IV

Castel Hagedorn si ergeva su un picco di diorite che sovrastava un’ampia valle aperta verso Sud. Più grande e imponente di Janeil, il castello era circondato da mura che avevano una circonferenza di milleseicento metri e un’altezza di novanta. I parapetti si innalzavano a più di trecento metri dal fondovalle e torri e torrette arrivavano ad altezze anche maggiori. A Est e a Ovest della fortezza si aprivano dei precipizi ininterrotti fino a valle, mentre gli altri pendii, più dolci, erano stati modellati a terrazze per la coltivazione di carciofi, viti, peri e melograni. Un viale che partiva dal fondovalle saliva fino alla piazza centrale del castello girando tutto intorno al picco. Davanti alla piazza centrale si trovava la Rotonda, circondata dai palazzi dei ventotto casati.

Al tempo della sua costruzione, al ritorno degli uomini sulla Terra, il castello sorgeva sulla odierna piazza. Era stato il decimo Hagedorn che, avvalendosi di un contingente di Mek e di Contadini, aveva fatto costruire le nuove mura e abbattere il vecchio castello. Sempre allora, cinquecento anni prima, erano stati edificati i ventotto palazzi.

Sotto la piazza erano stati scavati tre livelli di servizio. Più in basso di tutti quello per le stalle e le rimesse, quindi quello per le officine dei Mek e i loro quartieri, infine quello per il forno, la distilleria, il lapidario, l’arsenale, il deposito e gli altri magazzini speciali.

L’Hagedorn attuale, il ventiseiesimo, era un Claghorn degli Overwhele. La sua elezione aveva stupito tutti, dal momento che O.C. Charle, come veniva chiamato, non eccelleva né per l’aspetto né per la presenza. Non spiccava per eleganza, intuito o istruzione, e non si era mai distinto per originalità di pensiero. Fisicamente era ben proporzionato: aveva il volto squadrato e ossuto, con il naso corto e diritto, la fronte benevola e piccoli occhi grigi. Sembrava sempre distratto, «vacuo» lo definivano i suoi diffamatori, ma quell’espressione si trasformava velocemente in un atteggiamento imbronciato di testardaggine con un semplice movimento delle ruvide sopracciglia bionde. Lui, O.C. Charle o Hagedorn, sembrava non accorgersene neanche.

La sua alta carica, benché quasi completamente priva di rilevanza ufficiale, lo metteva in primo piano dinanzi a tutti e il suo stile avrebbe condizionato l’intera popolazione. Ecco il motivo per cui l’elezione di Hagedorn aveva un’importanza tutt’altro che trascurabile ed era sottoposta a centinaia di riflessioni. Era raro trovare un candidato di cui non venisse messa a nudo qualche vecchia sgrammaticatura e qualche goffaggine. E se anche il candidato dava mostra di non farci caso, parecchie amicizie si guastavano, si accrescevano i rancori e le reputazioni andavano in frantumi. La scelta di O.C. Charle era stata il risultato di un compromesso tra le due fazioni del clan Overwhele, clan che aveva ricevuto il privilegio di dare il nuovo Hagedorn.

I nobiluomini che lo avevano scelto erano tutti degni del massimo rispetto, ma si differenziavano tra di loro per il modo di affrontare la vita. Il primo di essi era Garr, della casata Zumbeld. Era la vivente personificazione di tutte le virtù tradizionali di Castel Hagedorn: conosceva le essenze e si vestiva in modo raffinato, senza mai una piega o un petalo della rosa degli Overwhele fuori posto. Fondeva disinvoltura, intuito e dignità in un piacevole miscuglio e la sua conversazione era brillante e raffinata, mordace se stuzzicato. Conosceva tutte le principali opere letterarie e suonava il liuto a nove corde, per cui era estremamente necessario alla Parata delle Antiche Cotte d’Armi. Era un erudito antiquario, sapeva l’ubicazione di tutte le più importanti città della Vecchia Terra e poteva andare avanti a parlare per ore dei tempi antichi. In campo militare le sue conoscenze non avevano eguali. Gli unici che potevano avvicinarvisi erano D.K. Magdah di Castel Delora e forse Brusham di Tuang. E i difetti? Se ne annoveravano pochissimi. Era eccessivamente puntiglioso, per meglio dire suscettibile, e ostinato, ma si sarebbe potuto più correttamente parlare di intransigenza. O.Z. Garr non si sarebbe mai potuto giudicare insipido o indeciso e il suo coraggio era al di sopra di ogni discussione. Due anni prima, quando una banda di zingari era penetrata nella valle uccidendo i Contadini, rubando le bestie e arrivando addirittura a colpire al petto con una freccia un cadetto del clan Isseth, aveva costituito una spedizione punitiva di Mek, li aveva caricati su energovagoni ed era partito per cacciare i nomadi. Raggiunti vicino al fiume Drene, nei pressi delle rovine della cattedrale di Worster, questi si erano rivelati inaspettatamente astuti e decisi a combattere. O.Z. Garr si era comportato in maniera esemplare, dirigendo l’attacco dall’energovagone. Lo scontro era terminato con la fuga dei nomadi, che avevano lasciato sul campo ben ventisette morti ammantati di nero, mentre i Mek ad aver perso la vita furono solo venti.

L’avversario di O.Z. Garr nella corsa al titolo di Hagedorn era il membro più anziano della casata dei Claghorn. Anche costui era perfettamente inserito nelle squisite discriminazioni della società di Hagedorn. La sua erudizione non aveva nulla da invidiare a quella di O.Z. Garr, ma non era altrettanto versatile, essendosi specializzata sui Mek, sulle loro abitudini linguistiche e sociali. Aveva una conversazione più profonda ma meno brillante e pungente del suo antagonista. Solo raramente si serviva di strani modi di dire e delle sottili allusioni che erano proprie di Garr. Le sue preferenze andavano a un modo di parlare più sobrio. Non aveva neanche una Phane, al contrario di O.Z. Garr, le cui quattro, Delizie del Velo, difficilmente venivano uguagliate in bellezza alla Parata delle Antiche Cotte d’Armi.

Ma la differenza fondamentale fra i due verteva sulle concezioni filosofiche. Garr era un tradizionalista e un accanito sostenitore della sua società, della quale accettava tutti i principi senza riserve. Non aveva nessun tipo di dubbio o di senso di colpa e non pensava neppure a cambiare una situazione che permetteva a oltre duemila nobili, uomini e donne, di trascorrere la vita nel lusso più completo. A Claghorn invece, pur non essendo un Espiazionista, non andava a genio quel modo di vivere e le sue argomentazioni erano talmente obiettive che molti rifiutavano di ascoltarle perché generavano in loro un senso di disagio. In realtà un indefinibile malessere si era impossessato della società di Hagedorn, perciò Claghorn raccoglieva molti sostenitori anche tra la gente di rilievo.

Al momento delle votazioni, però, nessuno dei due candidati aveva ottenuto un sufficiente numero di preferenze e così la scelta si era spostata su un gentiluomo che mai aveva pensato di poter accedere a una carica tanto onorifica. Era decoroso e dignitoso, ma non aveva una eccessiva profondità d’animo; non era insolente, ma neppure vivace. Insomma, con la sua affabilità e la sua incapacità di farsi valere O.C. Charle era diventato il nuovo Hagedorn.

Sei mesi dopo, poco prima del sorgere dell’alba, i Mek se ne erano andati portandosi dietro gli energovagoni, gli strumenti di lavoro, le armi e le apparecchiature elettriche. Contemporaneamente e nello stesso modo se ne andarono anche i Mek degli altri castelli. Era evidente che quella fuga era stata preparata da tempo.

Anche ad Hagedorn la prima reazione fu l’incredulità, seguita subito dall’indignazione. Solo in un secondo momento, quando si compresero bene le implicazioni di quel gesto, si diffuse un’opprimente premonizione di sventure.

Il nuovo Hagedorn si riunì nella sala ufficiale del Consiglio con i capi dei clan e altri notabili scelti da lui stesso per analizzare la situazione. Hagedorn stava alla cima di un tavolo coperto da un drappo di velluto rosso. Alla sua sinistra sedevano Zanten e Isseth, alla sua destra Overwhele, Aure e Beaudry. Seguivano tutti gli altri, compresi O.Z. Garr, I.K. Linus, A.G. Bernal, grande matematico, e infine B.F. Wyas, abile antiquario che aveva già scoperto l’ubicazione di molte antiche città: Palmira, Lubecca, Eridu, Zanesville e altre ancora. Erano inoltre presenti diversi anziani dei casati: Manine e Baudune di Aure, Quay, Roseth e Idelsea di Xanten, Uegus di Isseth e Claghorn di Overwhele.

Tacquero tutti per una decina di minuti, occupati a riordinare le idee e ad attuare la cosiddetta «intressione», ossia un silenzioso adattamento psichico.

Infine parlò Hagedorn.

— Tutto a un tratto il castello è stato privato dei Mek. È inutile dire che ci troviamo in una scomoda e spiacevole situazione, a cui sarà necessario abituarsi il più in fretta possibile. Credo che su questo siate tutti d’accordo con me.

Si guardò intorno e tutti i presenti spinsero in avanti le tavolette d’avorio scolpito in segno di consenso. Tutti meno Claghorn, che si astenne da qualsiasi gesto.

Prese allora la parola Isseth, un severo nobiluomo sessantenne, ancora splendido nei suoi capelli bianchi.

— Non vedo nessuna ragione per pensare o aspettare. Quello che dobbiamo fare è fin troppo evidente. È vero che i Contadini non costituiscono un grande esercito, ma li dobbiamo radunare ed equipaggiare con sandali, camici e armi, in modo da renderli decorosi, e infine li dobbiamo affidare a un valido comandante. O.Z. Garr oppure Xanten andrebbero bene. Potremmo servirci degli Uccelli per individuare i fuggitivi, inseguirli e comandare ai Contadini di sconfiggerli e di farli tornare a casa all’istante.

Xanten, che per essere un capo clan era incredibilmente giovane con i suoi trentacinque anni, cedendo alla sua nota impulsività scosse la testa.

— È una bella idea, ma non la si può concretizzare. I Contadini non riusciranno mai ad avere la meglio sui Mek, per quanto addestrati possano essere.

Era vero. I Contadini, piccoli andromorfi provenienti da Spica Dieci, non solo erano timidi, ma soprattutto incapaci di agire con durezza.

La tavola piombò in un cupo silenzio, interrotto infine da O.Z. Garr.

— Se avessimo ancora gli energovagoni, come mi divertirei a disperdere con la frusta e a far sobbalzare quelle bestie per farle tornare a casa!

— A farmi pensare è lo sciroppo — riprese Hagedorn. — I Mek se ne sono portati con sé il più possibile, ma quando lo avranno finito… cosa faranno? Si lasceranno morire di fame? Non potranno più tornare alle vecchie abitudini alimentari. Cosa mangiavano una volta? Fango di palude? Claghorn, siete voi l’esperto in materia. Potrebbero tornare a mangiare fango?

— No — rispose Claghorn. — Gli organi degli adulti si sono atrofizzati. Forse, i piccoli potrebbero farcela.

— Proprio come avevo supposto. — Hagedorn fece una smorfia incredibile, guardandosi le mani intrecciate per cercare di non far capire agli altri la sua completa mancanza di proposte.

Comparve sulla soglia un nobiluomo vestito di blu scuro, il colore dei Beaudry. Sollevò il braccio destro e si inchinò, facendo sfiorare alle dita il pavimento.

Hagedorn si alzò.

— Prego, B.F. Robarth, avanti. Che novità ci portate? — Questo, infatti, indicava la genuflessione del nuovo arrivato.

— Un messaggio da Halcyon. I Mek hanno attaccato il castello e stanno uccidendo tutti. La radio ha smesso di comunicare un minuto fa.

Tutti si volsero di scatto e alcuni si alzarono dalle sedie.

— Un massacro? — gracchiò Claghorn.

— Sono certo che Halcyon non esiste già più.

Claghorn restò seduto, con gli occhi fissi nel vuoto. Gli altri iniziarono a parlare con voci rese gravi dall’orrore.

Hagedorn cercò di richiamare all’ordine i membri del Consiglio.

— Siamo di fronte a una situazione gravissima… probabilmente la più grave dell’intera nostra storia, e confesso di non sapere cosa fare.

— E gli altri castelli? — chiese Overwhele. — In quali condizioni sono?

Hagedorn si girò verso B.F. Robarth.

— Per piacere, cercate di stabilire un contatto radio con tutti i castelli per sapere delle loro condizioni.

— Gli altri castelli sono vulnerabili come Halcyon, soprattutto Isola del Mare, Delora e forse Marval — gli rispose Xanten.

Claghorn si riscosse, tornando alla realtà.

— I nobili di quei castelli dovrebbero pensare di trasferirsi qui o a Janeil finché la situazione non sarà di nuovo sotto controllo.

Alcuni di quelli seduti intorno al tavolo lo fissarono stupiti e dubbiosi. O.Z. Garr chiese, con la sua voce più soave: — Come fate a pensare a dei gentiluomini in fuga davanti a degli esseri inferiori di tal fatta?

— Mi sembra naturale, se vogliono sopravvivere — rispose educatamente Claghorn. Era un uomo sulla soglia della vecchiaia, forte e robusto con i capelli striati d’argento e due magnifici occhi verdi. I suoi modi facevano pensare a un grande autocontrollo. — È vero che fuggire significa perdere parte della dignità — proseguì. — E se O.Z. conosce un modo più elegante per darsela a gambe sono ben felice di impararlo, e così dovrebbero fare tutti, perché nei prossimi tempi una simile capacità potrebbe rivelarsi molto utile.

Hagedorn si inserì nella conversazione senza lasciare a O.Z.Garr il tempo di replicare.

— Non divaghiamo. Ammetto che neppure io riesco a immaginare come finirà. I Mek si sono rivelati degli assassini: come potremmo pensare di riprenderli tra di noi? Però, se non lo faremo… be’ ecco, la situazione sarà a dir poco grigia fino a che non troveremo e addestreremo dei nuovi tecnici. Ecco a cosa dobbiamo pensare.

— Le astronavi! — esclamò Xanten. — Per prima cosa dobbiamo pensare alle astronavi!

— Cosa sarebbe questa novità? — domandò Beaudry, con il volto duro come un macigno. — Cosa significa «dobbiamo provvedere»?

— Devono essere protette sotto tutti gli aspetti! Cos’altro? Sono il nostro legame con i Mondi Patrii. Può darsi che i Mek incaricati della loro manutenzione non se ne siano andati, dal momento che, se intendono sterminarci, devono per forza tenerle sotto controllo.

— Intendereste marciare con i Contadini verso le rimesse? — insinuò O.Z. Garr con alterigia. La rivalità e l’antipatia con Xanten era di vecchia data e reciproca.

— Potrebbe essere la nostra unica speranza — ribatté Xanten. — Comunque… come si fa a combattere con i Contadini? Farei molto prima a recarmi di persona alle rimesse per compiere un sopralluogo e magari nel frattempo voi e altri esperti militari potreste darvi da fare per reclutare e addestrare un esercito di Contadini.

— Quanto a questo — lo informò Garr — sto aspettando l’esito delle consultazioni in corso. Se risulterà evidente che non c’è soluzione migliore, metterò a disposizione tutta la mia competenza in materia. E se le vostre doti migliori consistono nello spiare le attività dei Mek, fareste bene a fare altrettanto.

I due si scambiarono sguardi roventi. Appena un anno prima erano stati a un passo dal duello. Xanten, alto e snello, si distingueva per il suo infallibile istinto naturale, ma per il resto era troppo libertino per essere giudicato elegante. Strosso, lo definivano i conservatori, intendendo con tale appellativo evidenziare la sua fiacchezza e la sua mancanza di precisione. Insomma, non era il tipo da eleggere capo clan.

Comunque la risposta che diede a Garr fu abbastanza educata.

— Mi accollerò volentieri questo incarico e dal momento che bisogna agire in fretta, sopporterò di essere ritenuto troppo avventato e partirò immediatamente. Mi auguro di poter essere di ritorno per domani con qualche informazione. — Si alzò, si inchinò cerimoniosamente verso Hagedorn e se ne andò, salutando con un unico saluto onnicomprensivo tutti gli altri presenti.

Si diresse verso il Palazzo di Esledune, dove abitava al tredicesimo livello in un appartamento arredato in stile Quinta Dinastia, lo stile dell’epoca dei Pianeti Patrii di Altair, da cui gli uomini si erano mossi per tornare sulla Terra. Araminta, la sua attuale compagna, era fuori casa per faccende sue personali, cosa di cui si rallegrò immensamente. Dopo un’assillante serie di domande, lei sarebbe infatti arrivata alla conclusione che la sua spiegazione non aveva alcun valore, se non quello di nascondere un incarico da svolgere nella casa di campagna. A dire il vero era stanco di Araminta ed era sicuro che anche lei provava lo stesso: forse si era aspettata di più dal suo alto rango, soprattutto più brillanti funzioni sociali. Non avevano figli. La figlia che Araminta aveva avuto dal precedente compagno era stata calcolata a lei, quindi un secondo figlio sarebbe stato suo, impedendogli in tal modo, in base alle leggi del castello, di generarne altri.

Xanten si tolse gli abiti gialli che aveva indossato per il Consiglio e, aiutato da un giovane Contadino, indossò dei pantaloni da caccia giallo-scuro profilati di nero, una giacca nera e un paio di stivali dello stesso colore. Si calò sulla testa un morbido berretto di pelle nera e si mise una borsa su una spalla, nella quale ripose le armi: una lama a molla e una pistola a energia.

Lasciato l’appartamento scese all’armeria del primo livello, dove, fino a poco prima, avrebbe trovato un Mek pronto a servirlo. Adesso, invece, Xanten dovette andare personalmente dietro il bancone e cercare dappertutto con immenso disgusto. I Mek si erano portati via la maggior parte dei fucili da caccia, tutti gli eiettori di pallottole e le pistole a energia di un certo peso. Era un cattivo presagio, pensò Xanten. Finalmente trovò una sferza d’acciaio, dei proiettili a energia per la sua pistola, delle granate incendiarie e un potentissimo cannocchiale.

Tornò all’ascensore e si portò al livello più alto, immaginando malinconicamente la faticosa salita sulle scale che lo aspettava nel momento in cui il meccanismo dell’ascensore si fosse rotto senza un Mek pronto a ripararlo. Pensando agli apoplettici furori dei conservatori intransigenti quali Beaudry gli venne da ridere: che giorni li aspettavano!

Arrivato all’ultimo livello si avvicinò ai parapetti, diretto verso la sala radio. Anche lì solitamente erano presenti tre specialisti Mek che per mezzo di fili collegati dall’apparecchio alle loro branchie battevano a macchina i messaggi appena arrivavano. Ora davanti alla radio c’era B.F. Robarth, che stava cercando di capire il funzionamento delle manopole, pieno di disgusto e di disprezzo per quel lavoro.

— Novità? — chiese Xanten.

B.F. Robarth sogghignò.

— Credo che quelli all’altro capo del filo non conoscano questo apparecchio molto meglio di me. Ogni tanto riesco a captare qualche cosa. Credo che i Mek stiano attaccando Castel Delora.

— Cosa? Castel Delora è caduto? — domandò Claghorn, che era entrato nella stanza dietro Xanten.

— Non è ancora stato sconfitto, Claghorn, ma non ci sono speranze. A essere sinceri, le mura di quel castello, per quanto molto pittoresche, sono assai fragili.

— Che situazione nauseante! — mormorò Xanten. — Come possono degli esseri senzienti compiere azioni tanto crudeli? Dopo tutto questo tempo! Quanto poco li conoscevamo! — Stava ancora parlando quando si rese conto di essere stato del tutto privo di tatto. Claghorn aveva speso la maggior parte della sua vita a studiare i Mek.

— L’azione in sé non è poi così incredibile — replicò asciutto Claghorn — anzi, è già successa migliaia di volte nella storia umana.

Leggermente stupito di quell’accenno alla storia degli uomini a proposito di esseri inferiori, Xanten chiese: — Ma non era mai saltato fuori questo aspetto della loro natura?

— Mai. Davvero.

Claghorn era troppo suscettibile, sospettò Xanten, ma in fin dei conti era più che comprensibile. La sua teoria, illustrata durante la campagna elettorale di Hagedorn, non era per niente semplicistica. Xanten non la capiva e non era d’accordo con i suoi apparenti scopi. Era comunque lampante che la rivolta dei Mek aveva fatto franare tutte le costruzioni di Claghorn, mentre aveva dato ragione alle teorie conservatrici di Garr.

— Il modo di vita che avevamo non sarebbe potuto comunque continuare per sempre — disse Claghorn conciso. — È già durato molto.

— Può darsi — commentò Xanten suadente. — Comunque adesso non ha importanza. Tutto cambia. Come si fa a sapere? E magari i Contadini stanno per avvelenare il nostro cibo… Devo andare. — Si inchinò a Claghorn ricevendone in cambio un secco cenno del capo, quindi a B.F Robarth, infine uscì dalla sala radio.

Con una scaletta a chiocciola poco più grande di una scala a pioli si arrampicò fino ai ripari nei quali vivevano gli Uccelli, immersi nel caos più totale. Questi trascorrevano il loro tempo giocando d’azzardo, bisticciando o dedicandosi a uno strano tipo di passatempo simile agli scacchi, le cui regole nessuno era mai riuscito a capire.

A Castel Hagedorn vivevano cento Uccelli, custoditi da pazientissimi Contadini che ricevevano tutto il loro disprezzo. Si trattava di creature garrule, gialle, rosse o azzurre, dotate di un lungo collo e di una testa curiosa che si muoveva fulmineamente. Possedevano un’innata irriverenza che neppure la più rigida delle discipline e degli addestramenti riuscivano a controllare. Appena videro Xanten, commentarono beffardamente.

— C’è uno che vuole un passaggio. È pesante!

— Perché non fai spuntare le ali dai piedi?

— Non fidarti mai di un Uccello! Ti porteremo in alto nel cielo e poi ti faremo precipitare!

— Zitti! — urlò Xanten. — Voglio sei uccelli veloci e silenziosi per affidargli una missione della massima importanza. Qualcuno se la sente di assumersi tale incarico?

— Domanda se qualcuno è capace di farlo!

— Un ros ros! Ma se nessuno di noi vola da una settimana!

— Zitti noi? Sarai tu a dover stare zitto, giallo e nero!

— E allora vieni tu, sì, tu con quegli occhi tanto da furbetto. E poi tu, con la spalla piegata, e tu, con il pompon verde. Al canestro.

I prescelti si lasciarono colmare i sacchi di sciroppo dai Contadini coprendoli di frasi sarcastiche e insulti, quindi svolazzarono fino alla portantina di vimini nella quale aspettava Xanten.

— Andiamo al deposito spaziale di Vincenne. Dobbiamo cercare di capire se hanno danneggiato le astronavi.

— Al deposito, allora!

Gli Uccelli afferrarono le corde dell’intelaiatura e la portantina si sollevò con un brusco strattone provocato apposta per far sobbalzare Xanten. Gli uccelli presero il volo ridendo, accusandosi a vicenda di non fare abbastanza per sostenere il peso… infine si adattarono a quell’incarico e iniziarono a volare sbattendo le ali contemporaneamente. La loro garrulità diminuì, con grande sollievo di Xanten, e si diressero verso Sud viaggiando a ottanta-novanta chilometri l’ora. La giornata stava per finire e la campagna, teatro di andirivieni, trionfi e sventure, era coperta da lunghe ombre nere. Guardandola, Xanten rifletté che nonostante la Terra fosse la patria dell’uomo e nonostante i suoi predecessori più vicini avessero cercato di mantenerla immutata, essa appariva ancora estranea.

Il motivo di quello, comunque, non era affatto un mistero. Dopo la Guerra delle Sei Stelle, gli uomini erano rimasti lontani dalla Terra per tremila anni, fatta eccezione per un pugno di disgraziati derelitti che non si sa come erano sopravvissuti al cataclisma diventando dei Nomadi semibarbari. Settecento anni prima, alcuni nobili di Altair, sulla scia di delusioni politiche e spinti dal capriccio, avevano deciso di tornare e avevano in tal modo dato origine alle nove grandi fortezze nelle quali vennero a vivere le loro famiglie gentilizie e alcuni andromorfi specializzati… Xanten vide alcuni scavi che avevano riportato alla luce una piazza lastricata di bianco, un obelisco spezzato, una statua abbattuta… Per una strana associazione di idee quelle immagini spinsero Xanten a fantasticare tanto che si ritrovò a guardare quella terra un tempo così grande con occhi nuovi. Vide i Nomadi respinti nelle zone selvagge e ovunque campi coltivati dagli uomini.

Ma proprio in quel frangente una visione del genere era assurda e Xanten, seguendo con lo sguardo i molli contorni della Vecchia Terra si soffermò a pensare alla rivolta dei Mek, che aveva cambiato tanto e tanto rapidamente la sua vita.

Era molto che Claghorn li metteva in guardia sulla caducità di ogni situazione, sostenendo che quanto più le circostanze erano complicate, tanto più in fretta erano suscettibili di cambiamento. Se era vero, i settecento anni di vita di Castel Hagedorn, vita stravagante e complessa, erano già di per sé una cosa stupefacente. Claghorn era andato ancora oltre e affermava che essendo il mutamento inevitabile i nobili dovevano attutirlo e prevederlo controllando i cambiamenti. Questa teoria era stata violentemente avversata. I conservatori accusavano le idee di Claghorn di fallacia e le confutavano mostrando la stabilità della vita del castello. Xanten aveva dato ragione prima agli uni, poi agli altri, senza lasciarsi però coinvolgere troppo nella diatriba. Per reazione al conservatorismo di Garr aveva abbracciato le teorie di Claghorn, e ora gli eventi gli stavano dando ragione. Il cambiamento era arrivato improvviso e violento.

Erano ancora molte le domande che non avevano avuto una risposta. Per quale motivo i Mek avevano scelto quel momento per mettere in atto la loro rivolta? La situazione era stagnante da ben cinquecento anni e mai i Mek avevano dato anche il minimo segno di insofferenza. A dire il vero non avevano mai manifestato i loro veri sentimenti e nessuno si era mai preoccupato di conoscerli, tranne Claghorn.

Gli Uccelli stavano deviando verso Est, in modo da evitare le Montagne di Ballarat, oltre le quali si estendevano le rovine di una grande città non ancora identificata. Là si allargava la valle di Lucerne, una volta fertile e coltivata. Guardandola attentamente si potevano ancora vedere i confini delle diverse tenute. Più oltre si intravvedevano le rimesse delle astronavi, nelle quali i tecnici Mek mantenevano in perfetta efficienza quattro navi, comune possesso di Hagedorn, Janeil, Tuang, Luce del Mattino e Maraval. Per diversi motivi ultimamente non erano mai state usate.

Il sole era al tramonto e la sua luce arancione faceva scintillare e lampeggiare le pareti metalliche. Xanten urlò degli ordini agli Uccelli.

— Abbassatevi in cerchio e atterrate dietro quegli alberi, senza farvi vedere.

Gli Uccelli compirono un’ampia curva con le loro ali rigide e perdendo quota si protesero verso terra con il collo sgraziato. Xanten era pronto all’impatto con la terra: pareva che quelle bestie non riuscissero mai ad atterrare dolcemente quando avevano la responsabilità di un nobiluomo. Quando invece trasportavano qualcosa di personale sapevano toccare terra con tanta delicatezza da non far vibrare neanche la lanugine dei denti-di-leone.

Xanten riuscì a mantenere l’equilibrio contro ogni aspettativa degli Uccelli.

— Bevete pure il vostro sciroppo, riposatevi, ma senza far rumore e senza litigare — li ammonì. — Se per domani sera non sarò di ritorno andatevene e riferite a Castel Hagedorn che Xanten è morto.

— Non temere — urlarono gli Uccelli. — Ti aspetteremo per sempre!

— Chiedo solo fino a domani sera!

— Se sarai in pericolo o in difficoltà… un ros ros! Chiamaci!

Ros! Quando ci arrabbiamo siamo tremendi!

— Vorrei che fosse la verità — disse Xanten. — E invece lo sanno tutti che siete dei codardi. Comunque apprezzo il vostro gesto. Tenete bene a mente le mie istruzioni e soprattutto non fate baccano. Non voglio essere assalito e magari ucciso per colpa vostra.

Gli Uccelli urlarono indignati.

— Che ingiustizia! Che ingiustizia! Noi che siamo silenziosi come la rugiada!

— Bene — Xanten se ne andò in fretta, prima che quelli gli urlassero altri avvertimenti.

Oltrepassò la foresta giungendo in un pascolo aperto, sull’altro lato del quale si ergeva il primo edificio delle rimesse. Si fermò a pensare. Molte cose erano importanti. Innanzitutto c’era la possibilità che i Mek addetti alle astronavi, non potendo tenersi in contatto radio con gli altri a causa della struttura metallica, non sapessero ancora della rivolta. Era molto improbabile, stabilì Xanten, dal momento che i Mek preparavano i loro piani molto meticolosamente. In secondo luogo bisognava tener presente che i Mek non agivano singolarmente ma come entità collettiva; isolati individui non prendevano facilmente l’iniziativa. Infine era chiaro che se i Mek si aspettavano dei tentativi di avvicinamento alle astronavi il percorso che lui intendeva compiere era perfettamente sotto il loro controllo.

Decise di aspettare per una decina di minuti, in modo che il sole, calando, abbagliasse la vista delle sentinelle.

I dieci minuti passarono. Le rimesse alte e lunghe, brunite dal sole morente, erano immerse nel silenzio. Nel pascolo che lo divideva da loro l’erba dorata ondeggiava alla brezza fresca… Xanten respirò a fondo, prese le armi dalla borsa, le preparò e iniziò a camminare. Non gli venne neanche in mente che avrebbe potuto gettarsi a carponi tra l’erba.

Arrivò senza problemi alla parte retrostante della rimessa più vicina. Avvicinò l’orecchio al metallo ma non sentì nulla. Allora si diresse verso l’angolo e sporse il capo per vedere: non c’era anima viva. Sollevò le spalle: molto bene, alla porta!

Si avviò, costeggiando la rimessa, mentre il sole gettava davanti a lui una lunga ombra nera. Arrivò alla porta dell’ufficio amministrativo e non avendo nulla da guadagnare a mostrarsi guardingo entrò sbattendo il battente.

Gli uffici erano deserti. Le scrivanie alle quali per secoli si erano seduti impiegati intenti a controllare fatture e bollette erano spoglie e prive di polvere. I calcolatori e i banchi-dati, di vetro e di smalto nero, sembravano arrivati il giorno prima.

Xanten attraversò la stanza diretto verso la grande lastra di vetro che lasciava vedere l’interno della rimessa.

Non c’era neanche un Mek. Però sul pavimento della rimessa erano disposti in file ben ordinate pezzi premontati dei comandi dell’astronave. I pannelli di servizio, aperti, mostravano le cavità dalle quali quei congegni erano stati tolti.

Xanten entrò nella rimessa. L’astronave era stata resa inutilizzabile. Guardò i pezzi disposti ordinatamente. Alcuni studiosi di vari castelli conoscevano bene la teoria del trasferimento spazio-temporale e addirittura S.X. Rosenbox di Marval aveva ricavato una serie di equazioni che, una volta tradotte in macchinari, sarebbero riuscite a eliminare il fastidioso effetto Hamus. Ma nessun nobile, pur mettendo da parte l’orgoglio e abbassandosi a prendere in mano un utensile, sarebbe stato in grado di sistemare, collegare e far funzionare quei congegni ammucchiati per terra.

Quella bell’impresa era stata fatta… quando? Non avrebbe saputo dirlo.

Xanten tornò nell’ufficio, lo attraversò e uscì dirigendosi verso la rimessa più vicina. I Mek non c’erano neanche lì e l’astronave aveva subito la stessa sorte dell’altra. Passò alla terza rimessa e trovò la medesima situazione.

Avvicinatosi alla quarta rimessa, invece, avvertì dei rumori attutiti. Entrato nell’ufficio vide tramite la parete di vetro i Mek che lavoravano come al solito con movimenti molto controllati in un silenzio strano e sconcertante.

Xanten, già infastidito per essersi dovuto muovere di soppiatto nella foresta, fu invaso dall’ira a vedere quella distruzione della sua proprietà. Entrò nella rimessa e picchiandosi una mano sulla coscia per attirare la loro attenzione urlò: — Rimettete subito a posto tutti quei congegni! Come osate comportarvi così, vermi?

I Mek volsero verso di lui i loro visi inespressivi guardandolo attraverso i grappoli di lenti nere che avevano ai lati del capo.

— Come? — urlò Xanten. — Esitate? — Fece schioccare la sferza d’acciaio sul pavimento, anche se ormai era diventata più un simbolo che un vero strumento di dolore. — Fate quello che vi ho detto! È finita la vostra rivolta!

I Mek erano ancora immobili e la situazione restava incerta. Non emettevano il minimo rumore, sebbene stessero comunicando tra di loro per decidere il da farsi. Ma Xanten non poteva sopportarlo. Avanzò a passo marziale con la sferza stretta in pugno e colpì i Mek nel loro punto debole: il volto corrugato.

— Al lavoro! — ruggì. — Ma che squadra di manutenzione siete mai! Sarebbe meglio parlare di squadra di distruzione!

I Mek emisero quel loro leggero suono soffiante che poteva significare qualsiasi cosa. Arretrarono e Xanten si accorse che uno di loro se ne stava in cima alla passerella dell’astronave. Era il Mek più grosso che avesse mai visto, ed era anche visibilmente diverso dagli altri. Stava puntandosi alla testa una pistola a pallottole. Con la massima calma Xanten colpì un altro Mek che si era fatto avanti e senza neanche prendere la mira sparò contro quello che stava immobile sulla passerella. Nello stesso istante una pallottola gli sfiorò sibilando la testa.

I Mek lo attaccarono avanzando tutti insieme. Disinvoltamente appoggiato allo scafo dell’astronave, Xanten li mise a terra a mano a mano che si facevano sotto, spostando all’occorrenza la testa per schivare una scheggia di metallo, o alzando un braccio per prendere al volo un coltello e gettarlo in faccia a chi lo aveva scagliato.

I Mek indietreggiarono e Xanten capì che si erano accordati su una tattica differente, anche se non gli era ancora chiaro se intendessero ritirarsi per recuperare le armi o per bloccarlo nella rimessa. A colpi di sferza si fece strada verso l’ufficio. Mentre alle sue spalle i Mek infrangevano la lastra di vetro attraversò la grande stanza e uscì all’aria notturna.

Stava sorgendo la luna piena, un enorme globo giallo che emanava una luminosità diffusa color zafferano, come una lampada antica. I Mek non si muovevano bene in assenza di luce e Xanten li aspettò dietro la porta. Appena uscivano, li colpiva al collo.

Quelli si ritrassero allora all’interno e Xanten, pulita la lama, se ne andò velocemente senza guardarsi intorno. A un certo punto si fermò, di colpo. Era appena calata la notte e qualcosa gli infastidiva la mente: il pensiero di quel Mek che gli aveva sparato. Se lo ricordava più grande degli altri e forse anche più scuro di pelle. In particolare gli era parso che avesse una certa autorità… anche se, per i Mek, era una parola assurda. Del resto qualcuno che aveva organizzato la rivolta c’era pure, qualcuno che per lo meno l’avesse concepita. Sarebbe stato meglio approfondire la cosa, anche se ormai la sua missione era terminata: aveva appreso tutto quello che gli interessava sapere.

Tornò sui suoi passi, attraversò la pista d’atterraggio e si diresse verso i garage. Nuovamente infastidito si rese conto che era meglio muoversi con cautela. Ma che tempi erano mai quelli, nei quali un nobile doveva girare di soppiatto per evitare l’incontro con i Mek! Sgattaiolò dietro i garage, dove una mezza dozzina di energovagoni erano immersi nel sonno.

Xanten si fermò a guardarli con attenzione. Erano simili tra loro, con quella struttura metallica a quattro ruote e, davanti, il vomere per aprire la terra. Lì vicino doveva esserci la riserva dello sciroppo e infatti ne trovò subito diversi recipienti. Ne caricò una dozzina sull’energovagone e tagliò gli altri con il coltello, per far riversare a terra lo sciroppo. Ma non era quello dei Mek: aveva una formula leggermente diversa. Probabilmente l’altro lo tenevano nelle caserme.

Xanten salì su un energovagone, girò la chiavetta del quadro e lo mise in moto facendolo andare all’indietro. L’energovagone si mosse pesantemente. Xanten lo diresse verso le caserme e poi fece altrettanto con gli altri. Uno dopo l’altro li mise tutti in moto. Con la loro avanzata provocarono squarci nelle pareti di metallo delle caserme, facendo vacillare persino il tetto. Continuarono ad avanzare attraversando gli edifici e stritolando tutto quello che ostacolava loro la strada.

Xanten fece un cenno d’assenso con grande soddisfazione e tornò verso l’energovagone che aveva lasciato per sé. Vi salì e aspettò. Nessun Mek uscì dalle caserme. Molto probabilmente erano tutti impegnati nelle rimesse. Riteneva che la maggior parte delle scorte di sciroppo fossero state distrutte e in tal caso la maggior parte di loro sarebbe morta di fame.

Un solo Mek uscì all’aperto, evidentemente incuriosito dal rumore. Xanten si abbassò sul sedile e quando quello gli passò accanto lo avvinghiò al collo con la sferza. Il Mek cadde a terra rotolando.

Xanten scese a sua volta dall’energovagone e si impossessò della pistola a pallottole. Notò subito che era grosso… e che era privo del sacco dello sciroppo. Un Mek originario, incredibile! Come poteva essere sopravvissuto? Ma ecco che all’improvviso gli si creavano nuovi problemi. Sperando di poterne risolvere qualcuno subito recise le antenne che spuntavano dalla parte posteriore della testa di quell’essere. Adesso il Mek era isolato, lasciato solo a se stesso… una situazione che rendeva apatico anche l’individuo più energico di quella razza.

— Forza — ordinò Xanten facendo schioccare la frusta. — Sali sul vagone.

All’inizio sembrò che il Mek fosse deciso a sfondarlo, ma dopo qualche frustata si arrese. Xanten risalì sull’energovagone e mise in moto, indirizzandolo verso Nord. Gli Uccelli non avrebbero potuto trasportare entrambi contemporaneamente, per lo meno avrebbero urlato e si sarebbero lamentati tanto che era forse il caso di prenderli sul serio. Chissà se avevano aspettato l’ora stabilita o se erano andati via subito. L’ipotesi più probabile era che avessero dormito tutta la notte su un albero e, risvegliatisi di pessimo umore, se ne fossero andati subito diretti a Castel Hagedorn.

L’energovagone avanzò pesantemente per tutta la notte, guidato da Xanten e con il prigioniero rannicchiato dietro.

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