Lee e Traveller formavano una coppia ben assortita, Lee richiedeva al proprio cavallo più resistenza e carattere di quanta ne avesse un cavallo medio, Traveller aveva troppa resistenza e carattere per un cavaliere medio. Si irritava se veniva trattenuto, doveva correre in continuazione e aveva un trotto alto, difficile per il cavaliere. Quando Rob Lee dovette condurlo a Fredericksburg da suo padre, nel 1862, si lamentò: “Posso dire tranquillamente che sarei meno stanco e provato se fossi arrivato a piedi”.
Mi ci volle quasi un’ora per riportarla a letto e far sì che si rimettesse a dormire più o meno tranquillamente. Avevo tentato di svegliarla, anche se avevo sentito dire che non bisogna svegliare i sonnambuli — che fosse invece una delle teorie di Richard? — ma non ci ero riuscito.
— Annie! — dissi, e le presi la mano. Scottava. — Svegliati, Annie!
— È morto? — disse lei, e le lacrime le scorrevano sul viso andando a finire sotto il mento.
È morto? Chi? Il generale Cobb? Cobb era morto a Fredericksburg, ma non ero convinto che ci fossimo già arrivati. Potevamo essere ovunque. Armistead e Garnett erano morti a Gettysburg, A.P. Hill a Petersburg due settimane prima della resa. Poteva anche essere Lincoln.
— Chi, Annie?
Il naso le colava, a causa del pianto, ma lei sembrava non accorgersene. La condussi in bagno camminando piano e presi un Kleenex. — Dimmi che cosa sta succedendo — dissi dolcemente mentre le asciugavo il naso arrossato. — Riesci a dirmelo, Annie?
— La mia casa è in fiamme.
Le passai goffamente il fazzolettino sulle guance. — Com’è questa casa, Annie? — chiesi, pulendole di nuovo il naso.
Lei fissò la propria immagine nello specchio. — È morto, vero?
La ricondussi a letto e le tirai su le coperte. Aveva smesso di piangere, ma le ciglia rimanevano bagnate. Il fazzoletto ormai era una pallottola, ma le asciugai di nuovo il naso e le rincalzai le lenzuola.
Rimasi accanto al letto per un po’, pensando che si sarebbe svegliata, ma non fu così. Presi il Freeman dal pavimento, accanto alla poltrona, e cercai una casa in fiamme. Durante la battaglia di Antietam Longstreet aveva aiutato alcune donne e bambini a portar via i loro averi dalla casa in fiamme, a Sharpsburg, ma Lee non si trovava laggiù. Nelle settimane precedenti la battaglia di Fredericksburg la maggior parte della città era sta distrutta dagli incendi, ma nessuno era stato ucciso, fatta eccezione per diciassettemila soldati.
— Ho fatto un altro sogno — disse Annie, senza tracce di pianto nella voce. Si rialzò a sedere. — La mia casa era in fiamme — scosse la testa come a contraddire ciò che aveva appena detto. — Era la stessa casa degli altri sogni, ma non era la mia e non eravamo ad Arlington.
— Di chi era?
— Non lo so. Eravamo sotto al melo e la guardavamo bruciare, poi un uomo a cavallo mi consegnò un messaggio. Non potevo aprirlo perché indossavo i guanti, così lo tesi a qualcuno che stava vicino a me. Era l’impiegato di questo albergo. Aprì il dispaccio con una mano, perché aveva qualcosa nell’altra. E quando lo aprì mi accorsi che si trattava di una scatola di candele.
Chiusi il Freeman. Ora sapevo di chi era la casa. — Uno degli aiutanti di Lee rischiò la vita per portargli una scatola di candele, perché non faticasse più a leggere i messaggi alla luce del fuoco da campo — dissi. — La casa in fiamme è Chancellor house. Siamo a Chancellorsville.
— Però non era una scatola di candele — disse Annie, guardandomi allo stesso modo in cui prima aveva fissato la sua immagine allo specchio. — Era un messaggio.
— Il messaggio riguarda Stonewall Jackson — dissi — il braccio destro di Lee. Fu ferito nella battaglia di Chancellorsville. Dovettero amputargli il braccio.
— E io gli rimandai a mia volta un messaggio, vero?
— Sì — risposi. Ne conoscevo anche il contenuto. — “Mandate a Jackson i miei saluti più affettuosi” aveva scritto Lee. “Ditegli di fare presto a guarire e di ritornare vicino a me più in fretta possibile. Lui ha perso il suo braccio sinistro, ma io ho perso il mio braccio destro.”
Annie si appoggiò indietro sui cuscini, sfregandosi il polso come se le dolesse. — Ma lui non guarirà, vero? Sta per morire.
— Sì — risposi.
Si rimise giù subito, docilmente, come un bambino che ha promesso di addormentarsi dopo la favola della sera, e io andai a prendere una coperta dal mio letto per passare la notte sulla poltrona verde.
I medici avevano diagnosticato a Jackson una veloce guarigione, ma lui sviluppò una polmonite e morì nove giorni più tardi. Verso la fine delirava in continuazione. “Ordinate ad A.P. Hill di prepararsi per l’azione!” aveva detto una volta. Anche Lee avrebbe chiamato Hill, mentre giaceva morente per un attacco cardiaco sette anni più tardi. “Dite a Hill che deve avanzare!” aveva detto chiaramente. Mi chiesi se avessero sognato la stessa battaglia e di quale si trattasse, e se Annie fosse destinata a sognarla anche lei.
Alle cinque abbandonai ogni tentativo di dormire e andai in camera mia a leggere le bozze, lasciando la porta aperta in caso lei si svegliasse di nuovo. Ben e Malachi passavano il resto della mattinata e la maggior parte del capitolo a cercare il loro reggimento, e Robert Lee trovava il figlio Rob. Era in piedi su una piccola altura presso la strada quando l’unità di artiglieria di Rob arrivò in ordine sparso, con il solo cannone rimasto. Erano tutti sporchi ed esausti, e Rob si fermò di fronte a suo padre e disse: — Generale, ci ordinate di tornare a combattere di nuovo?
Robert Lee aveva un braccio al collo. Un aiutante tratteneva le redini di Traveller perché le sue mani erano troppo gonfie per farlo, e intorno a loro i campi di granturco e i boschi stavano bruciando. Il torrente Antietam scorreva rossastro.
— Sì, figlio mio — disse Lee. — Dovete fare tutto quello che potete per tirare fuori i nostri soldati. — Disse loro di prendere i cavalli migliori e li rimandò in battaglia.
Avevo lasciato il Freeman sul letto di Annie. Andai a prenderlo. Stava dormendo a pancia in giù, una mano sotto la guancia, l’altra gettata di traverso al libro. Lo feci scivolare piano da sotto e poi rimasi là seduto, come se la mia presenza potesse in qualche modo proteggerla dai sogni.
Mi aveva fatto promettere di aiutarla a sognare. Bene, la stavo aiutando. Aveva già fatto più sogni da quando mi aveva conosciuto che in tutto il tempo con Richard, droghe o non droghe, e sembrava che non potessi aiutarla in nulla, mentre stava sognando. Non riuscivo nemmeno a svegliarla.
Nemmeno star lì seduto le poteva essere d’aiuto. Dovevo essere ben sveglio e pronto per quando fosse arrivato il prossimo sogno, e non ero ancora riuscito a dormire davvero da quando eravamo giunti a Fredericksburg. Ma non volevo alzarmi e andare a letto. Non so che cosa volevo. Forse che Annie si svegliasse, aprisse i suoi occhi azzurro-grigi e mi guardasse. Guardasse me, non fumo e cavalli e soldati uccisi. Che guardasse me e sorridesse e dicesse con voce assonnata: — Non devi rimanere qui con me — così avrei potuto risponderle. — Ma io lo voglio. — E allora cosa avrei voluto che mi rispondesse? — Sono contenta che tu sia qui. Non faccio mai brutti sogni quando tu sei qui.
Annie mormorò qualcosa e mosse leggermente il viso contro il cuscino. Non c’erano più tracce di pianto sulle guance, nonostante il naso fosse ancora arrossato. I capelli si erano incollati al viso, là dove le lacrime si erano asciugate, e io li spinsi indietro. La sua pelle era tiepida. Vi appoggiai la mano.
Lei si accigliò come se l’avessi disturbata. Ritrassi la mano. Subito il viso si distese di nuovo. Sospirò e si voltò di lato, tirando su le ginocchia, come accoccolandosi. Il respiro divenne più regolare.
Mi rialzai, piano per non disturbarla, portai il Freeman nell’altra stanza e cercai l’insonnia di Lee. Aveva avuto problemi a dormire per tutta la guerra. “Ho paura di addormentarmi e pensare a quei poveri ragazzi” aveva scritto alla moglie una settimana dopo Antietam. Se mai fosse riuscito ad addormentarsi prima di mezzanotte i suoi aiutanti avevano ordine di non svegliarlo per nessuna ragione, a meno che non fosse assolutamente indispensabile. Aveva detto loro che per lui un’ora di sonno prima di mezzanotte valeva il doppio che non dopo.
Mi addormentai con il volume di Freeman aperto sul petto e dormii fin dopo mezzogiorno, e sebbene il mio sonno non fosse arrivato prima di mezzanotte valeva ugualmente tant’oro. Mi sentivo meglio di quanto mi fossi mai sentito dal viaggio in West Virginia, e in grado di pensare chiaramente per la prima volta su tutta quella faccenda. Avevo promesso ad Annie di aiutarla ad avere i sogni. C’era un unico mezzo per farlo, ed era di trovare che cosa li stava provocando.
Mi accertai che stesse ancora dormendo. Mi rasai, mi vestii, presi un foglio di carta dalla scrivania e iniziai a fare una lista dei sogni. Prima Arlington, poi Antietam, Fredericksburg, Chancellorsville. I Lee avevano abbandonato Arlington nel maggio 1861. La data, di cui non ero troppo sicuro, veniva dalla lettera di Markie Williams che raccontava di Tom Tita il gatto, ma comunque si trattava del 1861. Antietam era stata nel settembre 1862, Fredericksburg nel dicembre dello stesso anno, e Chancellorsville in maggio 1863. Ciò significava che i sogni erano in ordine cronologico, e avevano una consequenzialità. Annie aveva sognato quasi un anno di guerra in una settimana, sebbene all’inizio avesse sognato Arlington per un anno intero e questo primo sogno solo gradualmente si fosse chiarito. E c’erano importanti battaglie di quel primo periodo di cui non aveva sognato nulla.
Iniziai una seconda lista su un altro foglio, mettendo questa volta le date dei sogni su una colonna e le medicine che aveva preso nel frattempo sull’altra. Risultava come le medicine avessero una qualche connessione con i sogni, sebbene non capissi quale. Non avevano comunque soppresso il sonno REM né impedito di sognare, mentre avrebbero dovuto farlo.
Era proprio durante l’assunzione di Elavil che i sogni improvvisamente si erano fatti più chiari, e il fenobarbital che il medico di famiglia le aveva dato, in precedenza, non aveva avuto alcuna funzione apparente nel fermare il sogno di Arlington. Il Thorazine aveva fermato i sogni, ma quando era stato sospeso non era seguita la “tempesta di sogni” predetta dal dottor Stone. Nessuno dei sogni pareva avere una qualche relazione con le sostanze che stava prendendo o meno, quindi forse una relazione non esisteva proprio, e la scadenza dei sogni aveva maggiormente a che fare con i rari momenti di sonno di Lee.
Annie si era svegliata. La sentivo muoversi nell’altra stanza. Piegai i fogli e li misi nella tasca dei jeans. Bussai sulla porta accostata e immediatamente lei la spalancò.
— Sei stato in piedi tutto il tempo? — mi chiese, guardando l’orologio. Aveva l’aria stanca nonostante la dormita. — Non potevo crederci quando ho visto l’ora.
— Io sì. Mi sono svegliato che morivo di fame. È una gran bella cosa che servano la colazione a tutte le ore, nella nostra caffetteria. Che ne dici di andare? — Infilai il giubbotto. — Voglio andare in biblioteca questo pomeriggio. Penso di avere un’idea su ciò che sta causando i sogni.
Le raccontai dell’insonnia di Lee mentre mangiavamo; poi ci incamminammo verso la biblioteca. Comperai un taccuino nel negozietto lungo la strada. — Devo anche fare qualche ricerca sui sogni di Lincoln, in caso il veterinario non riesca a scoprire niente — le dissi.
— Lo farò io — ribatté Annie. — Che cosa devo cercare?
— Qualsiasi cosa sulla sua acromegalia, che non sarà però sull’indice perché nessuno sapeva che l’avesse. Qualsiasi riferimento ai suoi dolori di capo o attacchi di depressione. E qualsiasi cosa tu possa trovare sulla morte di Willie.
— Willie. Era il figlio che morì durante la guerra? — chiese lei.
Annuii. — Sì. Era il figlio prediletto. Lincoln a malapena riuscì a sopravvivere al dolore per la sua morte.
Entrammo in biblioteca e ci guardammo intorno alla ricerca delle biografie. Non avevo osservato bene l’edificio, la prima volta che ero venuto per cercare informazioni sul Thorazine; avevo notato che in precedenza doveva essere stato una scuola, una costruzione squadrata di tre piani costruita nei primi anni del secolo.
Avrebbe potuto essere molto bello, con le sue alte finestre a ghigliottina e i pavimenti di legno, ma aveva l’aspetto decisamente tetro. I pavimenti erano stati coperti qua e là da riquadri di linoleum e da una moquette che sembrava aver sopportato un esercito in marcia. Rigide tende macchiate erano tirate sulle finestre, di modo che l’unica luce utilizzabile era quella cruda dei tubi al neon.
Avevo passato gran parte del mio tempo a girare per biblioteche e di solito preferivo quelle un po’ vecchiotte, con gli scaffali polverosi, ai moderni “centri multimediali” di plastica e piante, ma qui non mi sarebbe dispiaciuto rintracciare una qualche modernità.
La stanza delle biografie era posta lateralmente, su per una breve scala; probabilmente si trattava di una vecchia aula, sebbene le lavagne avessero ceduto il posto agli scaffali. Appoggiai il notes sul tavolo graffiato e andai a controllare gli scaffali della L. C’erano esattamente due libri su Lincoln: l’Abramo Lincoln di Thomas e un antico libro rilegato in cuoio di un autore assolutamente sconosciuto.
Li porsi ad Annie. — Ci troviamo nel Sud, ora. Siamo fortunati ad aver trovato almeno questi due.
Lei andò verso il tavolo e io mi inginocchiai a vedere cosa c’era su Lee. Certo, eravamo nel Sud, ma la cosa non sembrava contare molto. Andai al banco e chiesi dove fosse la sezione di storia; fui indirizzato a una piccola alcova situata a metà scala rispetto alla sala consultazioni dove avevo trovato il manuale di medicina.
Dal momento che ero lì e sapevo che Annie era impegnata, colsi l’occasione per dare un’occhiata al fenobarbital. sul medesimo manuale. Diceva quello che sapevo già, che si trattava di un tranquillante che sopprime il sonno REM. I barbiturici davano assuefazione, specialmente se assunti per un lungo periodo di tempo, e forse era per quello che Richard si era tanto sconvolto sapendo di quella prescrizione, ma complessivamente si trattava di un farmaco leggero, neppure lontanamente paragonabile, come controindicazioni ed effetti collaterali, all’Elavil o tanto meno al Thorazine.
Tornai alla sezione storia. Portava la scritta “Virginiana” ed era scarsa quasi quanto la sezione biografie, il che mi sembrava strano. Fredericksburg era stata una battaglia importante, ed eravamo a un tiro di schioppo da Spotsylvania, Chancellorsville e Wilderness. Quella avrebbe dovuto essere la biblioteca principale in riferimento almeno a quelle battaglie e, dal momento che i ricercatori inevitabilmente l’avrebbero visitata, a tutto il resto della Guerra Civile.
Misi insieme ciò che trovai sulle tre battaglie sognate da Annie e le portai su nella sala biografie, La bibliotecaria, una donna dall’aspetto severo che sarebbe stata una perfetta istitutrice dal righello facile, mi gettò uno sguardo sospettoso ma non fece il tentativo di fermarmi.
Annie aveva i libri aperti davanti a sé e aveva strappato alcune pagine dal blocco per scrivere. Alzò gli occhi e sorrise quando mi sentì entrare, poi si chinò di nuovo sui libri e i capelli leggeri le ricaddero sulle guance. Mi sedetti di fronte a lei, dall’altro lato del tavolo, e mi accinsi a rintracciare qualcosa sulle modalità di riposo di Lee.
Le “ore preziose” del sonno di Lee, tra le nove e mezzanotte, non potevano dar conto dei sogni che Annie aveva avuto a notte fonda o durante il giorno, tuttavia lei mi aveva detto di aver sognato oltre il periodo cruciale solo quando aveva tentato di rimanere sveglia. E poteva darsi che Lee avesse a sua volta tentato di dormire qualche ora qua e là per recuperare le notti insonni.
Lee aveva dormito poco la notte prima di Antietam e, secondo il generale Walker che l’aveva visto in sella a Traveller a metà del guado mentre passavano le divisioni, era rimasto tutta la notte a controllare la ritirata oltre il Potomac.
La notte prima di Fredericksburg, quella stessa in cui l’aurora boreale aveva acceso il cielo e il messaggero dell’Unione era incappato nelle truppe confederate, Lee aveva tenuto i suoi aiutanti svegli a lavorare per tutto il tempo. All’alba era uscito a cavallo a ispezionare le trincee appena scavate dalle squadre di turno. In nessuno dei libri si faceva cenno a un suo riposo dopo la fine della battaglia, sebbene risultasse chiaro che le sue condizioni, dopo tutto questo, dovevano essere al limite dello stremo.
Il dottor Stone aveva detto che quando il corpo viene privato del sonno REM si prende una vendetta. Era questo che significavano i sogni? Stremato dalla tensione della battaglia e dalla mancanza di sonno, aveva forse Lee subito una “tempesta di sogni”?
Non riuscii a ricostruire una trama altrettanto evidente a Chancellorsville. Jackson era stato ferito il due di maggio e non appena l’aveva saputo Lee gli aveva scritto “Avrei preferito essere io al tuo posto”. La notizia dell’amputazione del braccio era arrivata la sera del quattro. Non si faceva cenno a un’eventuale insonnia di Lee quella notte, anche se era facile supporla, dopo una notizia del genere. Il cinque era stato detto che Jackson stava migliorando e si diceva che il generale aveva dormito bene tutta la notte, sotto una tenda da campo a Fairview.
La mattina del sette Jackson iniziò a peggiorare e nel pomeriggio era ormai preda del delirio, gridava ordini e diceva ad A.P. Hill di avanzare con la fanteria. — Fai il tuo dovere — disse al medico che gli stava somministrando mercurio e oppio. — Preparati all’azione. — La domenica proferì chiaramente, con ogni evidenza alla fine di un sogno su una battaglia: — Attraversiamo il fiume e riposiamoci sotto agli alberi — e morì.
Annie chiuse entrambi i libri che aveva davanti. — Ci sarà qualcos’altro su Lincoln? — mi chiese.
— Non lo so — risposi. — Potrebbe esserci qualcosa nella sezione consultazione, al piano di sotto.
Lei annuì e uscì, portando con sé gli appunti.
Iniziai a far scorrere le biografie di Lee, pentendomi di non aver portato con me il Freeman. Il primo libro era organizzato in modo talmente confuso che non riuscii nemmeno a trovare Chancellorsville, tanto meno riferimenti all’insonnia di Lee, ma il secondo, così vecchio da avere le pagine bordate d’oro e scritto con un tremendo linguaggio fiorito, diceva “Quando Lee ricevette la terribile nuova del rapido declino di Jackson, non avendo sortito effetto alcuno l’esperta cura dei medici, egli si volse all’estrema e miglior risorsa in tempi di tribolazione. Per tutta la notte pregò con fervore, prostrato in ginocchio, per la salvezza di Jackson.”
Era stato sveglio per un’intera notte a pregare e probabilmente aveva dormito poco e male nelle tre o quattro notti precedenti a causa della preoccupazione. Esisteva uno schema di coincidenze. In occasione di ognuno degli avvenimenti di cui Annie aveva sognato Lee era stato sveglio per diverse notti di fila. E quindi, quando finalmente era riuscito a dormire, aveva forse subito quella “tempesta di sogni” di cui il dottor Stone aveva parlato. Il medico li aveva definiti incubi, pieni di potenza. Avrebbero potuto essere potenti abbastanza da aprirsi la via attraverso i secoli, fino ad Annie? E se davvero era stato così, come mai lei li stava facendo in rapida sequenza? Jackson era morto ben cinque mesi dopo la battaglia di Fredericksburg.
Guardai l’orologio. Erano le quattro e mezzo. Impilai i libri e li riportai dabbasso. Annie era nella sezione consultazione con un grosso volume aperto davanti a sé. Probabilmente aveva trovato qualcosa, alla fine. Andai alla sezione storia e rimisi a posto i libri direttamente, evitando di consegnarli alla terribile guardiana. Sullo stesso scaffale trovai un libro su Gettysburg.
Pesava una tonnellata. Non provai nemmeno a portarlo nella sala superiore o anche ad appoggiarlo sul tavolo. Mi limitai ad aprirlo sul pavimento, cercando di rintracciare lo stesso schema di veglie anche in occasione di quella battaglia. Gettysburg era la battaglia che seguiva Chancellorsville, ma Annie non le stava sognando tutte. Mi occorreva vedere se le medesima condizioni presenti per gli altri sogni si verificavano anche qui.
C’era un’intera pagina di rimandi a Lee nell’indice. Tentai di cercare, scorrendoli velocemente, i riferimenti al sonno o direttamente alla sua persona, ma era un compito impossibile. Al cinquecento quindicesimo termine mi arresi. Era lì, ogni parola mai scritta su Gettysburg doveva essere lì, ma c’era un problema. Troppo materiale da esaminare, proprio come il veterinario aveva avuto troppi sintomi a disposizione. L’insonnia di Lee si perdeva fra migliaia di fatti. Rialzai con fatica il mastodontico libro, rimettendolo al suo posto, e andai a cercare Annie.
Non era nella sezione riviste. Guardai lungo i corridoi di scaffali e finalmente la vidi, ancora nella stanza delle biografie. Aveva rialzato una delle tende e stava guardando fuori, in direzione del Rappahannock.
— Penso di avere un’ipotesi su che cosa sta causando i sogni — dissi.
Lei si voltò. Aveva un aspetto stanco, come se avesse passato in piedi tutta la notte.
— Penso che avessi ragione quando dicevi che stavi aiutando Lee a dormire — dissi. — Penso che sia esattamente questo che stai facendo.
Uscimmo dal portale dipinto di verde e scendemmo i gradini di cemento. Doveva aver piovuto, mentre eravamo dentro, perché l’asfalto del posteggio era coperto di pozzanghere, ma in quel momento il cielo era chiaro, con una sfumatura color lavanda che suggeriva l’avvicinarsi della sera. L’aria aveva il profumo di fiori di melo.
— Sostenevi che lui non poteva dormire — ripresi. — Avevi ragione. Pare che abbia sofferto d’insonnia durante tutta la guerra, e in occasione delle battaglie non dormiva per nulla. — Le spiegai la mia teoria mentre camminavamo verso l’albergo, raccontandole della “tempesta di sogni” del dottor Stone e dello schema che avevo rintracciato nei sogni di lei.
— Penso ancora che le medicine che hai preso abbiano una qualche relazione con tutto questo, ma non ho ancora capito quale — aggiunsi. — Hai detto che il tuo medico di famiglia ti diede il fenobarbital. Hai notato nessun cambiamento nei sogni mentre lo prendevi?
— No — disse Annie, guardando verso l’albergo, due isolati più avanti. Il gatto nero ci stava venendo incontro, saltellando per evitare le pozzanghere sul marciapiede.
— Per quanto tempo hai preso il fenobarbital?
Il gatto miagolò un saluto che sembrava di riprovazione. Annie si chinò a prenderlo in braccio. — Sapevi che Willie Lincoln, mentre era malato di polmonite, continuava a chiamare il ragazzo che abitava al di là dalla strada? — disse lei. — Il suo nome era Bud Taft. Venne e lo vegliò per tutto il tempo, tenendogli la mano, lo sapevi?
— No, non lo sapevo.
— Una sera, mentre Bud era con Willie, Lincoln entrò e disse «È meglio che tu vada a letto, Bud» e Bud rispose «Se vado via, lui mi chiamerà.»
Il gatto si agitò per essere rimesso a terra. Annie lo posò sul marciapiede e lui si allontanò con aria risentita e sussiegosa. Mezzo isolato più avanti si fermò in mezzo al marciapiede e iniziò a leccarsi le zampe, tranquillamente.
— Non ti è capitato di scoprire dove sia stato sepolto, vero? — chiesi.
— Pensavo che lo avessero sepolto ad Arlington.
— No. E io non riesco a scoprire dove.
Annie osservò il gatto. — Forse nessuno lo sa — disse.
Quando raggiungemmo la bestiola essa si alzò e ci accompagnò fino all’albergo, camminando al nostro fianco.