Robert E. Lee vide per la prima volta Traveller durante la campagna di Big Sewell Mountain, nella Virginia occidentale. Allora cavalcava Richmond, un grande stallone baio che gli era stato donato da un gruppo di ammiratori a Richmond. Ma il cavallo Richmond non aveva il vigore necessario per sostenere una guerra. Si stancava facilmente e si impennava e si ritraeva quando si trovava in mezzo a troppi cavalli. Quando Lee ebbe l’ordine di dirigersi a Sud non portò con sé Richmond. Prese allora un cavallo chiamato Il Roano Scuro, che di lì a poco divenne cieco e dovette essere ritirato. Dopo Manassas il generale Jeb Sturt regalò a Lee una cavalla mansueta chiamata Lucy Long. Nel 1864 Lucy cedette e Lee la mandò nelle retrovie per recuperare. Là fu rubata da alcuni sbandati e venduta a un chirurgo della Virginia.
Il mattino seguente mi svegliai solo alle dieci, e con l’idea che il telefono stesse suonando. Effettivamente doveva aver suonato. La luce rossa della segreteria lampeggiava, così premetti il pulsante per ascoltare i messaggi mentre mi vestivo. Ce n’erano due. Il primo era di Broun, e sullo sfondo si sentiva il rumore dell’automobile. “Jeff, sono sulla strada per New York” diceva. “Stamattina ho chiamato l’agente. Dice che è troppo tardi per aggiungere una scena, che stanno già stampando le bozze, così ora gliela sto portando direttamente per accertarmi che ce la mettano. Sarò indietro stasera. Ah, lascia perdere Arlington. Ci ho pensato stamattina, Arlington divenne un cimitero solo nel 1864 e Willie morì nel ’62. Cercheremo più tardi di ricostruire dove può essere stato sepolto. Adesso restatene a casa e riposati, ragazzo mio. Si prevede neve. Ah… ho sistemato i libri.”
Guardai fuori dalla finestra. Il nevischio gelato della sera prima era stato appena sufficiente a ricoprire le strade di una lamina liscia, ma ora stava ricominciando. Solo pochi fiocchi larghi che si scioglievano prima di toccare terra, ma aveva iniziato in quel modo anche nel West Virginia e nel giro di poco si era trasformato in una bufera.
Il messaggio era terminato già da una trentina di secondi prima che né io né la macchina ce ne rendessimo conto. Broun si era rifiutato di acquistare una normale segreteria con tempo massimo per i messaggi. “Nessuno con cui valga la pena di parlare può spiegare perché chiama in trenta secondi” era ciò che aveva detto, ma in realtà quello che gli premeva era poter leggere lunghi brani delle bozze al telefono oppure farmi incidere il risultato delle mie ricerche fuori sede per poterlo poi ascoltare con calma — lui — e trascriverlo — io — una volta tornato a casa. Aveva fatto installare sulla parete dietro la propria scrivania un complicato quadro elettronico con un nastro attivato dalla voce che potesse registrare fino a tre ore di messaggi e rispondere a ogni tipo di codice a lunga distanza per riavvolgere o cancellare ciò che occorreva.
Infilai un maglione e aspettai il secondo messaggio. Era Richard. “Sono all’Istituto” diceva. “Devo parlarti.” Sembrava irritato proprio come quando se n’era andato la sera prima.
Cancellai entrambi i messaggi e poi chiamai Annie all’appartamento di Richard. — Sono Jeff — dissi quando lei rispose.
— Ho appena provato a chiamarti — disse lei — ma la linea era occupata. Devi ancora andare ad Arlington per le tue ricerche? Mi piacerebbe venire con te.
— Volevo andarci stamattina — risposi. — Sei sicura di voler venire? Le previsioni del tempo sono cattive. — La neve stava scendendo più fitta, ora, e iniziava a fermarsi sull’asfalto. Potevo immaginarla nell’appartamento di Richard, in piedi a guardare dalla finestra.
— Qui non sta nevicando molto — fece. — Mi piacerebbe venire.
— Ti passo a prendere — dissi allora io. — Sarò lì fra un’ora.
— Non è necessario che attraversi la città. C’è una stazione della metropolitana proprio davanti ad Arlington. Possiamo incontrarci là, va bene?
— Okay — risposi. — Sarò là tra mezz’ora.
Presi una bottiglia termica e la riempii con ciò che restava del caffè della colazione di Broun. Ero stato in piedi per metà della notte, cercando una risposta alla domanda di Annie sul gatto di Lee. Non c’erano notizie nel secondo volume del Freeman, né nell’Uomo di Marmo di Connelly. Avevo rintracciato una lettera di Lee alla figlia Mildred dove si menzionavano Baxter e Tom the Nipper, ma si trattava dei gatti di Mildred, e comunque non era probabile che fossero sopravvissuti ai vari spostamenti provocati dalla guerra. Robert E. Lee Junior aveva scritto a nota della lettera che a suo padre piacevano i gatti, ma solo “a modo suo e al loro posto”, il che sembrava indicare che Lee non avesse un gatto particolare suo proprio. Nulla che avevo potuto trovare nella confusione dei libri di Broun diceva niente su un gatto di famiglia presente nel soggiorno di Arlington. Alla fine avevo chiamato uno dei volontari che guidavano le visite alla casa di Arlington. Lo svegliai mentre stava dormendo, ma anche in quelle condizioni mi aveva dato una risposta. “È nelle lettere a Markie Williams” aveva detto, e mi aveva indicato dove trovarle.
La neve si era trasformata in qualcosa a metà fra pioggia e gelo, e comunque di qualità estremamente scivolosa, come mi resi conto non appena fui sulla Rock Creek Parkway. Mi ci vollero venti minuti buoni per arrivare al Lincoln Memorial e poi al di là del ponte.
Annie aspettava sul marciapiede accanto alle scale della stazione della metropolitana, proteggendosi dal gelo nel giaccone grigio. Aveva guanti di lana pure grigi, ma niente in testa, e i suoi capelli chiari erano bagnati di neve.
— Ho già trovato un tempo simile ieri, mentre tornavo dal West Virginia — dissi mentre lei entrava in macchina. Alzai al massimo il riscaldamento. — Che ne dici se lasciassimo perdere tutto e andassimo a pranzare da qualche parte?
— No — fece lei. — Voglio andare.
— Va bene — risposi. — Però può darsi che non riusciremo a scoprire niente. — Arlington era sempre aperto, anche in giornate come quella. Si trattava, dopo tutto, di un cimitero, non di un’attrazione turistica. In quanto alla casa, invece, avevo dei dubbi.
La neve gelata si faceva sempre più spessa. Non riuscivo a vedere nemmeno fino al Seabees Memorial, per non parlare del ponte. — Non ha senso — dissi allora. — Perché non…
— Ho chiesto a Richard se potevamo passare da Arlington, ieri sera, mentre tornavamo a casa. E poi gliel’ho chiesto stamattina. Non vuole. Continua a dire che sto tentando di proiettare le mie pulsioni represse su una causa esterna, che mi sto rifiutando di prendere coscienza di un trauma così terribile che non voglio nemmeno ammettere.
— E tu la pensi così? — chiesi.
— Non lo so — rispose.
— Quante volte hai fatto quel sogno dei soldati morti nel frutteto?
— Non so dire con precisione. L’ho fatto tutte le notti per più di un anno.
— Più di un anno? Sei stata all’Istituto del Sonno così a lungo?
— No — fece lei. — Sono venuta a Washington solo due mesi fa. Il mio medico mi ha mandata dal dottor Stone perché ero quello che chiamano una pleinsonne. Mi svegliavo in continuazione.
— Il dottor Stone?
— È il capo dell’Istituto, ma all’epoca si trovava in California, così fu Richard a vedermi. Rimasi all’Istituto per una settimana, mentre mi facevano tutti i tipi di test, poi avrei dovuto diventare una paziente non ricoverata, ma il sogno iniziò a peggiorare.
— Peggiorare? Come?
— Quando iniziai a farlo, non riuscivo in seguito a ricordare molto. C’era il soldato morto e la neve e l’albero di mele, ma tutto era confuso. Non confuso, in realtà, ma distante, remoto. E poi, dopo essere stata in cura all’Istituto per due settimane, improvvisamente diventò più chiaro. Una volta mi svegliai così terrorizzata che non sapevo cosa fare. — Le mani coperte dai guanti erano strette a pugno contro il ventre.
— Sei tornata all’Istituto?
— No. — Abbassò gli occhi sulle mani. — Chiamai Richard e gli dissi che avevo paura di stare sola. Lui disse di prendere un taxi e andare subito da lui, che avrei potuto rimanere là.
Non stento a crederlo, pensai. — Hai detto che il sogno si era fatto più chiaro? Intendi, come mettere a fuoco un obiettivo?
— No, non esattamente. Il sogno in sé non cambiava. Solo, mi spaventava di più. Era in qualche modo… più preciso. Iniziai a notare particolari come il messaggio sul braccio del soldato. Era stato lì tutto il tempo, solo che prima non l’avevo visto. E vidi che l’albero di mele era in fiore. Non credo di averlo mai notato, prima.
I tergicristalli stavano iniziando a coprirsi di ghiaccio. Aprii il finestrino e allungai un braccio per scrostarli. Una lastra di ghiaccio cadde a terra dal vetro. — E il gatto? Era nel sogno fin dall’inizio?
— Sì. Credi anche tu che io sia matta, come Richard?
— No. — Manovrai con attenzione il volante, per evitare di finire contro il marciapiede.
Vidi gli alti cancelli del cimitero solo quando vi arrivammo praticamente addosso, e all’interno la casa non si riusciva assolutamente a scorgere. Di solito è ben visibile fin dal Mall, al di là del Potomac. con la sua caratteristica forma che richiama un dorato tempio greco più che non la casa padronale di una tenuta.
— Robert E. Lee aveva un gatto, vero? — disse lei.
— Sì — risposi, svoltando oltre il cancello di ferro che si apriva verso il centro dei visitatori. Mostrai a una guardia imbacuccata il lasciapassare di Broun che permetteva di arrivare in macchina oltre il posteggio dei visitatori, su per la collina fino ad Arlington House. E ancora non si riusciva a scorgere che una forma vaga, la massa di una casa, persino dopo aver parcheggiato vicino alla piccola costruzione, sul retro, che ospitava il negozio di oggetti-ricordo. Annie non guardava la casa. Non appena ebbi fermato l’auto lei uscì e si diresse verso il prato, come se sapesse esattamente dove andare.
La seguii, cercando di distinguere attraverso la neve se la casa fosse aperta o no. Non riuscivo a capire. Di certo non c’erano altre auto ferme nel parcheggio, e nemmeno tracce di piedi sulla neve, che però ormai cadeva così fitta da riuscire a coprirle comunque in poco tempo. Il solo modo di sapere sarebbe stato arrivare fino alla porta sul davanti, ma Annie era già presso la prima fila di tombe, sul limite del prato, la testa china a leggere il nome inciso, come se non fosse consapevole della neve e del freddo che la circondava.
La raggiunsi e mi chinai con lei. La neve non riusciva ancora a fermarsi sull’erba, tranne che in macchie isolate, qua e là, che si scioglievano e poi gelavano, disegnando trame di ghiaccio attraverso i cespugli. Però il vento l’aveva ammonticchiata contro le pietre tombali, tanto da rendere impossibile leggere i nomi. A fatica decifrai il primo.
— “John Goulding, Luogotenente, Sedicesimo Cavalleria di New York” — lesse Annie.
— Questi non sono i soldati che erano stati originariamente sepolti qui — dissi. — Quelli erano tutte reclute. Gli ufficiali erano sepolti sulla collina di fronte alla casa.
La seconda pietra era coperta di neve. Mi chinai e la tolsi con la mano nuda, desiderando di aver portato i guanti. — Vedi? “Gustave Von Branson, Luogotenente, Compagnia K, Terzo Volontari del Vermont”. Il luogotenente Von Branson fu sepolto qui solo dopo il 1865, cioè dopo che Arlington divenne cimitero nazionale. — Mi rialzai, sfregando la mano bagnata sui jeans, e mi voltai. — Poi il comandante Meigs spostò le reclute a…
Annie non c’era più. — Annie? — feci stupidamente, e guardai lungo la fila di tombe, pensando che forse era andata oltre: ma non la vidi. Dev’essere tornata verso la casa, pensai. Forse la casa era aperta anche oggi, dopo tutto.
Tornai rapidamente lungo il vialetto di ghiaia fino ai gradini scivolosi del porticato. Il vento continuava a soffiare neve sopra al pavimento di piastrelle rosse del portico e alle colonne marroni, tanto da renderle ormai bianche.
Tentai la porta, poi la spinsi con più energia. — Siete aperti? — gridai, cercando di vedere attraverso i vetri. Non c’erano altre impronte nel portico tranne le mie. ma rimasi là un altro buon minuto, spingendo di tanto in tanto, come se pensassi che Annie avrebbe potuto essersi chiusa dentro per sbaglio; dopo di che il mio essere razionale, mi disse che probabilmente lei era tornata alla macchina, così girai attorno alla casa per vedere.
Non era alla macchina, e il negozietto di regali era sbarrato, e allora smisi di fingere di non essere preoccupato e tornai di corsa sul davanti della casa, per controllare la collina antistante e il prato più sotto, dove i corpi erano stati sepolti.
In quel breve lasso di tempo il vento si era rafforzato e non riuscii a vedere che pochi metri giù per la collina. — Annie! — gridai.
Non ero sicuro nemmeno che l’avrei sentita, in caso avesse risposto, ma gridai di nuovo, pronto a lanciarmi di corsa giù per la collina, e allora vidi un lampo grigio che si muoveva fra gli alberi dall’altra parte di Arlington House. Mi misi a correre. Doveva trovarsi sul viale Cutsis. l’ampio marciapiede di cemento che saliva dalla strada di sotto. Questa strada asfaltata compiva un largo giro attorno alla collina, per non rovinare la vista che si aveva dall’alto di Arlington House, e mentre correvo mi chiesi se non fosse per quello che avevano spostato anche i corpi, perché rovinavano la vista.
Il viale non era coperto di neve, poiché lo proteggevano i grandi alberi ai lati, e feci i gradoni in discesa a due a due. tentando di raggiungerla.
Improvvisamente mi trovai presso il muro rotondo e la lastra di marmo del Kennedy Memorial. La fiamma perpetua bruciava sulla tomba al centro di un cerchio di pietre irregolari, brunite, facendo sciogliere la neve tutto attorno.
Guardai in dietro, verso l’alto. La neve scendeva praticamente in orizzontale giù dalla collina e la casa non si vedeva più; ma vidi Annie. Era a mezza strada, dietro a un basso muro, e guardava in giù verso il prato coperto di neve dove più nessuno era sepolto. Dovevo averla superata senza accorgermene, nella mia corsa giù per i gradini. Lei non mi vedeva, là in piedi mentre la guardavo impotente, ma io potevo distinguere persino l’espressione che aveva sul viso, nonostante la distanza e la neve che continuava a turbinare.
Mi era apparsa spaventata la sera prima, mentre mi raccontava del sogno, ma quell’espressione era niente in confronto al terrore che vedevo ora sul suo viso. Mi sembrava di poterli scorgere, soldati dai capelli biondi con le braccia spalancate sull’erba innevata, i fucili sotto di loro, l’inchiostro sui foglietti agganciati alle maniche che si scioglieva al tocco della neve. Potevo vedere tutto, persino il gatto, tutto riflesso sul viso di Annie, e seppi di aver fatto male a portarla laggiù.
— Annie! — urlai, slanciandomi su per il vialetto ripido, le scarpe che scivolavano sull’erba gelata. — Forza! — gridai come se stesse per cadere. — Sto arrivando!
Scavalcai a fatica il muretto di cemento. — Ti avevo perso — feci ansimando — stai bene?
— Sì — rispose lei, continuando a fissare giù dalla collina. — Raccontami di Robert Lee.
Il suo giaccone era coperto di neve. I capelli erano fradici. Doveva essere rimasta là per tutto il tempo in cui mi ero affannato a cercarla.
— Ho fatto male a portarti qui — dissi. — Morirai di freddo. Torniamo alla macchina.
— Non è mai più tornato qui?
— Conosco un posto magnifico proprio al di là dal ponte. Un grosso camino. Caffè eccezionale. Possiamo andare là a parlare di Lee. — La presi per un braccio. — Là ti dirò tutto quello che vuoi sapere.
Non sembrò nemmeno accorgersi della mia mano sul suo braccio. — Tornò qui dopo la guerra?
— No — dissi. — La vide una volta. Dal finestrino di un treno.
Annuì come se le avessi confermato qualcosa che già sapeva.
— Andiamo almeno sotto al porticato. Saremo al riparo dal vento.
— Era un uomo buono, vero?Lo dicono tutti, che era un uomo buono.
Volevo portarla via dalla neve, toglierle quel giaccone bagnato e le scarpe fradice di fronte a un fuoco perché non prendesse una polmonite, ma non sarei mai riuscito a smuoverla finché non avessi risposto alle sue domande. Lasciai andare il braccio. — Era un uomo buono, credo, almeno se si può definire così qualcuno che ha diretto il massacro di duecentocinquantamila uomini — dissi. — Era coraggioso, pieno di dignità, pietoso, gentile verso i bambini e gli animali. Tutti lo amavano, persino Lincoln.
— I suoi soldati lo amavano — disse Annie. Si era tolta i guanti e li tormentava fra le mani.
— Sì — risposi ancora. — Una volta a Cold Harbor una colonna di suoi soldati lo vide che riposava sotto un albero. Fu passata parola che “il generale Robert” stava dormendo. L’intera colonna passò di fianco a lui praticamente in punta di piedi per non svegliarlo. I suoi uomini lo amavano. Il suo cavallo lo amava.
— Duecentocinquantamila uomini — ripeté lei. — Se era un uomo buono, come poté sopportare, spingere alla morte tutti quei ragazzi? Non sarà mai riuscito a scordarlo nemmeno per un istante, vero?
— Non lo so.
— Forse è per questo che non può riposare. Per tutti quei ragazzi. — Si voltò a guardarmi. — È questa la casa del mio sogno. Nel sogno sembra la mia casa, ma non è la mia casa. È questa casa. E non è il mio sogno. — Si voltò ancora e guardò giù verso il Kennedy Memorial. La fiamma perpetua, bruciando all’interno del circolo di pietre, sembrava il fuoco da campo di un soldato. — Dimmi del gatto.
— Hai mai avuto un gatto? Quando eri piccola? — chiesi.
— No — rispose lei. — Tu pensi che sia pazza, vero? — Aveva lasciato cadere i guanti. Le sue mani, appoggiate sul basso muro ruvido, erano rosse e bagnate.
— No.
— Richard dice che mi è successo qualcosa, da piccola, qualcosa che non riesco a ricordare ma che mi provoca i sogni, e che l’albero di mele e i corpi e il gatto sono tutti simboli di quel qualcosa. Dice che il foglietto vuoto agganciato alla manica del soldato è il simbolo del messaggio che il mio inconscio mi manda ma che io ho troppa paura di leggere.
— La figlia di Robert Lee aveva un gatto di nome Tom Tita — dissi. — Un tabby rosso. Fu lasciato per errore ad Arlington quando i Lee se ne andarono. Quando una cugina, Markie Williams, andò ad Arlington per prendere alcune cose da inviare loro, trovò il gatto. Era rimasto chiuso nell’attico e si era nutrito di topi.
— Che cosa gli accadde?
Mi chinai a raccogliere i guanti. — Non lo so. — Glieli tesi. — Non dice se l’ha portato con sé oppure no. Penso che lo abbia lasciato qui con i soldati dell’Unione, che avevano occupato la casa. Non so che cosa gli accadde.
— Ho freddo — disse lei, e si incamminò davanti a me lungo il vialetto fino alla casa.
Il porticato non offriva un gran riparo. La neve stava iniziando ad accumularsi contro i gradini di legno e aveva quasi del tutto coperto il pavimento di mattonelle rosse. — Perché non andiamo a sederci in macchina per parlare? — dissi. — Qui si gela.
Sedette su una panca dipinta di nero. — L’hai trovato in un libro? — chiese. — Del gatto?
— In una lettera.
— Potrei averla letta anch’io, molto tempo fa, e poi aver dimenticato persino di averla letta. Potrei aver letto da qualche parte che Arlington era la casa di Lee e aver dimenticato anche questo.
— Come Bridey Murphy — dissi io. — Era stata ipnotizzata. Ma non poteva sognare.
— Richard dice che i sogni non sono come li ricordiamo da svegli. Che sono emozioni proiettate in forma di immagini o di simboli, ma che nell’attimo in cui le persone si svegliano tentano di nascondere il significato dei sogni appena fatti aggiungendovi dettagli e cancellandone altri, così che sembrano significare qualcos’altro. Forse è quello che anch’io sto facendo. Sto trasformandoli in soldati morti mentre sono in realtà qualcos’altro.
— Che cosa? — chiesi.
— Non lo so.
— Che tipo di fucile aveva il soldato? Quello che hai calpestato. Dicevi che stringeva ancora il suo fucile. Che tipo di fucile era?
— Penso che fosse un fucile giocattolo — disse lei. — Sembrava un fucile, ma aveva al posto del caricatore una striscia di carta con le cartucce, come una pistola giocattolo. — Alzò lo sguardo su di me. — Significa forse che ho sparato a qualcuno con una pistola giocattolo nel nostro frutteto, a casa, e poi mi sono obbligata a dimenticarlo?
La neve si era trasformata in una cortina che ci circondava. Non riuscivo a vedere oltre il limite del porticato. — Uno dei fucili usati nella Guerra Civile era lo Springfield. Era un fucile a percussione che utilizzava un caricatore simile a una striscia di carta, come quella delle pistole giocattolo.
— Ho fatto ancora il sogno, l’altra notte — disse lei.
— Non possiamo rimanere qui. Puoi raccontarmelo anche se andiamo in macchina — feci, alzandomi e tendendole la mano. Lei la afferrò con la propria, gelida, e io l’aiutai ad alzarsi, sentendo il desiderio di afferrare entrambe le sue mani e tenerle sul petto, accarezzandole per far tornare in loro un po’ di calore; ma lei la ritrasse non appena fu in piedi, infilando quindi i guanti fradici. Camminammo verso la macchina.
L’avviai mentre alzavo al massimo il riscaldamento. Non azionai i tergicristalli, e la cortina di neve ci nascose la vista della casa, del prato e delle tombe.
— Stavo sotto l’albero di mele, solo che adesso si trovava su una collina, ai cui piedi scorreva un ruscello; dove avrebbe dovuto esserci la mia casa c’era la chiesa presbiteriana a cui andavo quando ero piccola — disse. Tolse i guanti, cominciò a tormentarli fra le mani, poi si fermò e li infilò in tasca.
— Era pomeriggio e Richard era con me. Indossava le pantofole e guardava qualcosa giù per la collina, ma io non riuscivo a vedere cosa, e mi arrabbiavo perché non mi aiutava a cercare. — Si fermò, fissando il parabrezza coperto di neve.
— Aiutarti a cercare cosa?
— Il messaggio. Ce ne dovevano essere centonovantuno, però uno mancava, così dissi a Richard «Dobbiamo trovarlo», ma lui non metteva giù il cannocchiale, si limitava a indicare i piedi della collina dicendo «Chiedi a Hill. Lui lo sa dov’è» e dapprima pensavo che si riferisse alla collina su cui ci trovavamo, ma poi vidi un uomo su un cavallo grigio. Allora mi avvicinai e chiesi irritata «Dov’è?» ma nemmeno lui mi prestò attenzione. Stava tentando di scendere da cavallo, ma il cavallo era caduto in avanti, come inginocchiato. Le sue ginocchia erano piegate in sotto…
Tentò di farmi vedere, ma non riusciva a piegare i gomiti nel modo giusto, e io già sapevo com’era caduto quel cavallo. Chiusi gli occhi.
— Aveva un piede nella staffa e stava tentando di far passare l’altra gamba sulla sella, ma non ci riusciva. Dopo un po’ tornai verso l’alto da Richard e dissi «Dobbiamo trovarlo». Nemmeno lui mi rispose, perché stava guardando con il cannocchiale oltre la chiesa, verso sud. Stavo per prendergli di mano il cannocchiale quando improvvisamente vidi ciò che stava guardando. Era un’intera colonna di soldati dell’Unione, che avanzava da sud. Dissi «Di chi sono quelle truppe?» Richard mi tese il cannocchiale, ma io avevo le mani fasciate e non riuscivo ad afferrarlo, così feci guardare di nuovo a lui, e lui disse «Sono Federali» e io dissi «No, è Hill», e in quel momento l’uomo che era stato sul cavallo caduto arrivò al galoppo su un altro cavallo. Ora però indossava una camicia rossa di lana e io ero felice di vederlo, perché tutto ciò significava che nonostante noi non lo potessimo trovare lui aveva avuto il messaggio.
Non dissi nulla. Facevo scorrere le dita attorno al cerchio del volante e pensavo al modo di riportarla a casa prima che la bufera ci intrappolasse entrambi laggiù.
— Forse Richard ha ragione — fece lei — e qualunque cosa sia scritta in quel messaggio perduto è ciò che io non riesco a ricordare.
— E allora le bende sulle mani? E i Confederali con le uniformi azzurre? E il numero centonovantuno? Che cosa significherebbero?
— Non lo so — fece lei lievemente, e si infilò di nuovo i guanti. — Me lo dirà Richard. È lui lo psichiatra.
— L’ultimo libro di Broun è sull’Antietam — dissi. — Ho passato gli ultimi sei mesi a cercare qualsiasi cosa sia stata scritta su quella battaglia.
— E sai perché le mie mani erano bendate?
— Lee si ruppe la mano destra e distorse la sinistra appena prima della marcia nel Maryland. Portava ancora le stecche e le bende all’Antietam. Lee aveva mandato un messaggio urgente a A.P. Hill all’Harper’s Ferry, dicendogli di portare i suoi uomini il più presto possibile, così quando vide soldati arrivare da sud sperò che si trattasse delle truppe di Hill, ma gli uomini indossavano uniformi azzurre.
“Chiese a uno dei suoi aiutanti «Che truppe sono quelle?» L’aiutante disse che si trattava di truppe dell’Unione e si offrì di aiutare Lee a tenere il cannocchiale, ma lui alzò le mani fasciate e disse «Non posso usarlo. Che truppe sono?» L’aiutante guardò di nuovo, e questa volta vide sventolare la bandiera dei Confederati.
“Erano gli uomini di Hill, che stavano arrivando da Harper’s Ferry dopo una marcia forzata di diciassette miglia. Hill cavalcava davanti a loro. Indossava una camicia rossa. — Strinsi le mani attorno al volante. — Avevano le uniformi dell’Unione perché avevano conquistato anche un magazzino, ad Harper’s Ferry.”
Annie si voltò e guardò verso le tombe che non poteva vedere. — Voglio andare a casa — disse.