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Il tubo di lancio per il personale di bordo era formato da un cilindro in lega leggera, lungo cinque metri, composto di varie sezioni unite una all’altra e privo di qualsiasi sporgenza. Puntava in avanti, in modo da rappresentare una continuazione dell’asse dello scafo; la carica che lanciava il proiettile umano nello spazio, esercitava una identica spinta verso la parte posteriore, in modo da evitare la necessità di correzioni di rotta. In quel caso, dato che gli astronauti non potevano servirei dei sistemi di puntamento visivi, dovevano puntare l’intero scafo sul bersaglio indicato dal radar.

Berryman infilò l’imbracatura di lancio nella prima sezione del tubo, poi, mentre Walters portava a termine il puntamento, aiutò McCullough ad assumere la giusta posizione entro il bizzarro congegno. Strano che McCullough lo considerasse ora un bizzarro congegno. Sulla Terra, dopo averne studiato il meccanismo e il sistema di manovra, e dopo aver visto film dimostrativi, l’aveva considerato ingegnoso e del tutto sicuro.

L’imbracatura vera e propria era una sottile incastellatura di tubi metallici costruiti nel cilindro cavo che aderiva al tubo di lancio, con i contenitori panciuti dell’ossigeno e il sistema di propulsione da una parte e lo spazio per l’uomo dall’altra.

Una volta che l’astronauta era assicurato all’imbracatura, le braccia incrociate dietro e le gambe piegate al ginocchio, e tenuto in posizione da speciali cinghie, il congegno cominciava ad assumere un aspetto più simmetrico. Con l’uomo attaccato il centro della spinta coincideva circa con il centro di gravità. In questo modo, dopo il lancio, l’intero apparecchio aveva solo una leggera tendenza a roteare su se stesso.

— La spinta di lancio vi farà viaggiare a una velocità di circa venti chilometri all’ora — gli disse Berryman, per la terza o quarta volta. — Così, se abbiamo mirato giusto e se finirete contro il P-Uno, a questa velocità sarà come finire di corsa contro una parete. Potreste farvi male, danneggiare o lacerare la tuta, e anche provocare danni all’altro scafo.

— Non scherzate su queste cose, Berryman! Tra l’altro, finirete col renderlo nervoso.

— Non sto scherzando, colonnello — disse il pilota. Poi tornò a parlare con McCullough. — Io volevo solo consigliarvi prudenza, dottore; non volevo innervosirvi. Ricordatevi soltanto di controllare in tempo la vostra velocità rispetto all’altro scafo. Cominciate la decelerazione a circa un chilometro e mezzo di distanza, e non fermatevi troppo vicino. A questo punto vi potete spostare con i vostri motori a gas. Ne avete a sufficienza per fare tutti i movimenti che volete. Avete aria per sei ore, e il viaggio durerà circa tre ore e mezzo, dato che P-Uno si trova a settantacinque chilometri di distanza.

— Supponiamo che dopo tre ore e mezzo io non veda lo scafo — obiettò McCullough. — È molto piccolo e…

— Supposizioni pessimistiche, che si convengono a un illustre psicologo — commentò Walters torvo.

— Siete pronto a partire, dottore? — chiese Berryman. — Datemi dieci minuti per rientrare e controllare il puntamento radar. Walters, state lontano dal tubo.

Il lancio, in se stesso, fu piacevole; fu come una specie di forte spinta, che ricordò a McCullough i primi secondi di salita in un ascensore molto veloce. L’uomo si staccò dal tubo di guida e cominciò a roteare lentamente su se stesso.

Liberò rapidamente le braccia e le gambe dalle cinghie di sicurezza, e quando il P-Due tornò nel suo campo visivo, le allargò per frenare il movimento rotatorio. Walters e Berryman rimasero in silenzio, ma, attraverso la cuffia, McCullough poteva sentire il loro respiro. Rimase in silenzio anche lui. Lo scafo cambiò lentamente dimensioni. Non sembrava allontanarsi da lui, diventava semplicemente più piccolo. Il tubo di lancio venne smontato e i due piloti rientrarono nel portello prima che la distanza trasformasse lo scafo in un triangolo argenteo dai contorni confusi.

Poco prima che sparisse completamente, McCullough girò su se stesso fino a che si venne a trovare con la faccia orientata nella direzione verso cui stava andando, e cominciò a cercare lo scafo di Morrison, anche se sapeva che non lo avrebbe scorto per almeno altre due ore.

Il colonnello gli aveva suggerito di dormire e di lasciare il ricevitore aperto al massimo volume; lo avrebbe svegliato lui stesso al momento giusto. McCullough non aveva voluto seguire il consiglio per due motivi. Per prima cosa, non voleva essere intontito dal sonno durante le fasi di avvicinamento al P-Uno. Le manovre richiedevano la massima lucidità. L’altra ragione la tenne per sé. Era dovuta alla paura di svegliarsi e non trovare lo scafo, senza più la possibilità, o la speranza, di venire soccorso. Solo…

Sapeva perfettamente che il cavo di sicurezza era attaccato alla sua cintura, e che l’altra estremità non era attaccata a niente.

Ma si trattava soltanto dell’inizio…


Nelle condizioni di mancanza di peso, per tenere le braccia e le gambe distese non era necessario nessuno sforzo, e in quella posizione il movimento di rotazione su se stessi veniva ridotto al minimo. Ma, a poco a poco, la posizione cominciò a diventare scomoda, ridicola e, per qualche oscura ragione, insicura. Tutto attorno stavano sospese le stelle, luminose, vicine e stupende; ma l’oscurità che si stendeva fra loro era infinita. McCullough cercò di convincersi di essere felice di trovarsi nello spazio, assicurò a se stesso che niente lo minacciava, che non aveva motivo di essere terrorizzato, e che nessuno poteva vedere la sua paura, nel caso fosse visibile.

Era completamente solo.

Gradatamente la velocità della rotazione si fece più rapida; allora McCullough piegò rapidamente le braccia e le gambe, fino al momento in cui venne a trovarsi con le ginocchia schiacciate contro lo stomaco, e con le braccia incrociate e tirate sul petto quanto lo concedeva la presenza della tuta. Ma fu soltanto quando si rese conto di avere gli occhi serrati con forza che McCullough cominciò a domandarsi cosa gli stava succedendo con esattezza.

Cercò disperatamente di riprendere il controllo di se stesso, in ogni senso.

Ma, per qualche strana ragione, il suo corpo era andato oltre il governo della sua mente, proprio come i diversi strati della sua mente avevano superato il controllo della sua volontà.

Sentiva, anziché pensare. Aveva l’impressione di essere un’enorme spugna asciutta che si imbeve fino a saturarsi di solitudine. La solitudine puramente soggettiva del sentirsi solo e ignorato in mezzo a una folla, la grande solitudine del trovarsi su una spiaggia deserta, dove gli insensibili fenomeni naturali del vento e delle onde premono tutto attorno, e la spaventosa sensazione di solitudine che prova un bambino nel buio della notte, quando crede, a torto o a ragione, di essere indesiderato e senza affetti. McCullough provava un senso di solitudine distillato, concentrato e perfettamente raffinato. Ogni sensazione provata nelle sue precedenti esperienze, appariva al confronto con questa, una leggera scottatura solare confrontata con le ustioni di terzo grado.

Si rannicchiò ancora di più, mentre le invisibili stelle continuavano a roteargli attorno e le lacrime calde cercavano di aprirsi un varco tra le ciglia serrate.

Poi la spaventosa percezione di solitudine cominciò a diminuire; o forse era lui che si allontanava da lei. Il roteare senza peso divenne stranamente piacevole: aveva una qualità ipnotica, priva di tempo. La sensazione era paragonabile a quella che si prova un momento dopo un tuffo in acque profonde, quando è impossibile stabilire se si è a testa in giù o meno, e le calde acque del mare sorreggono, proteggono, e stringono…

— Dite qualcosa! — gridò McCullough.

— Qualcosa — disse subito Berryman.

— Siete in difficoltà, dottore? — domandò Morrison.

— No… non proprio, signore — rispose McCullough. — Comunque… adesso sto bene.

— Meno male. Io pensavo che foste addormentato… Siete rimasto in silenzio per oltre due ore. A questo punto dovreste già vedere il nostro scafo.

McCullough allargò le gambe e le braccia per rallentare la rotazione. Le stelle spuntarono maestose dall’alto del visore, raggiunsero il centro, e lentamente scesero per scomparire dietro il bordo inferiore. Quando comparve il sole, McCullough mise una mano davanti agli occhi per proteggere la vista e continuò a scrutare il cielo. Ma i due oggetti che scorse erano troppo luminosi per essere degli scafi. Probabilmente erano Sirio e Giove; ma lui era ancora troppo disorientato per poterlo stabilire con esattezza.

— Non riesco a trovarvi.


Doveva esserci una traccia di panico nel tono della sua voce, perché Morrison rispose all’istante.

— Va tutto bene, dottore. Sul nostro radar vediamo il P-Due con estrema chiarezza. Se foste di molto fuori rotta vedremmo due tracce. Se c’è uno spostamento deve essere minimo. Guardatevi attorno con attenzione.

Passarono circa dieci minuti, poi Morrison fece di nuovo sentire la sua voce.

— Quando vi hanno lanciato, la nostra posizione rispetto al vostro scafo era circa dieci gradi in basso e quindici a destra della stella centrale nella metà destra della W di Cassiopea, oppure in alto e a sinistra della stella centrale a sinistra, nel caso siate rovesciato e vi sembri una M. Usate Cassiopea come punto di riferimento e spostate le ricerche seguendo la linea Perseo, Andromeda e Cepheus… Avete capito? Più vicino siete, più grande può sembrare il nostro spostamento apparente.

“A questo punto dovremmo essere l’oggetto più luminoso in vista. Fra sette minuti e mezzo vi conviene iniziare la decelerazione…”

Se non avesse decelerato, McCullough sarebbe finito oltre il P-Uno, forse anche senza nemmeno vederlo. Ma se avesse decelerato senza vederlo e avesse usato la spinta dei suoi reattori per dirigersi verso la sezione di cielo indicata, correva il pericolo di avviarsi su una rotta tangente o di superare lo scafo a una velocità doppia di quella attuale. In questo caso, dubitava moltissimo che la riserva di aria e la carica dei reattori sarebbero state sufficienti a permettergli di tornare verso lo scafo.

McCullough cercò di non pensarci. Si concentrò tanto da non accorgersi subito di avere nuovamente le ginocchia schiacciate contro lo stomaco e le braccia intrecciate sul petto, e che le stelle gli stavano girando vorticosamente attorno come una tormenta di gioielli. Lanciò un’imprecazione e si allargò ancora una volta a stella di mare, poi concentrò la mente sui cieli che roteavano attorno a lui, e cercò di mettere un certo ordine in quella che era diventata una massa di luci indistinte. Guardò le stelle a testa eretta, poi cercò di immaginarle rovesciate: a poco a poco riuscì a distinguere le forme dei Cacciatori, degli Arcieri, e dei Granchi. Improvvisamente, si rese conto che, oltre a rotolare su se stesso, si era anche girato di fianco; riuscì infatti a identificare Capella, sulla propria sinistra.

Capella si era unita a un compagno molto strano.

McCullough si allineò il più rapidamente possibile con l’oggetto spaziale e infilò le mani e i piedi nelle maniglie e nelle staffe. Poi disse: — Vi ho visti. Comincio la decelerazione.

— Fra otto secondi, dottore. Devo dire che avete fatto appena in tempo… Adesso!

Poco dopo Morrison disse: — Vediamo la fiamma dei vostri reattori, dottore. Ottimo lancio, P-Due.

Dall’altro scafo giunsero le voci di Berryman e di Walters che volevano fare i modesti. Il pericolo precalcolato di decelerazione terminò, e McCullough venne a fermarsi a circa trecento metri dall’altro scafo, dove due uomini stavano già uscendo dal portello. Puntò con precisione e riaccese i reattori per dirigersi lentamente verso lo scafo.

— Dottore — disse Morrison — come sapete, all’interno c’è pochissimo spazio; così, mentre voi date un’occhiata al capitano Hollis, Drew e io restiamo all’esterno a montare il tubo di lancio per il vostro viaggio di ritorno. Fate con calma… entro certi limiti, naturalmente. Forse preferite che non ci sia contatto radio durante la visita al paziente; quindi, quando avrete finito, fateci un segnale con la lampada del portello.

Dopo una breve conversazione, McCullough raggiunse il portello e penetrò all’interno. Venne a trovarsi in una cabina perfettamente identica a quella dell’altro scafo. Anche l’odore era identico. L’unica differenza era data dall’uomo disteso nella cuccetta.

McCullough diede a Hollis una lunga occhiata clinica e piena di simpatia; poi sospirò.

— Cosa vi sentite? — chiese senza nessuna originalità.

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