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Traveller era il cavallo perfetto per Lee. Sopportava il maltempo e il granturco secco, e aveva una resistenza incredibile. Quando Lee passava in rivista le truppe, Traveller iniziava a galoppare con lunghi balzi leggeri e non cambiava mai il passo. A volte la fila degli uomini era lunga anche dieci miglia e Traveller galoppava l’intera distanza, mentre i cavalli degli altri ufficiali rimanevano indietro, l’uno dopo l’altro.


Fredericksburg si trovava solo a cinquanta miglia più a sud del distretto di Columbia, ma era un mondo completamente differente. Gli oleandri e la forsizia erano in fiore e grandi petali di magnolia caduti dagli alberi giacevano qua e là sulla strada.

Scendemmo alla Locanda di Fredericksburg, un edificio grande e antico con un ampio porticato. Chiesi due stanze comunicanti e poi dissi all’impiegato che prima desideravo vederle. L’impiegato ci diede le chiavi e salimmo. Le due stanze erano una suite al secondo piano, a un capo dell’edificio.

Dalla finestra di una delle due si vedeva il parcheggio e dall’altra il Rappahannock. C’era una scala antincendio dall’altra parte del corridoio che scendeva fino a un altro posteggio, più piccolo, invisibile dal lato frontale della casa.

Lasciai Annie nella stanza e scesi a confermare le camere, come signore e signora Jeff Davis. L’impiegato sogghignò quando vide i nomi. Presi in considerazione la possibilità di raccontargli che avrebbe potuto comparire un marito infuriato e di dargli venti dollari per negare la nostra presenza. Invece sogghignai di rimando e dissi — No, non siamo parenti. Ce lo chiedono tutti — e uscii per spostare la macchina nel parcheggio più piccolo vicino alla scala. Portai su le valigie.

Misi la mia nella stanza con vista sul parcheggio grande e quella di Annie nell’altra.

— Puoi rilassarti — le dissi. — Richard non potrà scoprire che siamo qui. L’unico che sapeva del mio viaggio a Fredericksburg era Broun, che si trova in California. Puoi cominciare a sistemarti e poi andremo a colazione.

Andai nell’altra stanza, chiusi la porta e poi chiamai la segreteria per ascoltare il messaggio di Broun, per accertarmi che questi non avesse lasciato il nome del suo albergo o il numero di telefono. “Sono nella assolata California a fare ricerche per il mio nuovo libro” diceva la voce di Broun. “Se lascerete il nome e il numero io sarò in grado di ascoltarli e vi chiamerò non appena possibile”.

Bene. Non aveva lasciato indicazioni su dove trovarlo e non aveva fatto cenno del proprio ricercatore. Quando mi aveva detto di prendere qualche giorno di vacanza era stato sincero. Tentai di pensare a chi altri avesse potuto dare il numero della California. Alla sua agente probabilmente, ma lei non l’avrebbe certo dato a un estraneo, nemmeno a un vecchio amico di Jeff. Forse a Mc Laws e Herndon, anche se dubitavo che avesse detto a loro che andava in California quando sarebbe dovuto rimanere a casa a lavorare sulle bozze.

Digitai il codice a distanza per attivare la lettura dei messaggi. Ci fu un clic e poi il rumore del nastro che si riavvolgeva, un altro clic e Broun che diceva “Jeff, sono in California e devo essermi portato dietro tutta la dannata nebbia. Domani incontrerò l’uomo dei sogni profetici. Chiamami se ti trovi in difficoltà con le bozze. E riposati. Sono preoccupato per te”.

Disfeci il bagaglio che avevo messo insieme la notte precedente e aprii la scatola delle bozze. C’erano anche dei libri, che non ricordavo di avere messo. Presi in mano il primo: era il volume due del Freeman. Sedetti sul letto e tirai fuori gli altri tre grossi volumi, uno dopo l’altro.

Un soldato che fugge dalla battaglia si accorge dopo alcune miglia di stringere ancora in pugno il fucile, o il cappello, o una galletta mangiata a metà, e non ne ricorda il motivo. Non ricorda nemmeno perché stia scappando via. Ed eccoci qui, a cinquanta miglia dalla battaglia in una suite alla Locanda di Fredericksburg con il R.E. Lee di Freeman e chissà cos’altro nella sacca di Annie, due Johnny il ribelle in fuga. Ma presto o tardi quel soldato avrebbe dovuto fermarsi e decidere che cosa fare. Per ora io non ne avevo idea. Ero arrivato a pensare solo a portare Annie in salvo, lontano da Richard.

Questo l’avevo fatto; avremmo potuto rimanere lì per una settimana almeno, forse di più se Broun si fosse trattenuto in California, ma presto o tardi saremmo dovuti rientrare nel Distretto di Columbia e presto o tardi avremmo dovuto rivelare la faccenda dei sogni.

Non ancora, comunque. Non c’era modo di sapere quanto Thorazine Annie avesse ancora in corpo e in quanto tempo sarebbe riuscita a smaltirlo. Il dottor Stone aveva detto che far smettere improvvisamente a una persona una medicina di quel tipo significava causarle un “tempesta di sogni”. Non potevo fare ipotesi su che cosa causasse i sogni di Robert Lee se lei aveva incubi di suo. Quello che le occorreva adesso era una colazione con un po’ di riposo e una vacanza dall’intera faccenda.

C’era un dépliant dai colori brillanti sul comò ai piedi del letto. Lo presi in mano. Forse avremmo potuto fare una passeggiata per la Fredericksburg storica, per vedere alcuni dei luoghi famosi. “Il campo di battaglia dell’America” diceva il dépliant. “Visitate lo storico Campo di Battaglia della Guerra Civile. Dove caddero in centomila! Mettetevi al posto dei generali. Tour senza guida”.

Pensai ad Annie che stava a metà collina, ad Arlington, e guardava giù verso l’erba innevata. Anche il campo di battaglia di Fredericksburg era stato trasformato in cimitero nazionale, e dodicimila soldati sconosciuti vi erano sepolti.

Forse non avrei dovuto portarla laggiù, pensai. Non aveva ancora sognato di Fredericksburg e non volevo che cominciasse. La battaglia era stata una carneficina assoluta, con i soldati dell’Unione che tentavano di attraversare una distesa piatta per difendere una cresta chiamata Le Alture di Mary. Ma Lee aveva vinto, pensai. Forse non sogna le battaglie che ha vinto.

Le altre attrazioni, a volerle definire così, erano minori: l’ufficio legale di James Monroe, il cottage di Mary Washington e Kenmore, una piantagione dove aveva vissuto la sorella di George Washington, Betty Fielding Lewis. Quando controllai sulla carta scoprii che nessuna di loro si trovava vicino al campo di battaglia, il che significava che avremmo potuto tranquillamente andarcene in giro, e poi leggere bozze e fare ciò che Broun mi aveva mandato lì a fare, cioè intervistare un dottore sulla sua acromegalia.

Presi dal portafoglio il numero che mi aveva dato Broun e chiamai il dottor Barton. Il numero era stato disattivato. Cercai nei cassetti del comò dove trovai una guida e andai a vedere sotto “Medici” nelle pagine gialle. Nessuno con quel cognome. C’era un Barton nell’elenco ordinario, ma senza “dottore”. Broun aveva detto che era vecchio abbastanza da non aver potuto ricevere le moderne cure per il suo caso. Forse era andato in pensione. Chiamai il numero.

— Ufficio del dottor Barton — disse una voce di donna.

— Bene — risposi. — Parla Jeff Johnston. Sono il ricercatore di Thomas Broun. Vorrei fissare un appuntamento con il dottor Barton.

— È per un cavallo? — chiese lei.

— No — feci io, sgranando gli occhi sul pezzo di carta che Broun mi aveva dato. — È lo studio del dottor Henry Barton?

— Sì.

— Il nome del dottor Barton è stato fornito al mio datore di lavoro, Thomas Broun, dal dottor Stone di Washington, D.C. Sto facendo ricerche per il nuovo libro del signor Broun e volevo fare qualche domanda al dottor Barton.

— È molto interessante — disse lei. — Mio marito sarà felice di vederla. Mi lasci guardare l’agenda. — Una pausa. — Potrebbe essere la prossima settimana? È molto occupato. È primavera, vede.

Non vedevo perché mai di primavera dovesse essere molto occupato, ma non lo dissi. — Non sarebbe possibile questa sera?

— Domani è domenica. Le andrebbe bene?

— Certo — risposi.

— Sa come arrivare qui? — mi chiese. — Siamo fuori città. — Mentre mi spiegava la strada, io sfogliai di nuovo le Pagine Gialle. Eccolo: dottor Henry Barton, veterinario. Interventi esclusivamente su grossi animali. Nessuna meraviglia che la moglie volesse sapere se si trattava di un cavallo.

Rimisi la guida nel cassetto, presi il dépliant e andai nella stanza di Annie. — Il dottor Barton non potrà ricevermi fino a domattina, così abbiamo tutta la giornata. Che cosa vuoi vedere? Mary Washington ha vissuto qui. Potremmo andare a visitare la casa. C’è uno specchio nella sua camera da letto che…

— Non avrei dovuto venire con te — disse lei. Era seduta sul grande letto, al centro di un copriletto bianco e verde di mussola disegnata a fiorellini e rametti che ricadeva ai lati con volant arricciati. Teneva le mani appoggiate piatte, tentando di non aggrapparsi ai fiori del copriletto così come aveva fatto con le violette africane di Broun. — Quando iniziai ad avere i sogni ero così terrorizzata che non sapevo cosa fare. Avevo paura a rimanere sola di notte, e Richard stava tentando di aiutarmi…

E così era successo.

— Io non sono Richard — dissi. — Non so che idea tu ti sia fatta sul mio conto, ma io non ti ho portata qui per spassarmela un week-end a spese di Broun. Ti ho portata qui perché stavi scappando da Richard e ho pensato che questo fosse un posto sicuro per nascondersi. E questo è tutto. Io sono qui per leggere le bozze del Legame del Dovere e parlare con un tipo dalle ossa lunghe e le orecchie grandi. Ho preso una suite e ho dato un cognome fasullo perché in questo modo Richard non potrà scoprirci, ma se vuoi due camere separate, posso…

— Non è questo — mi interruppe lei, stringendo il copriletto fra le dita contratte. — Non ho mai pensato che tu… la suite va bene, Jeff. Sono contenta che non siano camere separate perché ho bisogno di avere qualcuno vicino, la notte. E non devi biasimare Richard per quello che è successo. È stata colpa mia. Sono io che non avrei dovuto aggrapparmi a lui. Questo ha reso le cose più difficili. — Lasciò andare il copriletto e mi guardò. — I sogni hanno spaventato Richard. Ha avuto paura che mi facessero del male, e così ha tentato di fermarli, ma io non posso permetterlo. Ho un dovere verso i sogni.

— E hai paura che anch’io mi spaventi e che cominci a metterti il Thorazine nel cibo. Te l’ho detto, io non sono Richard.

— Ora sto bene. Il Thorazine dev’essere stato del tutto smaltito, Me ne rendo conto, perché mi sento molto meglio. Non c’è motivo di andare da un dottore. Proverebbe a fermare i sogni. Mi darebbe qualche altra medicina.

— Ma io non ho detto di andare da un dottore — risposi, impotente, e subito mi accorsi che invece l’avevo detto. — Vuoi dire il dottor Barton? È lui l’uomo che Broun mi ha chiesto di intervistare. È una persona che soffre di acromegalia, lo stesso disturbo che aveva anche Lincoln, e poi non è nemmeno un dottore. È un veterinario. Quando ho chiamato, sua moglie mi ha chiesto se desideravo consultarlo per un cavallo. — Fu un tentativo di battuta. — So che è tuo dovere continuare a fare i sogni. Mio dovere è prendermi cura di te mentre questo avviene. Ti prometto che non tenterò di fermarli.

— Okay — disse lei. Passò le mani a lisciare il copriletto spiegazzato.

— E ora cosa ne dici di una buona colazione, e poi di andare a esplorare tutte le attrazioni di questa amena località? Mary Washington aveva questo specchio che oggi la gente fa a pugni per ammirare.

— Benissimo — fece lei, sorridendo. — Chi era Mary Washington?

— Non lo so — e abbassai gli occhi al dépliant. Lo avevo ridotto a una illeggibile palla colorata. — La madre di George Washington? O forse sua figlia? Aveva delle figlie George Washington? — Lei stava fissando il dépliant. — Ne prenderò un altro nell’ingresso. — E lo gettai nel cestino.

— Annie, andrà tutto bene — aggiunsi. — Mi prenderò cura di te.

— Lo so.

Mary Washington era la madre di George. Facemmo colazione in una caffetteria di fronte all’albergo e poi attraversammo a piedi la cittadina per vedere lo specchio da toeletta di Mary e la sua meridiana in una piccola casa ai piedi dei giardini di Kenmore.

Sorvegliai Annie con ansia per tutta la mattinata, ma lei aveva un bell’aspetto. Molto più che buono. La tiepida aria di primavera e la camminata sembravano farle molto bene. Rise ai miei commenti su Mary Washington, quando mi chiesi che tipo di persona doveva essere stata visto che la figlia l’aveva confinata il più lontano possibile dalla propria abitazione; disse — Probabilmente parlava di quell’orribile specchio da toeletta tanto quanto la guida che ci ha accompagnato oggi.

E sorrise, un bellissimo sorriso sereno. Stranamente, la faceva sembrare più grande, più simile a una donna che a una bambina maltrattata, e io pensai “Bene, sto facendo la cosa giusta”.

Ma dopo pranzo, mentre rovistavamo nel terzo negozietto di anticaglie, cominciò ad avere l’aspetto stanco. Prese in mano un gatto di porcellana e iniziò a dire qualcosa, poi si interruppe a metà frase e andò verso la vetrina del negozio, guardando ansiosamente verso sud come se si aspettasse di veder comparire gli uomini di A.P. Hill.

— Va tutto bene? — chiesi, preoccupato che questo fosse un effetto collaterale del Thorazine.

Stringeva ancora in mano il gatto di porcellana.

— Andiamo a prendere un po’ di caffè — dissi. Era tutto il giorno che le stavo facendo ingoiare litri di caffè, nonostante le teorie del dottor Stone per cui il caffè causa brutti sogni. Non riuscivo a pensare a nessun altro modo per farle velocemente smaltire il Thorazine.

— Penso di aver preso abbastanza caffè — rispose, sorridendo. — Sto bene. Ho solo un po’ di mal di testa.

— E allora un’aspirina?

— No, sto bene. Sono solo stanca. Forse dovremmo tornare in albergo.

— Certo. Vuoi andare a piedi? Se sei stanca, posso fare una corsa a prendere la macchina. Oppure possiamo chiamare un taxi.

— Non credo che a Fredericksburg ci siano taxi — disse, appoggiando delicatamente il gatto di porcellana su un tavolino di vetro. — Non c’è ragione di preoccuparsi, Jeff. È un mal di testa da raffreddamento. Soffro di febbre da fieno. Probabilmente sono stati i germogli dei meli.

Durante il tragitto verso l’albergo sembrava star bene. Si era alzata una lieve brezza, che le allontanava i capelli chiari dal viso e le colorava le guance. — È una cittadina graziosa — disse — con tutte queste case antiche. Ci fu una battaglia qui? Durante la Guerra Civile?

— Sì. — Indicai una vecchia Ford blu dall’aria scassata con una scritta dipinta a mano sul fianco, che ci stava passando vicino. — Te l’avevo detto che c’erano taxi a Fredericksburg!

Salimmo in camera attraverso le scale esterne. Un gatto nero dalle zampe bianche era accomodato a prendere il sole sul penultimo gradino, e non manifestò l’intenzione di spostarsi per lasciarci passare.

— Ehi, ciao — fece Annie, allungando una mano per accarezzarlo. Il gatto chiuse gli occhi e si lasciò grattare, come se stesse facendole un favore. — Ho sempre desiderato avere un gatto. Ma mio padre era allergico.

— Tuo padre?

— Sì. I gatti gli provocavano macchie sulla pelle.

— Sai, non so niente di te. La tua famiglia, da dove vieni, che cosa facevi prima di iniziare a sognare i sogni di Lee. Dove vivi?

Lei si rialzò, e il sorriso era sparito dal suo volto. Aveva lo stesso sguardo di quella sera mentre ascoltava Richard dissertare sui problemi psicologici di Lincoln. — In una piccola città. Più o meno grande come Fredericksburg.

— Broun ha un gatto — dissi velocemente. — È una bestiaccia egoista. Proprio come questo qui. — Grattai il micio sotto il mento nero e feci gli ultimi gradini per andare ad aprire la porta, odiando Richard, in quell’istante, come non avevo mai odiato nessuno.

Non sapevo assolutamente nulla di Annie. O piuttosto: sapevo che aveva un padre allergico ai gatti, e che veniva da una piccola città, e dalla sua espressione era tutto quello che intendeva dirmi sull’argomento. Non la biasimavo. Richard sapeva tutto di lei. Se qualcosa non c’era sulle schede che lei aveva riempito all’Istituto o su quelle che il suo medico aveva inviato, doveva averlo scoperto durante le sedute di terapia. E ogni cosa di cui era venuto a conoscenza l’aveva usata: “Vedo che tuo padre è morto l’anno scorso. Ti sei sentita responsabile per la sua morte? Com’era? Aveva una barba bianca? Come Robert Lee? Non è a lui che si riferisce il tuo sogno?

E, oltre a tutto questo, adesso stava probabilmente passando le sue ore a chiamare i numeri indicati su quelle schede, Il Parente Più Prossimo Non Risulta all’Indirizzo Dato, per cercare di scoprire dove lei si trovasse. Non c’era da stupirsi che non mi volesse raccontare nulla. Avrebbe potuto rivelarmi un altro Richard, e allora, quando avesse dovuto scappare via anche da me, voleva essere sicura che non la potessi seguire.

— Broun diventerà matto quando tornerà dalla California — dissi, aprendo la porta della mia stanza e sorridendo rassicurante. — Ho dato al gatto le sue famose tartine ai gamberetti.

Lei mi seguì nella stanza. — Che sapore avranno avuto?

— Be’, mi sarebbe dispiaciuto che fosse stato proprio lui ad accorgersene, perché dovevano essere disgustose. Quella sera del ricevimento temevo che ci obbligasse letteralmente a ingoiarne un paio. Ora va’ a fare un sonnellino, se sei stanca. Hai bisogno di qualche cosa?

Si sfregò la fronte con la mano. — Jeff, penso che ora potrei provare a prendere un’aspirina.

— Vedo se ne ho portate — dissi, pur sapendo benissimo che nella furia della fuga non ne avevo prese affatto. Entrai in stanza. Sarei andato subito a comprarle, ma c’era qualcosa che dovevo fare prima. Chiusi la porta e chiamai la segreteria telefonica di Broun.

Il messaggio nebbioso dalla California si ripeté, poi venne la voce di Richard.

— Sto chiamando per dire che non mi sono arrabbiato per avermi fatto fermare e interrogare dalla polizia — diceva la voce del Buon Psichiatra. — So che ti senti minacciato e so che Annie si sente minacciata, ma voglio rassicurarvi entrambi, perché la mia sola preoccupazione è la salute della mia paziente.

Lo psichiatra deve convincere il paziente di avere a cuore la sua salute.

— Scappare via non è una risposta, Jeff. Devi riportare indietro Annie, perché possa ricevere il trattamento adeguato. So che tu hai scelto di non credermi, ma queste sue fantasie nevrotiche sono pericolose. Ha completamente dissociato se stessa dai propri segni. Mi ha detto che sono i sogni di Robert Lee. È sull’orlo di una crisi psicotica, e portarla via in California è il modo migliore per farvela precipitare.

Bene. Pensava che ci trovassimo in California. Ciò significava che non sarebbe arrivato qui di soppiatto, mentre io ero fuori. Non mi piaceva lasciare Annie da sola, ma dovevo trovare informazioni sul Thorazine che Richard le aveva somministrato. Riappesi e tornai nella sua camera, Lei era in piedi alla finestra, lo sguardo verso gli alberi che fiancheggiavano il fiume.

— Non ho con me dell’aspirina. Vado subito a comprarla. Ho visto una farmacia sulla strada dell’albergo.

— Non è necessario che…

— Devo andare comunque. Ho anche dimenticato di portare il rasoio e, a differenza di Broun non ho alcun desiderio di farmi crescere i favoriti. C’è qualcos’altro che ti serve?

— No. — Tentò debolmente di sorridere. Di nuovo aveva l’aspetto agitato.

— Sei sicura che starai bene qui da sola? Starò via solo pochi minuti.

— Starò benissimo — rispose. Tentò un sorriso più convincente. Un grosso camion passò rombando davanti all’albergo e Annie alzò la testa e fissò lo sguardo tra gli alberi, come se avesse udito il rimbombo cupo del fuoco d’artiglieria.

Presi la macchina, mi fermai a comprare il rasoio e l’aspirina e poi guidai in direzione del centro città, verso la biblioteca. L’avevo individuata mentre tornavamo in albergo, un edificio di mattoni a tre piani che sembrava una scuola.

I libri di consultazione erano in un seminterrato spoglio illuminato da alcuni neon. L’unico manuale sui medicinali era datato, e non diceva nulla sugli effetti collaterali del Thorazine. Diceva però che la sospensione improvvisa del trattamento ad alte dosi poteva causare nausea e vertigini.

Non diceva quale dosaggio fosse da considerarsi alto, anche se ciò non aveva una grossa importanza non sapendo assolutamente quanto gliene avesse somministrato Richard. Ma come aveva potuto dargliene, anche solo in piccole dosi? Il manuale lo descriveva come un medicinale estremamente pericoloso, proprio come temevo.

Dozzine di controindicazioni e avvertenze erano elencate, sonnolenza e ittero associati a svenimenti, e c’era una nota in grassetto che diceva; “Sono stati segnalati casi di morti improvvise, apparentemente dovute ad arresto cardiaco, ma non ci sono prove per stabilire una correlazione fra questi casi e la somministrazione del medicamento”. Mi chiesi se nei dieci anni trascorsi dalla pubblicazione di quel manuale la correlazione fosse stata provata, e se Richard se ne fosse preoccupato.

Doveva sapere benissimo ciò che il Thorazine poteva provocare ad Annie, e nonostante questo l’aveva somministrato. Perché? Non c’era l’abitudine di curare i pazienti con problemi mentali, c’era l’abitudine di tenerli sotto controllo.

Non trovai nulla che avesse a che fare con mal di testa e febbre fra gli effetti collaterali, sebbene si riportasse che dopo la quarta settimana potevano comparire infezioni. Tutti gli effetti collaterali e i pericoli derivavano da un trattamento a lungo termine, e l’ultima pagina comunque mi rassicurò. Nonostante tutte le precedenti avvertenze, il farmaco era consigliato per la cura di tutto, dal singhiozzo al tetano.

Ritornai in albergo e trovai Annie seduta sui gradini esterni, che giocava con il gatto nero. — Il mal di testa è sparito — mi disse mentre le tendevo il pacchetto di aspirina. — Mi sento molto meglio.

Cenammo alla stessa caffetteria dove avevamo fatto colazione. — Come ti senti ora? — le chiesi dopo che la cameriera ci ebbe portato il conto. — Hai mai avuto un senso di vertigine oggi?

— No.

— E di nausea?

— No. Perché?

— Potresti avere ancora un po’ di Thorazine in circolazione.

— Non capisco come — ribatté lei. — Fra te e la cameriera mi avete fatto bere tanto di quel caffè da neutralizzare qualsiasi altra cosa avessi in corpo. Non devi preoccuparti del Thorazine.

— Okay — risposi, prendendo in mano il conto. — Smetterò di preoccuparmi.

Lei si alzò e guardò fuori, verso l’albergo, come se questo le facesse paura. — Tutto quello di cui ci dobbiamo preoccupare ora sono i sogni.

Tornai al tavolo per lasciare una mancia. Vidi che il suo tovagliolo di carta, abbandonato sulla panca, era lacerato in minuscole strisce.

Quando tornammo in camera dissi: — Penso che starò qui a leggere bozze per un po’. — Trascinai una poltrona verde ai piedi del letto e poi andai a prendere le bozze in camera assieme a un paio di matite blu, muovendomi lentamente per darle tempo di prepararsi mentre fischiettavo per farle sapere di essere ancora là.

Quando rientrai in camera sua la trovai già nel letto. Indossava una camicia bianca dalle maniche lunghe e sedeva addossata ai cuscini, le mani intrecciate nervosamente sul risvolto del lenzuolo.

— È il libro di Broun sull’Antietam? — mi chiese.

— Dovrebbe — risposi. — Ma lui continua a fare cambiamenti. Ecco perché devo finire di controllarle prima che torni dalla California, per non dargli più occasione di pasticciarle.

— Che cosa devi fare?

— Rileggerle. Cercare gli errori, lettere saltate, righe mancanti, punteggiatura, questo genere di cose. — Avvicinai di più la poltrona al fondo del letto, per potervi appoggiare contro i piedi.

— Posso aiutarti? — Lo disse con voce tranquilla, ma le nocche delle sue dita intrecciate erano bianche. — Per favore. Non voglio rimanere qui a fare nulla aspettando che mi venga sonno.

Misi giù il pacchetto di fogli. — Senti, non devo lavorarci proprio adesso. Potremmo anche guardare la Tv o qualcosa.

— Davvero mi piacerebbe aiutarti con le bozze. Penso che leggendo riuscirei a distrarre la mente dai sogni. Dobbiamo prendere ciascuno una parte diversa oppure leggere la stessa ad alta voce?

— Annie, non credo che sia una buona idea.

— Perché parla dell’Antietam?

Perché parla delle mani bendate di Lee e di un cavallo con le zampe spezzate e ci sono soldati morti dappertutto. — Sì.

— Tu di solito le leggi ad alta voce, vero? — disse. — Ecco perché devo aiutarti. Posso controllare che Broun non abbia fatto errori. Dopo tutto, io ero là.

Non c’era nulla che potessi ribattere. Le diedi le bozze assieme a una matita blu. — Io leggerò dal manoscritto e tu seguirai accertandoti che ci sia tutto e che non abbiano saltato una riga. Puoi anche controllare i refusi. Basta che metta una X sul margine e poi io le rivedrò e farò le correzioni. — Posai i piedi sulla traversa sotto al letto, di lato, e iniziai a leggere.

Che ore sono, lo sai? — chiese Ben. Erano accucciati in un campo di granturco un po’ più indietro rispetto alla strada dove infuriava il combattimento. Avevano sparato contro i nemici sulla strada fino a esaurire le munizioni e poi avevano iniziato a retrocedere fra i solchi di granturco, togliendo via via i fucili ai caduti e sparando con quelli. Sembrava loro di non star facendo altro da ore e ore, e c’era così tanto fumo da non poter vedere il sole. Ben si chiese se non avessero continuato a combattere per tutto il giorno e il sole fosse ormai tramontato.

Non è ancora mezzogiorno — rispose Malachi. Aveva la mano sotto un soldato la cui spalla sinistra era stata spazzata via e che giaceva a faccia in giù fra gli steli rotti del mais. Aveva capelli gialli. Il suo braccio era per terra poco distante da lui, e la mano stringeva ancora lo Springfield. C’era un pezzo di stoffa agganciato alla manica con uno stecco. Ben posò il fucile e staccò la stoffa. Era un fazzoletto.

Malachi lo girò e gli frugò nelle tasche. Era Toby.

— Vieni via — disse Malachi. — Sembra che anche lui abbia finito il piombo. — Spinse via Ben tenendogli il fucile di traverso sul petto. — Sta’ a sentire. Stanno arrivando con i cannoni — disse, e Ben sentì la terra tremargli sotto ai piedi.

Io devo… — disse Ben, e tentò di farsi avanti ancora.

Malachi si alzò e lo afferrò per la collottola. — Che cosa accidenti pensi di poter fare?

Lui mostrò il fazzoletto a Malachi. — Devo rimettere questo indosso a Toby. Come sapranno chi è? Come faranno i suoi a sapere che è morto?

— Gli verrà magari questa buona idea, e non lo sapranno certo da quello — fece l’altro, additando il fazzoletto. Ben lo guardò a sua volta. Era coperto di polvere e di sporco, tanto da non poter nemmeno decifrare le lettere. — Adesso vieni! Che diavolo stai ancora facendo?

— Io lo conosco — rispose Ben. — Io so da dove viene. Hai della carta?

Una pallottola colpì il braccio di Toby e aprì un altro foro rosso. — Vieni via — gridò Malachì — o quella pollastrella a casa dovrà venire a cercare te. — Lo prese per la giacca e lo trascinò in mezzo al granturco, finché non videro più il corpo di Toby.

Dopo un poco la fucileria tacque per un attimo e Malachi disse: — Io, me lo metto negli stivali il nome.

— Ma ti potrebbero colpire ai piedi — fece Ben.

— Potrebbero — rispose Malachi — ma in quel caso non moriresti subito e potresti dirgli chi sei prima di tirare gli ultimi.

— Mi dispiace — dissi. — Abbiamo fatto male a leggerle.

Lei si era addormentata. Le tolsi delicatamente le bozze dalle mani e iniziai a fare le correzioni, poi mi sentii a mia volta assonnato e allora mi alzai e andai alla finestra a guardare il Rappahannock. Le truppe dell’Unione si erano accampate sul lato più lontano del fiume, a non più di mezzo miglio da qui, e la nebbia nascondeva i loro fuochi da campo mentre loro aspettavano l’inizio della battaglia. Tutti quelli che avevano descritto la Guerra Civile, generali, cronisti al seguito, storici dell’epoca, dicevano che l’attesa era la parte peggiore. Una volta in battaglia, dicevano, non era così male. Si faceva ciò che c’era da fare senza nemmeno pensarci; invece l’attesa, prima, aspettando che la nebbia si alzasse e giungesse il segnale, era quasi intollerabile.

— Fa così freddo — disse Annie. Si alzò a sedere e tirò le coperte con entrambe le mani, tentando di strapparle via dal fondo del letto.

— Vado a prendere una coperta — dissi, e poi mi resi conto che era addormentata. Tirò più forte il copriletto e lo liberò.

— Vai a chiamare Hill — disse, avvolgendosi la mussola arricciata attorno alle spalle e trattenendola con una mano al collo, come se fosse un mantello. — Voglio che veda questo. — Le sue guance erano rosse e congestionate; mi chiesi se toccandola non avrei sentito la febbre.

Lasciò andare il copriletto e si chinò in avanti come per guardare qualcosa. Il copriletto le scivolò dalle spalle. — Portami una lanterna — disse, trafficando con il bordo della coperta.

Mi chiesi se dovevo tentare di svegliarla. Stava respirando velocemente e affannosamente, e aveva le guance rosse come il fuoco. Stringeva il bordo della coperta in una disperata pantomima di qualcosa.

Feci un passo avanti per toglierle la coperta di mano, prima che la lacerasse; a quel gesto lei mi alzò in faccia direttamente lo sguardo che non vede dei sonnambuli, e la lasciò andare.

— Annie? — dissi piano, e lei sospirò, lasciandosi ricadere nel letto. La coperta era appallottolata dietro il suo collo, che faceva così un angolo strano; delicatamente gliela sfilai e poi le tirai le lenzuola fino alle spalle.

— Ho avuto un sogno — disse Annie. Mi stava guardando e questa volta mi vedeva. Aveva le guance ancora arrossate, ma meno di poco prima.

— Lo so — dissi io. Appoggiai il copriletto sul fondo del letto e sedetti di fianco a lei. — Vuoi raccontarmelo?

Lei si tirò a sedere, appoggiando il cuscino contro lo schienale e tirandosi il copriletto sulle ginocchia piegate. — Stavo nel porticato della mia casa, di notte, e guardavo il prato. Era inverno, credo, perché faceva freddo, ma non c’era neve, e la casa era diversa. Si trovava in cima a un’altura ripida e il prato era in basso, lontano. Non riuscivo a vederlo nonostante guardassi fisso nel buio, ma potevo sentire qualcuno che piangeva. Anche il suono era molto lontano, non potevo esserne ben sicura, e allora aguzzavo gli occhi cercando di vedere il prato.

“Accesi la luce sotto al porticato, ma questo peggiorò le cose, Ora davvero non vedevo più nulla. Allora la spensi di nuovo e rimasi là. al buio, finché qualcuno venne a sbatter contro di me. Era un soldato dell’Unione. Aveva un messaggio e io sapevo che si trattava di buone notizie, ma avevo paura che, se avessi acceso di nuovo la luce del portico per leggere, non sarei riuscita più a scorgere il prato.

“Poi vidi una luce nel cielo, molto lontana, e pensai ‘Bene, qualcuno ha acceso una luce sotto al portico anche laggiù’ ma poi vidi che la luce saltellava e danzava e allora pensai ‘Qualcuno sta portandomi una lanterna per leggere il messaggio’; poi il cielo si accese di rosso e di verde e io vidi i corpi sul prato.”

— Erano soldati dell’Unione? — chiesi.

— Sì — disse lei — però non indossavano l’uniforme azzurra. Alcuni portavano lunghe camicie, rosse e bianche, altri erano nudi, e io pensavo al freddo che dovevano sentire laggiù, stesi per terra. Sai dove mi trovavo?

Certo che lo so, pensai. Maledizione, per tutto il giorno avevo cercato di portarla il più lontano possibile dal campo di battaglia, ma lei c’era stata. E perché mai avevo pensato che le battaglie che Lee aveva vinto l’avrebbero perseguitata meno di quelle perse?

— Non indossavano le uniformi perché i Confederati erano scesi durante la notte dalle Alture di Mary e le avevano sottratte ai corpi dei morti. Dopo la battaglia di Fredericksburg.

Lei si appoggiò ai cuscini, come se le avessi appena detto qualcosa di confortante — Raccontami della battaglia.

— Dopo Antietam, Lee si ritirò in Virginia. L’esercito dell’Unione ci mise diverso tempo prima di seguirlo, e quando lo fece lo incontrò nel luogo, per loro, peggiore possibile. In dicembre l’esercito dell’Unione attraversò il Rappahannock a Fredericksburg e tentò di attraversare la pianura a sud-ovest, verso la città, ma l’esercito Confederato teneva le Alture di Mary che dominavano quella piana. Fu dimostrato al di là di ogni dubbio che non si può attaccare una cresta montuosa dal basso.

— E dopo la battaglia i soldati feriti rimasero laggiù a gridare, chiedendo aiuto?

— Sì. Quella notte gelò.

— E i soldati Confederati rubarono i loro vestiti — disse lei piano. — E il messaggio?

— Un messaggero dell’Unione si perse nel buio la notte prima della battaglia e si imbatté in un drappello di Confederati. Fu catturato e gli ordini che portava vennero consegnati a Lee. Durante quella stessa notte splendette l’aurora boreale, illuminando il cielo di rosso e verde. Entrambe le parti la considerarono un buon auspicio per la propria causa.

Rimase seduta a lungo sotto il leggero copriletto. — Che ore sono? — chiese infine.

— Le undici e quarantacinque.

Si distese. — Se anche questa volta succede come le altre, non dovrei più fare sogni per stanotte. Di solito non ne faccio dopo mezzanotte.

— Questo era un sogno come gli altri, Annie? — le chiesi, pensando alla “tempesta di sogni” che il dottor Stone aveva affermato seguire l’improvvisa interruzione di un sedativo.

— No — rispose lei. Si era appoggiata su un gomito e sorrideva. — È stato più facile. Perché tu eri qui a spiegarmelo. — Sbadigliò. — Posso dormire fino a tardi domattina?

— Naturalmente. Il giorno dopo la battaglia i soldati hanno sempre il permesso di dormire più a lungo — dissi, ma era una bugia. Il giorno dopo la battaglia i soldati dovevano marciare verso la prossima, e poi verso un’altra ancora, finché arrivavano a quella che li avrebbe uccisi.

Sedetti sulla poltrona verde e ripresi in mano le bozze.

— Non devi rimanere sveglio, Jeff — disse lei. — Io non sognerò più per stanotte. Puoi andare a letto.

— Pensavo solo di finire il capitolo che stavamo facendo — risposi. — Non preoccuparti per me. Cerca di dormire.

Si addormentò quasi immediatamente. Io andai avanti a leggere. Ben e Malachi riuscirono a scappare dal campo di granoturco e a trovare incerto riparo nel Bosco Occidentale. Hooker aprì il fuoco con tutti i suoi cannoni su un altro campo di granturco, e per chi stava acquattato là in mezzo fu la fine. Il fratello di Ben e il resto del Dodicesimo Battaglione di Mansfield ebbero l’ordine di difendere il Bosco Orientale e, fra il fumo e la confusione, iniziarono a sparare contro altre divisioni del loro stesso esercito. Quando Mansfield tentò di fermarli fu colpito al petto da una pallottola confederata. Era una ferita mortale, ma lui riuscì a smontare e a condurre il suo cavallo al riparo prima di morire.

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