James White L’astronave del massacro

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Tutto cominciò con un piccolo graffio sulla foto di certe nuvole stellari in Sagittario, la cui presenza venne attribuita alla poca cautela usata nel maneggiare la foto o a un difetto di sviluppo. Ma una secondo foto della stessa zona mostrò un identico graffio, che cominciava nel punto in cui finiva l’altro e proseguiva con una linea inconfondibilmente curva, indice di uno spostamento di traiettoria, e quindi non attribuibile a un corpo celeste naturale.

Immediatamente tutti gli apparecchi destinati alle rilevazioni vennero puntati verso l’oggetto.

I più potenti strumenti ottici segnalarono soltanto un piccolo punto luminoso. Le analisi spettrografiche indicarono una superficie riflettente, fatto che fece pensare a del metallo; le grandi coppe dei radiotelescopi, invece, non segnalarono assolutamente niente. Il presunto scafo si era inserito in un’orbita situata a circa diciotto milioni di chilometri oltre quella di Marte, e non faceva ancora nessun tentativo di mettersi in comunicazione. Venne così presa la decisione di sacrificare la sonda di Giove, nell’intento di raccogliere maggiori informazioni sull’intruso.

Come risultato, la Terra ebbe un’immagine confusa di un vascello che orbitava silenziosamente e, secondo alcuni, in modo implacabile come una gigantesca nave da guerra che navigasse intorno alle coste di una piccola isola. Non lanciava segnali, né rispondeva in alcun modo comprensibile a quelli che le venivano trasmessi. La sonda riuscì a rilevare soltanto che si trattava di un oggetto metallico, siluriforme, con un anello di protuberanze al centro, e che misurava circa mille e cinquecento metri.

Inevitabilmente a qualcuno venne voglia di dare un’occhiata più da vicino; perciò due piccoli scafi da esplorazione vennero rapidamente adattati e preparati per il lancio.


— Io credo — disse Walters con molta serietà — che non siano state prese in seria considerazione le implicazioni filosofiche della cosa. Al presente, l’astronave è un mistero; ma nel momento in cui entreremo in contatto con essa, può diventare un problema. C’è una grande differenza.

— Non proprio — ribatté Berryman, nello stesso tono. — Il problema è semplicemente un mistero spezzato in un certo numero di frammenti maneggevoli, alcuni dei quali sono di solito legati a problemi già risolti. Lontano da me il voler discutere il processo intellettivo di un collega ufficiale, ma la vostra affermazione sa di vigliaccheria mentale.

— Invocare una maggiore precauzione e un’accurata preparazione mentale non è vigliaccheria — insistette Walters. — Se vogliamo discutere i pensieri, io credo che un’eccessiva sicurezza… chiamatela pure coraggio se volete, è già una forma di instabilità che…

— Solo una mente contorta può pensare di insultare un uomo chiamandolo coraggioso! — disse Berryman ridendo. — A me sembra che in questa operazione tutti vogliano fare gli psicologi, tranne gli psicologi. Che ne dite, dottore?

McCullough taceva da alcuni minuti. Si domandava chi era stato quell’idiota che per primo aveva paragonato al volo delle farfalle l’orribile sensazione che provava dentro lo stomaco. Sapeva che gli altri due uomini stavano giocando con le parole e, in quella circostanza, lui poteva soltanto unire la sua voce a quella degli altri. Disse: — Io non sono uno psicologo. Comunque, la mia cuccetta è piena dal momento… in cui ci sono dentro.

— Scusate se v’interrompo, signori — comunicò improvvisamente la Torre di controllo. — Vi devo informare che lo scafo del colonnello Morrison ha subito un’interruzione di tre minuti, a meno diciotto; quindi, il decollo dei due scafi non sarà simultaneo. Ricevuto? Il vostro conto alla rovescia è continuato, ed è a meno sessanta secondi… ora!

— Qui il comandante — disse Berryman. — Ricevuto. Riferite al colonnello che chi arriva per ultimo allo scafo straniero è un…

— Non vi sembra di esagerare nel voler apparire lo scienziato scrupoloso e senza paura, che si permette battute ironiche a pochi secondi dal lancio verso l’ignoto? Mi meraviglio che riusciate ancora a parlare. State nascondendo, sotto una disinvoltura esagerata, una momentanea e comprensibilissima crisi di ansia. Dovete ammetterlo.

— Meno venti secondi. Conto… Diciotto, diciassette, sedici…

— Avete ragione, Walters — sorrise Berryman. — lutti vogliono fare gli psicologi!

— Dodici, undici, dieci…

— Voglio uscire — disse Walters.

— A meno sette secondi? State scherzando. Quattro, tre, due, uno…

L’accelerazione crebbe fino a convincere McCullough che il suo corpo non avrebbe potuto più resistere. Poi aumentò ancora. McCullough sentì i propri bulbi oculari assumere una forma ovoidale e gli parve che lo stomaco gli si schiacciasse con forza contro la spina dorsale. Il fatto che delle creature fragili quanto le farfalle potessero sopravvivere a una pressione così tremenda, lo sorprese; comunque le farfalle stavano tutte svolazzando come impazzite… Poi la pressione diminuì, e lui cominciò a vedere le cose con maggiore chiarezza. Fu anche in grado di guardare fuori.

E proprio in quel momento si irrigidì, paralizzato dalla meraviglia.


Il controllo e la guida dello scafo durante quella criticissima fase del viaggio furono affidati alla responsabilità dei cervelli umani ed elettronici a terra. Il breve periodo di mancanza di peso terminò nel momento in cui si accendeva il secondo stadio, e tre g di accelerazione furono quasi rilassanti, in confronto alla spinta che i passeggeri avevano sopportato nella fase di ascesa. McCullough rimase con la testa girata verso l’oblò, a guardare la splendida linea del tramonto che lasciava il posto a quella distesa completamente buia che era il Pacifico coperto di nubi.

Contro il velluto nero, una piccola stella luminosa pareva allontanarsi dalla Terra. Era lo scafo del colonnello Morrison. McCullough lo capì perché il suo bagliore scomparve tre minuti esatti dopo la separazione del secondo stadio.

Se tutto andava secondo i piani, ora dovevano trovarsi in rotta di collisione con l’Astronave distante cento milioni di chilometri. Un periodo di decelerazione, già calcolato, avrebbe assicurato una collisione lievissima… Ammesso che riuscissero a entrare in collisione: l’Astronave straniera rappresentava infatti l’esempio perfetto di un punto nello spazio. Aveva una posizione, ma non aveva misure definite, né radiazioni avvertibili, né un campo gravitazionale in grado di risucchiarli, nel caso la loro rotta si fosse leggermente spostata!

Il pensiero di mancare completamente il bersaglio rappresentato dallo scafo straniero, o di dover usare nelle ricerche tanto carburante da pregiudicare il rientro a casa, preoccupava di tanto in tanto McCullough che, in simili occasioni, tentava di pensare ad altro.

Non riusciva più a vedere lo scafo di Morrison. O era troppo piccolo per essere scorto a occhio nudo, almeno dall’occhio di un uomo di mezza età e leggermente astigmatico come McCullough, o era nascosto dai riverberi provocati dalle nuvole della stagione monsonica, in atto sull’Africa e il Sud Atlantico. Improvvisamente, il colonnello fece sentire la sua presenza.

— P-Uno chiama P-Due. Rispondete, P-Due. Come ricevete?

— Qui P-Due — disse Berryman, ridendo — vi sentiamo in modo quasi assordante, signore: e chiaro come le note di una tromba d’argento che suoni la sveglia.

— Bastava dire forte e chiaro, Berryman. Troppe parole rappresentano spreco di ossigeno. Avete portato a termine il controllo del sistema di pressurizzazione e di sicurezza?

— Sì, signore. È tutto a posto.

— Bene. Toglietevi le tute e andate a dormire non appena possibile. Usate i sonniferi, se necessario. In questo momento lo considero psicologicamente consigliabile per varie ragioni; quindi, andate a dormire prima che il vostro subconscio maligno si renda conto di avere lasciato il pianeta. È un ordine, signori. Buona notte.

Qualche minuto più tardi, mentre gli altri due lo aiutavano a togliersi la tuta, Walters disse seccamente: — Anche il colonnello si mette a fare lo psicologo, adesso!

E Berryman soggiunse: — Il fatto è che il club di psicologi non è sufficientemente riservato ai soci. Vero, dottor McCullough?

Ma il comandante pilota si sbagliava; McCullough apparteneva, in quel momento, al più esclusivo circolo della Terra: a un circolo riservato soltanto a quegli individui selezionati che, a un certo punto, avrebbero lasciato il suddetto pianeta. E, come in tutti i buoni circoli, o negli ordini monastici, o nell’esercito, c’era un certo numero di regole da seguire. Perché anche in quei giorni i membri di un equipaggio potevano trovarsi in guai seri, molto seri.

Quando succedeva una cosa del genere, loro dovevano seguire delle regole stabilite in precedenza da un certo numero di soci fondatori che si erano già trovati in situazioni del genere. Dovevano parlare con calma e mantenere il controllo dei nervi fino al momento di avere persa ogni speranza; poi, magari, rompere le radio per impedire che mogli e amici venissero afflitti dalle loro disperate richieste di aiuto in un momento in cui nessuno avrebbe potuto aiutarli; per esempio, quando finivano le riserve d’aria, o quando i veicoli cominciavano a fondersi durante le fasi di un rientro.

Durante i cinque mesi e mezzo che occorrevano per raggiungere l’Astronave, loro avrebbero mangiato, dormito, parlato e sudato a pochi centimetri uno dall’altro. McCullough si domandò se le regole del circolo, o lo spirito di corpo o qualsiasi altra qualità particolare, avrebbero impedito a quegli uomini di suicidarsi per cupa solitudine, o di uccidersi l’un l’altro per profonda noia, o di impazzire e morire per ragioni che loro non avrebbero neppur lontanamente potuto immaginare.

McCullough sperava di sì: anzi, ne era quasi certo.

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