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L’affetto di Lee per Traveller era grande. “Se fossi un artista come te” scrisse alla cugina Markie Williams, “farei un ritratto di Traveller… Un ritratto tale da ispirare il poeta, il cui genio allora potrebbe esaltare il suo valore e descrivere la sua resistenza alle fatiche, alla fame, alla sete, al caldo più intenso, al freddo, e i rischi e le sofferenze attraverso cui è passato. Potrebbe diffondersi sulla sua intelligenza e il suo affetto, e sulla invariabile risposta a ogni desiderio del suo cavaliere. Potrebbe spingersi fino a immaginare i suoi pensieri, durante le lunghe marce notturne e i giorni di battaglia. Ma io non sono un artista.”

Quando Michael Miley gli fece il ritratto, Lee insistette per montare Traveller “proprio come durante i quattro anni di guerra che abbiamo trascorso insieme.”


Tornammo in albergo dopo cena e aspettammo che gli aiutanti di Lee consegnassero gli ultimi messaggi, perché lui potesse infine togliersi gli stivali, sistemarsi sulla brandina e addormentarsi.

Annie ricontrollò le bozze che avevo letto la sera prima, mentre io afferrai il fedele Freeman e iniziai a leggere di Gettysburg. Era impossibile pensare che Lee non avesse sognato quella battaglia, la più disastrosa di tutta la guerra, anzi la fine della guerra, per la Confederazione, nonostante il parere diverso di Broun.

Broun riteneva che Antietam fosse stata la battaglia decisiva, e che nel fallire l’invasione del Maryland la Confederazione avesse perso la guerra, nonostante fossero poi seguiti altri tre anni di scontri sanguinosi; e Lee lo sapeva bene.

Sia che fosse così oppure no e, cosa più importante, che Lee se ne fosse reso conto, egli ne ebbe la certezza assoluta a Gettysburg un anno più tardi; se qualcosa poteva provocargli quei terribili sogni, doveva essere certamente quella disgraziata battaglia. Il momento cruciale per la Confederazione. Lee era riuscito a penetrare profondamente in Pennsylvania prima che l’esercito dell’Unione riuscisse a fermarlo e poi per tre giorni aveva scagliato un attacco dopo l’altro, dando l’impressione di potercela fare, di poter ancora vincere, nonostante tutto.

La mattina del terzo giorno Lee incontrò Longstreet davanti a una scuola. Longstreet non approvava il suo piano d’attacco. Più tardi affermò di aver sostenuto: “È mia opinione che nemmeno quindicimila uomini ben attrezzati possano conquistare quella postazione” e di aver considerato chiusa la faccenda. Lee non incolpò mai nessun altro oltre se stesso per il dramma di Pickett’s Charge; quando il suo aiuto colonnello Venable disse amaramente di averlo sentito con le proprie orecchie ordinare a Longstreet di mandare la divisione di Hood in appoggio, Lee esclamò soltanto: — Lo so, lo so!

Il piano di Lee era di mandare gli uomini di Pickett direttamente all’attacco frontale contro il centro delle truppe nemiche, e stava per funzionare. Gli uomini di Pickett arrivarono fino al famoso angolo del muro di pietra e lo tennero per almeno venti minuti, senza altro aiuto, nonostante questa volta la situazione di Fredericksburg si ripetesse alla rovescia, con i Confederati a marciare in campo aperto verso un’altura difesa. Ma Longstreet non mandò le divisioni in appoggio e alla fine loro non riuscirono più a tenere. Quando i soldati cominciarono a retrocedere, Lee cavalcò fino a loro e li mandò indietro al Seminary Ridge, incitandoli praticamente uno per uno.

— Cerca di ricostituire la tua divisione dietro la collina — disse a Pickett, e Pickett gli rispose — Generale Lee, io non ho più una divisione.

Annie si addormentò alle dieci circa, coperta fino al collo come se avesse freddo. Chiamai la segreteria e Richard mi rese edotto di una nuova teoria, questa volta sulla colpa sessuale e il complesso di Edipo irrisolto.

Fino a ora ero stato certo che tutte quelle chiamate, quelle teorie, avessero uno scopo preciso, fossero parte di un estremo tentativo di convincermi a riportare indietro Annie; adesso però cominciavo a dubitarne. Le teorie non collimavano fra di loro. A volte addirittura erano in aperta contraddizione, e lui saltava dall’una all’altra con la stessa insistenza di un uomo che stia raccontando il proprio sogno. Continuava a usare la voce del Buon Psichiatra, ma, ascoltandolo meglio, mi sembrava che non stesse cercando di convincere me quanto piuttosto se stesso.

“Oggi sono stato da uno psichiatra junghiano” disse Broun dopo che Richard ebbe finito. Pronunciava ‘Jung’ come se rimasse con ‘bang’.” La sua teoria è che il nostro inconscio si presenta come un magazzino con dentro tutto ciò che è successo nel passato. L’inconscio collettivo di Jung. ma non solo le memorie della razza umana: proprio tutto.”

Sembrava eccitato, agitato. Forse davvero i sogni di Lincoln stavano diventando un’ossessione. “Date, luoghi, persone. Sta tutto laggiù, e di solito la gente ne sogna solo frammenti, che a volte però bastano a rimettere in moto la memoria. Ed ecco dove si inserisce l’acromegalia di Lincoln. Questo psichiatra sostiene che uno squilibrio ormonale può aprire uno spiraglio sull’inconscio collettivo. Lo so, lo so, sembra un discorso da chiromanti, ma credo che ci sia qualcosa di vero.”

Cancellai i messaggi, pensando a quelle parole. Se uno squilibrio ormonale poteva schiudere l’inconscio collettivo, forse anche uno squilibrio chimico poteva farlo, e allora le medicine prese da Annie assumevano un ruolo. Questo avrebbe spiegato come mai i sogni erano improvvisamente diventati più chiari quando Annie aveva preso l’Elavil. Forse il fenobarbital aveva iniziato ad allentare una qualche specie di guardia a livello dell’inconscio, e poi l’Elavil aveva completato il processo, così che i sogni di Lee arrivavano chiari e precisi.

Se di questo davvero si trattava, allora i sogni si sarebbero gradualmente affievoliti ora che Annie non prendeva più nulla; la miglior cosa da fare sarebbe stata quindi di aspettare, finché l’equilibrio chimico nel suo cervello si fosse ristabilito e i sogni fossero scomparsi del tutto.

Spensi le luci e tornai nella stanza di Annie per aspettare con lei; mi addormentai in pochi minuti. Quando mi risvegliai erano le tre e mezzo, sul quadrante luminoso del mio orologio, e Annie stava ancora dormendo tranquilla, nonostante avesse gettato via le coperte. Pensai, con la confusa logica di chi non è ben sveglio, che dovevo aver dormito durante il suo sogno. Ma il suo respiro non era quello pesante, irregolare che lei aveva sempre dopo. Il mio pensiero successivo, ancor più confuso, fu che ero riuscito a fermare i sogni semplicemente dicendole da dove venivano. E tornai a dormire.

Dovevo aver sentito la porta sbattere, perché, quando mi svegliai, vi ero già quasi arrivato, senza nemmeno guardare il letto dove sapevo che lei non c’era più. L’aprii e uscii in corridoio, e in quel momento sentii chiudersi la porta esterna. Quella che si apriva sull’uscita di emergenza.

Feci di corsa il corridoio e premetti la sbarra di metallo. Questa si abbassò, ma la porta rimase chiusa. Annie la stava spingendo dall’esterno. O forse giaceva svenuta contro di essa. — Annie! — gridai attraverso la porta, poi mi fermai. Non bisogna spaventare i sonnambuli. Se si trovano in un luogo pericoloso, una roccia o cose del genere, potrebbero cadere. Mi lanciai verso l’ingresso principale, giù per le scale e attraverso il vestibolo deserto. Il portone era chiuso, ma per fortuna dall’interno. Riuscii ad aprirlo e corsi attorno all’edificio.

Annie era sull’ultimo gradino in alto, nella sua camicia bianca, come un fantasma nella luce grigia dell’alba. Il gatto era vicino a lei e la guardava.

— Annie — cercai di controllare la voce — stai di nuovo sognando.

Stava guardando verso il Rappahannock. Lungo la fila di alberi la nebbia era come una coperta grigia. — Addio, Katie — disse lei con voce commossa. — Prometti che ritornerai.

— Stai lì — dissi — sto arrivando. — Iniziai a salire, una mano lungo la ringhiera e l’altra tesa verso di lei, pronta ad afferrarla in caso di caduta. — Che cosa stai sognando, Annie?

Lei alzò il braccio, dall’ampia manica candida, in un gesto di saluto. — Vorrei che non dovessi andare — disse, poi nascose il viso fra le mani e incominciò a piangere. Il gatto la stava osservando senza curiosità.

Arrivai sul pianerottolo e le misi piano un braccio attorno alle spalle. — Annie, riesci a svegliarti? Stai facendo un brutto sogno.

Lei scostò la mano dal viso e si girò verso di me, con espressione accesa. — Niente lacrime ad Arlington! — disse vivacemente. — Niente lacrime — e mi gettò le braccia al collo iniziando a singhiozzare.

— Annie, non piangere! — La circondai con le braccia. Aveva il corpo scosso dai singhiozzi. — Tesoro, no, non piangere!

Si aggrappò stretta a me, tremando nella camicia leggera. Le accarezzai le spalle, allungando l’altro braccio dietro di me per trovare la porta. Avevo paura che non si potesse aprire dall’esterno; come avrei fatto allora a discendere quei gradini stretti e a fare tutta la strada di ritorno? Grazie al cielo la sbarra di ferro si abbassò sotto la mia mano. — Torniamo dentro, Annie — dissi. — Fa freddo qui fuori, tesoro. Torniamo in stanza.

Lei mi strinse ancora di più e premette il viso sul mio collo. — Non voglio che tu vada via — disse, poi alzò il viso rigato di lacrime verso di me, il suo visetto pieno di amore e di pena. I suoi occhi erano spalancati, ma non era me che guardavano. Chiunque lei stesse abbracciando, implorando di non andare via, quello non ero io.

La camicia bianca si era sbottonata sul davanti e scostandosi lasciava vedere la lunga curva della sua gola. Attraverso la stoffa sottile potevo sentire il palpito dei singhiozzi irregolari. — Annie — dissi, e la pena che c’era nella mia voce la svegliò.

I suoi occhi si fissarono su di me, spaventati e sorpresi. — Dove sono? — disse, e guardò stupita le scale e più oltre il Rappahannock coperto di nebbia. — Ho fatto un altro sogno?

— Sì — risposi, sciogliendo delicatamente le sue mani dal mio collo. Feci un passo indietro e scesi di un gradino, finendo quasi sul gatto. — Riesci a ricordarlo?

— Ero ad Arlington — disse lei. Si guardò la camicia sbottonata. — Che cosa ho fatto…? mentre dormivo?

Abbassai la sbarra e la porta si aprì. — Hai fatto una piccola passeggiata nel sonno, ecco tutto. — La indirizzai verso la porta senza toccarla, restando un passo indietro. Il gatto si alzò e cercò di seguirla ma gli chiusi la porta in faccia, poi, dall’interno, feci scorrere il chiavistello e seguii Annie in camera.

Era in piedi a testa china e si stava allacciando la camicia. Chiusi la porta e misi la catena, quel che avrei dovuto fare per prima cosa da subito. Se l’avessi fatto, tutto questo non sarebbe successo.

— Hai detto che eri ad Arlington nel sogno — dissi. — Era lo stesso sogno che avevi già fatto?

— No. — Prese la vestaglia azzurra dai piedi del letto e la infilò. — Ero in piedi nel porticato con la cameriera della caffetteria, quella dai capelli rossi, e lei stava preparandosi a partire. — Annodò la cintura della vestaglia e si sedette, tenendola chiusa al collo con una mano. — Stavamo aspettando la carrozza. C’erano molte valigie ammonticchiate sotto al portico. Io non volevo che se ne andasse.

— Questo l’ho sentito — dissi, pensando alle sue braccia attorno a me, alla bellissima curva della sua gola. — Perché hai detto “Niente lacrime ad Arlington”?

— Non l’ho detto io. Lui… — Aggrottò le sopracciglia e guardò oltre di me. — Eravamo in piedi nel porticato e poi… — Si chinò in avanti come tentando di raggiungere qualcosa, sebbene la mano rimanesse stretta al collo della vestaglia.

— Forse è meglio rimandare a domani mattina — dissi. Mi alzai e spinsi la poltrona verde contro la porta. — Questa non basterà a fermarti se ti alzerai di nuovo, ma mi darà tempo per sentire. — Bilanciai il volume del Freeman su un bracciolo. Sarebbe caduto subito se lei avesse tentato di spostare la poltrona.

— Jeff — disse lei, stringendo ancor di più il collo della vestaglia. — Mi dispiace per… tutto questo.

Sentii l’impulso di gridarle “’Io non sono Richard! Non approfitterei mai di te mentre stai dormendo, per l’amor del cielo!” ma non ero sicuro che fosse la verità.

— Non c’è niente per cui ti debba dispiacere. Stavi sognando — le risposi e andai in camera mia, chiudendo la porta.

Avevo il colletto bagnato dalle lacrime di Annie. Tolsi la camicia e ne indossai un’altra; poi mi avvicinai alla finestra e rimasi là a guardar fuori, aspettando la luce e pensando a Richard. “Non ci stavo provando, è solo successo” aveva detto quando l’avevo accusato di essersi approfittato di Annie. “Stavo tentando di aiutarla.”

— Questo non giustifica nulla — esclamai ad alta voce, e non sapevo se stavo rivolgendomi a Richard o a me stesso.

Quando ci fu luce abbastanza per leggere raccolsi il volume uno. Avevo lasciato il volume quattro, quello con l’indice, sul bracciolo della poltrona a far da allarme antisonnambulismo; comunque non avrei saputo che cosa cercare, tranne forse i riferimenti ad Arlington. Se il sogno era veramente ambientato laggiù, allora doveva trattarsi di un sogno antecedente la guerra, e la mia elaborata teoria cadeva in frantumi; avrei dovuto ricominciare da capo, quindi tanto valeva farlo subito, iniziando con il volume uno.

Lessi fino alle otto e mezzo, poi uscii dalla stanza direttamente sul corridoio, andai alla caffetteria e feci colazione. La camerierina dai capelli rossi era in servizio. — Lei non si chiama per caso Katie, vero? — le chiesi quando venne a riempirmi la tazza per la seconda volta.

— No — mi rispose con aria di disapprovazione, pensando evidentemente che stessi tentando di flirtare con lei in assenza di Annie. — Mi chiamo Margaret. Siete riusciti voi due ad andare poi al campo di battaglia?

— No — risposi. Forse sarebbe stato meglio, pensai. Forse in quel caso Annie avrebbe sognato ancora di Fredericksburg e io avrei saputo cosa raccontarle al suo risveglio.

“Eravamo in piedi sotto al porticato di Arlington” aveva detto Annie. “La cameriera stava partendo e io non volevo che andasse via.” Chi avrebbe potuto ospitare Lee, che poi non volesse lasciar partire? Non sapevo molto della sua vita, al di fuori della guerra. Tutte le ricerche che avevo fatto per Broun erano su specifiche battaglie, e non sapevo nemmeno bene da chi fosse composta la sua famiglia, tranne che dal figlio Rob, che lui aveva rimandato in battaglia ad Antietam, e dalla cugina Markie Williams, che era tornata attraversando il fronte nemico per prendere le cose dei Lee e aveva trovato il gatto.

A chi avrebbe potuto gettare le braccia al collo Lee, per piangere sulla sua spalla? La risposta era nessuno. Gli uomini che erano stati in guerra con lui lo descrivevano tutti come “severo e gentile”, dicendo che “non mostrava alcun segno di emozione”. Uno dei suoi biografi l’aveva soprannominato “l’uomo di marmo”, e tutti dicevano che era devoto soltanto al proprio dovere. Non faceva mai parola di ciò che lo angustiava, non aveva mai pianto, nemmeno per Stonewall Jackson. Quando la guerra fu terminata, non ne parlò mai più.

Aveva pagato caro quell’autocontrollo. Era morto per un attacco cardiaco, la malattia di chi è troppo chiuso, e aveva avuto incubi durante tutta la guerra, fino al suo termine. Aveva chiamato Hill al proprio letto di morte e allora, un istante prima della fine, gli aveva detto: — Levate le tende. — Non aveva mai pianto né mai si era aggrappato alla famiglia, nemmeno in punto di morte.

E se questo non fosse stato uno dei sogni di Lee? E se ora che le barriere dell’inconscio collettivo erano state superate Annie avesse iniziato a sognare i sogni degli altri?

Annie arrivò un po’ prima delle dieci, e anche lei aveva l’aria di non aver affatto dormito. Indossava una camicia dal collo alto, completamente abbottonato.

— Non ho idea di che cosa significhi il tuo sogno — le dissi. Feci un segno e chiusi il libro che stavo leggendo. — Sei sicura che fosse ad Arlington?

— Sì. Ero in piedi sotto al portico. C’era il gatto, e l’albero di mele. Aveva le foglie gialle, doveva essere autunno. Sono sicura che fosse Arlington… voglio dire, è sempre la mia casa, la casa in cui sono cresciuta, ma rappresenta altre case. — Scosse la testa come se non trovasse la parola giusta. — Mi dà l’impressione che sia altre case. Penso che Lee debba usare le immagini che ci sono nella mia mente per costruire i sogni, e le usa al posto di altre cose. È lo stesso con le persone. Penso che scelga la persona che è più simile a quella che lui conosceva…

La cameriera dai capelli rossi arrivò di corsa e prese l’ordinazione di Annie, scusandosi per non averla vista subito e riempiendoci entrambe le tazze fino all’orlo.

— Come la cameriera? — dissi dopo che se ne fu andata.

— Sì. Era la cameriera, ma in realtà non era lei.

— L’hai chiamata Katie. Sai anche il suo cognome o la sua parentela con Lee? Era un’amica, una parente?

— No, era una parente di… — Prese il cucchiaino e girò il caffè. — Ricordo solo qualcosa di questo sogno. Non mi è mai successo prima.

— Che cosa?

— La cameriera… Katie e io eravamo sotto al portico a salutarci, e io non volevo che andasse via. Stavamo piangendo entrambe, e allo stesso tempo stavamo ridendo perché nessuna delle due aveva un fazzoletto, e poi improvvisamente io mi trovavo fuori vicino al melo e guardavo la casa. Sai come succede nei sogni, qualche volta sei una persona e poi dopo un’altra, ma senza cessare di essere la prima. Ecco com’era. Stavo passeggiando vicino al melo e contemporaneamente ero sotto al portico a salutare Katie. Indossavo la mia camicia bianca, e lei aveva la sua divisa da cameriera, e tutte e due piangevamo, e allora andai sotto al portico e dissi loro “Niente lacrime ad Arlington!” e sorrisi e diedi a Katie il mio grosso fazzoletto perché potesse soffiarsi il naso.

— Sai chi era la ragazza sotto al portico? — chiesi. — La ragazza che era te?

— No. Ma quando arrivai al portico dal frutteto io ero Lee.

Bene, se non altro il vaso di Pandora dei sogni di tutto il mondo non si era ancora aperto e lei stava ancora sognando i sogni di Lee, anche se io non riuscivo a capire quale. — E allora questa ragazza, chiunque fosse, gettò le braccia al collo di Lee e si mise a piangere?

— No. — Posò la tazza di caffè e fissò gli occhi nel liquido. — Lui… io… Lee venne sotto al portico — ripeté lentamente — e disse “Niente lacrime” e improvvisamente io capii la ragione dei sogni. — Alzò gli occhi su di me. — Ero me stessa nel sogno, in quel momento, non Lee o la ragazza con la camicia bianca. Ero me stessa. E sapevo che cosa li provocava. Sapevo perché stavo sognando quei sogni. — Si portò la mano alla bocca, i suoi occhi si riempirono di lacrime. — Pover’uomo — disse piano. — Pover’uomo.

Allora era proprio Annie quella che mi aveva abbracciato, sebbene non fossi io quello a cui lei si stringeva. — Lo sai ancora? — dissi, desiderando allungare le mani per prendere le sue, confortarla, ma non osando nemmeno toccarla. — Ricordi che cos’era a provocare i sogni?

Si asciugò gli occhi con il fazzoletto di carta. — No. Mi sono svegliata e mi sono accorta di essere aggrappata a te. Avevo vergogna perché stavo camminando nel sonno con la camicia da notte mezza aperta. Avevo paura di aver tentato di baciarti o qualcosa del genere.

Non hai tentato di baciarmi, Annie, pensai. Io non c’ero nemmeno. — Non hai tentato di baciarmi — dissi.

— E quando ho cercato di ricordare il sogno, non ci sono riuscita… — La sua voce si spense allo stesso modo della sera prima. Dopo qualche attimo scosse la testa. — Jeff, penso che dovremmo tornare ad Arlington.

Quella frase mi colse del tutto impreparato. — Non possiamo tornare — dissi, balbettando per la sorpresa, — C’è Richard.

— Lo so, ma quando andammo là la prima volta mi servì.

Ti servì a sognare gli orrori di Antietam e Fredericksburg e Chancellorsville, pensai. Avevo visto l’espressione di terrore sul suo viso mentre era in piedi in mezzo alla neve e guardava i corpi sul prato più in basso. Non volevo sottoporla di nuovo a una prova del genere, nemmeno per risolvere il mistero dei sogni.

— Dobbiamo rimanere qui ancora solo un paio di giorni. Devo rivedere il veterinario e finire la ricerca in biblioteca per Broun. — Erano scuse improbabili. Avrei potuto tranquillamente richiamare il veterinario per telefono da D.C,, mentre la sola ricerca che avevo fatto da quando eravamo arrivati era stata su Lee, non su Lincoln. Ma Annie non mi stava ascoltando. Era china in avanti, come se cercasse di raggiungere con il corpo, di toccare, il significato dei suoi sogni.

— I sogni hanno qualcosa a che fare con Arlington — disse con la voce neutra che usava per raccontare i sogni. — E con il soldato dai capelli gialli. E con il gatto. Nessuno sa cosa sia successo loro. — Alzò gli occhi su di me. — Lee aveva una figlia?

— Ne aveva più di una, credo — dissi, sollevato dal cambio di argomento. — Comunque sì, una di sicuro. Agnese, penso che si chiamasse. — Mi alzai. — Finisci di far colazione. Vado a prendere il taccuino così poi andremo in biblioteca per cercare notizie su Agnese.

Tornai in stanza e presi i due volumi del Freeman che c’erano sul mio letto. Annie aveva lasciato la poltrona vicino alla porta, e il volume quattro giaceva sopra di essa. Rimisi a posto l’arredo, per evitare di farci maledire dalla cameriera, e presi anche quel volume.

Annie era presso la cassa a chiacchierare con la cameriera dalla testa rossa. Sperai che quest’ultima non stesse magnificando di nuovo il campo di battaglia.

— Oggi pomeriggio il tempo dovrebbe cambiare — diceva la cameriera, — Dicono che arriverà un grande freddo.

Bene, pensai. Con un po’ di fortuna potremmo essere bloccati qui dalla neve.

Andammo verso la biblioteca. La bibliotecaria gettò uno sguardo sospettoso ai libri che portavo sottobraccio, come se pensasse che li avevo portati fuori il giorno prima senza dichiararlo. Annie mi chiese una matita e un pezzo di carta e disse che sarebbe andata giù alla sezione consultazione.

— Io invece sarò alle biografie, al tavolo di ieri — le dissi.

Cercai nell’indice “Lee, figlie di”. Aveva avuto altre tre figlie oltre ad Agnese: Mary, Ann e Mildred. Dal momento che non potevo sapere quale di loro fosse la ragazza del sogno, usai l’unico altro indizio in mio possesso. Un’ora dopo essermi tuffato fra i richiami dell’indice ad Arlington, trovai ciò che stavo cercando.

Nell’autunno del 1858 Katherine Stiles, un’amica proveniente dalla Georgia, era giunta in visita ad Arlington. Mentre si apprestava a ripartire, Lee trovò lei e la figlia Annie che piangevano insieme. “Niente lacrime ad Arlington!” aveva detto loro. “Niente lacrime!” a sua figlia Annie.

Cercai in indice “Lee, Annie Carter (Robert E. Lee figlia di)” e iniziai a scorrere le pagine. Il due marzo 1862 Lee le aveva scritto: “Mia diletta Annie, penso a tutti voi, a ognuno e a tutti, nelle ore insonni della notte, e il vostro ricordo, l’immagine vostra rendono più breve la lunga notte, da cui i miei pensieri ansiosi cancellano il sonno. E allora penso al vostro sonno tranquillo, tuo e di Agnese, che non viene turbato dalla preoccupazione per le trincee e per le postazioni in riva al fiume”.

Eccola, il legame che avevo cercato invano. Avevo pensato a ogni tipo di articolate spiegazioni su ciò che causava i sogni di Annie: le medicine di Richard e gli squilibri chimici e la “tempesta di sogni” del dottor Stone. Non mi era mai venuto in mente che Annie sognasse semplicemente perché Lee l’aveva chiamata durante il sonno.

La bibliotecaria dall’aria severa era china su di me. — Vedo che oggi ha portato con sé i suoi volumi personali — disse con un tono sorprendentemente gentile, dal marcato accento virginiano. — Temo che il nostro materiale sulla Guerra Civile sia alquanto limitato. La maggior parte degli studiosi compie le proprie ricerche alla Biblioteca del Parco Nazionale.

— Il Parco Nazionale? — dissi.

— Sì. È presso il campo di battaglia di Fredericksburg, Quando vi ho visti qui ieri mi sono chiesta se ne conoscevate l’esistenza, ma non volevo disturbarvi. Tutti i testi più importanti e i materiali di ricerca si trovano là. Sa come arrivarci?

Sì. Si doveva marciare attraverso una pianura aperta verso una cresta difesa. — Sì. Grazie mille. — Raccolsi i miei volumi. — Saprebbe dirmi gli orari d’apertura?

— Dalle nove alle cinque — rispose lei con quell’inimitabile intonazione del Sud. — Mentre il campo di battaglia è aperto fino al tramonto, penso.

Andai a prendere Annie, che era fra le enciclopedie, circondata dalle L. — Ho trovato ciò che volevo. Andiamo — le dissi.

La bibliotecaria era al suo posto, con la consueta aria severa. Uscii in fretta quasi spingendo Annie, senza nemmeno dirle grazie per paura che nominasse di nuovo il campo di battaglia. Suggerii di andare verso il centro e di trovare qualcosa da mangiare. — Venendo qui ho visto un drugstore con una macchinetta della soda, incredibile ma vero — le dissi.

— Non ho molta fame — fece Annie.

— Bene, allora qualcosa da bere. Una limonata o qualcos’altro.

Il drugstore aveva davvero la macchinetta della soda, sebbene per il resto avesse anche un aspetto abbastanza decrepito. I cartelli che pubblicizzavano gelati, panini con formaggio alla piastra, boccali di birra avrebbero potuto essere lì fin dalla guerra civile, e dietro alla cassa non c’era nessuno. Sul retro un farmacista dalla incipiente calvizie stava scrivendo ricette e non alzò lo sguardo, nemmeno quando ci sedemmo su due degli sgabelli di plastica.

— Vado a chiamarlo — dissi e mi alzai, dirigendomi verso il retro, ma in quel momento suonò il telefono e lui rispose. Allora aspettai che alzasse gli occhi mentre mi dedicavo agli scaffali con le medicine. Più di metà erano pieni di pillole contro l’insonnia: Sominex, Nytol, Sleep-Eze. Richard si sarebbe sentito a casa sua.

Il farmacista mise la mano sul ricevitore e sussurrò: — Arrivo subito.

Annuii e tornai da Annie, che stava osservando l’esposizione di cartoline di fianco alla cassa. Pregai il cielo che non ce ne fosse nessuna di Arlington.

— Ha detto che viene subito. — Mi chinai sulla sua spalla per vedere la cartolina che teneva in mano. Era una veduta della tomba di Lee a Lexington. La statua di marmo rappresentava Lee addormentato nella sua branda da campo, con l’uniforme e gli stivali, con una coperta militare. Un braccio era disteso al suo fianco, l’altro piegato sul petto. — Penso di sapere che cosa sta provocando i sogni — dissi. — Le ragazze sotto al porticato erano Katherine Stiles e Annie Lee.

Lei rimise a posto la cartolina con infinita cura. — Annie Lee?

— La figlia di Lee. Avevi ragione a dire che si trattava di una delle sue figlie. Annie non voleva che la sua amica partisse. Entrambe le ragazze stavano piangendo, e Lee disse loro “Niente lacrime ad Arlington”.

Annie sedette di nuovo. — Niente lacrime — disse, e posò le mani sui due volumi del Freeman.

— Non capisci che significa? I sogni non sono indirizzati a te. Lee stava pensando a sua figlia, e attraverso un fenomeno strano, forse un’apertura nel tempo, il messaggio è arrivato a te per errore. Non so dire come. Forse tu hai sentito chiamare il tuo nome, giù nell’inconscio collettivo, o qualcosa del genere.

— Per errore — disse Annie, e scosse la testa. — Lui sta tentando di dirmi qualcosa. È scritto sul foglio di carta sulla manica del soldato, solo che non riesco a leggerlo. È un messaggio.

— Ma non per te — insistei. — Avevi ragione sotto molti punti di vista quando dicevi che non si trattava di sogni tuoi. Appartengono ad Annie Lee. Suo padre glieli mandava.

— Ci sono messaggi in tutti i sogni, tranne che in quest’ultimo — disse Annie. — C’è il messaggio che il soldato dell’Unione stava portando quando venne catturato a Fredericksburg, e il messaggio sull’amputazione subita da Jackson. E l’Ordine Speciale 191.

— E la ragione per cui non riesci a leggerli è che non erano diretti a te. Erano diretti ad Annie Lee. Lei avrebbe riconosciuto Katherine Stiles e avrebbe ricordato quel giorno ad Arlington e Tom Tita. Lei avrebbe capito che cosa significavano. Sono i suoi sogni, Annie, non i tuoi.

Il farmacista arrivò molto agitato a servirci e a raccontarci una complicata storia su Lila che di solito si occupava di servire alla cassa ma che adesso si era rotta un piede. — Sempre a trafficare con i cavalli, alla sua età — disse, senza ulteriori spiegazioni sull’esatta natura dei traffici. Sistemò due coni di carta sui supporti di metallo. — Avrebbe dovuto stare più attenta. — Schiacciò i limoni dentro ai bicchieri di carta. — Siete turisti?

— Diciamo di sì — feci. — Siamo qui per qualche giorno.

Tenne i bicchieri sotto al sifone della soda, uno per volta, rimestando poi il liquido con un lungo cucchiaino. — Siete già stati al cimitero?

— Il cimitero? — chiese Annie.

— Il campo di battaglia. Adesso è cimitero nazionale. Soldati dell’Unione. I Confederati sono sepolti più in alto, lungo viale Washington. — Mise del ghiaccio nei bicchieri.

— Quanto dista da qui? — chiese Annie.

— Circa due miglia. Scendete lungo corso Caroline, che è questa strada, fino al viale Lafayette — disse, tracciando una pianta con il dito sul piano umido della cassa. — Vi troverete sulla US 3. Girate a destra sulla Lafayette e seguitela tutta fino a Sunken Road. Non potete sbagliare. — Suonò il telefono. Il farmacista gettò due fettine di limone nei bicchieri, li spinse verso di noi e si affrettò sul retro per rispondere.

Presi una cannuccia e girai il ghiaccio nella mia limonata. Tutti, ma proprio tutti, in questa dannata città, possedevano azioni del campo di battaglia di Fredericksburg, neanche fosse una società di assicurazione? È un luogo da visitare. Diciassettemila morti. C’è persino una cartina elettrica, le luci rosse per quelli colpiti a morte, le luci blu per quelli uccisi dal freddo. Non potete sbagliare. Prendete la US 3 fino a Sunken Road, dove i corpi sono sepolti tre metri sottoterra di fronte al muro.

Annie stava ancora osservando il banco su cui il farmacista aveva tracciato la pianta. Fra un attimo avrebbe detto “Voglio andare al campo di battaglia, Jeff”, o peggio ancora “Penso che dovremmo andare ad Arlington” e quale scusa avrei potuto trovare questa volta?

— Pensi che ci sia dell’aspirina fra quei barattoli? — chiese Annie. — Non ne ho portata, e ho un inizio di mal di testa.

— Certo — risposi. Scivolai giù dallo sgabello e andai nel retro a chiedere al farmacista. Era ancora al telefono. — Proprio tu più di tutti dovresti sapere che non posso dartele senza la prescrizione del medico, Lila — disse ad alta voce. Ci fu una lunga, frustrante pausa durante la quale lui rimase a fissare il ricevitore.

Guardai lungo gli scaffali ma non trovai una confezione piccola di aspirina, quindi alla fine ne comprai una scatola da cento compresse e ritornai da Annie. — Stai bene? — chiesi, rompendo il sigillo e mettendogliene due in mano. Le inghiottì con un sorso di limonata. — Vuoi ritornare in albergo?

— Sì — rispose lei. Ritornai dal farmacista e gli tesi tre biglietti, alzando la confezione di aspirina per fargliela vedere. — Specialmente non a te! — stava gridando a Lila. — Con il cuore in quelle condizioni! — Aspettai fino a che non alzò gli occhi, vide e annuì.

Annie era sulla porta e mi stava aspettando, con i volumi del Freeman sotto al braccio. — Aspetta, lascia che li prenda io — dissi, sfilandoglieli, e le aprii la porta. — Vuoi che vada a prendere la macchina?

— No, sto bene, Jeff, davvero — Sorrise faticosamente. — Credo che Lee stia di nuovo per pensare a sua figlia.

— Vado a prendere la macchina — dissi, e in quel momento scorsi la Ford azzurra fermarsi all’angolo, far scendere una signora anziana e poi rimettersi in marcia, nella nostra direzione.

— Taxi! — gridai, saltando in mezzo alla strada come se stessi tentando di fermare un cavallo imbizzarrito. — Taxi!

Il taxista fermò e ci aprì le portiere posteriori. Aveva una sessantina d’anni, un sigaro enorme fra le labbra e una barba ispida che pareva ancor più ambigua e disdicevole di quella di Broun. Gli diedi l’indirizzo dell’albergo e lui mise in moto.

— Siete turisti? — fece da sopra la spalla. — Siete già stati al campo di battaglia?

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