cominciai a fare dei paragoni più grandiosi, tra Quinn e personaggi come Napoleone, Alessandro Magno, persino Gesù, e se questo discorso vi facesse sogghignare, vi prego di non dimenticare che io sono un maestro nelle arti stocastiche e la mia vista è molto più chiara della vostra. Quinn non mi parlò delle sue intenzioni di candidarsi per una carica più importante. Quando tornammo tra gli altri, osservò semplicemente: — È presto perché io pensi di formare un gruppo di persone che lavorino per me. Però, quando sarà ora, vi voglio con me. Haig si terrà in contatto.

— Cosa pensi di lui? — mi chiese Mardikian cinque minuti dopo.

— Nel 1998 sarà sindaco di New York.

— E poi?

— Se vuoi saperne di più, amico, telefona al mio ufficio e fissa un appuntamento. A cinquanta dollari l’ora ti rivelerò tutto quanto c’è nella sfera di cristallo.

Lui mi diede un pugno scherzoso e se ne andò ridendo.

Dieci minuti dopo stavo fumando la pipa con la signora dai capelli d’oro chiamata Autumn. Autumn Hawkes, l’acclamato nuovo soprano del Metropolitan. Rapidamente arrivammo a un accordo, fatto solo di occhiate, il silenzioso linguaggio del corpo, per il resto della notte. Però, rimasi presto deluso della sua vera preferenza, quando la vidi osservare con forte interesse e gli occhi luccicanti Paul Quinn, che si trovava all’altra estremità della stanza. Quinn era lì per lavoro e nessuna donna poteva dargli la caccia (neppure un uomo, ovviamente!).

— Mi chiedo se sappia cantare — osservò Autumn con aria pensosa.

— Vi piacerebbe fare qualche duetto con lui?

— Isotta e Tristano. Turandot e Calaf. Aida e Radames.

— Ammirate le sue idee politiche?

— Sì, se sapessi quali sono.

— È liberale e onesto.

— Allora ammiro le sue idee politiche. Inoltre trovo che sia estremamente virile e superbamente bello.

— Dicono che i politici che vogliono fare carriera non valgono molto come amanti.

Lei si strinse nelle spalle.

— Non mi lascio impressionare dalle dicerie. A me basta guardare un uomo, un’occhiata sola, per capire se è un amante in gamba.

— Grazie.

— Risparmiate i complimenti. A volte mi sbaglio, naturalmente — aggiunse con un sorriso velenoso. — Non sempre, ma capita, a volte.

— Ogni tanto mi sbaglio anch’io.

— Sulle donne?

— Su tutto. Io sono dotato di una seconda vista, sapete. Il futuro è un libro aperto per me.

— Sembra che diciate sul serio.

— Dico sul serio. È così che mi guadagno da vivere. Facendo previsioni.

— Cosa vedete nel mio futuro? — si affrettò a chiedere lei, schiva e ansiosa nello stesso tempo.

— Per l’immediato futuro, vedo una notte di orge selvagge e una tranquilla passeggiata mattutina sotto una leggera pioggerella. In distanza, vedo trionfi su trionfi, la celebrità, una villa a Majorca, due divorzi e la felicità avanti negli anni.

— Siete dunque uno zingaro indovino?

Scossi la testa.

— Sono solo un tecnico stocastico, madame.

Lei guardò Quinn.

— E nel suo futuro, cosa vedete?

— Lui? Lui diventerà presidente. Come minimo.

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