10

L’episodio della carica di Pickett fu il momento peggiore della guerra per Lee. Nonostante dicesse ai suoi uomini “Non scoraggiatevi” doveva essere conscio che la guerra era ormai perduta, dopo quella sconfitta. I generali Garnett e Armistead erano morti, il generale Kemper era gravemente ferito e c’erano state oltre ventimila perdite in tre giorni. Se anche l’esercito fosse riuscito ad arrivare in salvo in Virginia, non avrebbe mai potuto recuperare forze sufficienti per una grande offensiva. La lunga ritirata che doveva portare al frutteto stava incominciando.

Quella sera, stremato, Lee tentò di smontare da cavallo ma non ci riuscì. Un assitente si chinò in avanti per aiutarlo e allora lui, con uno sforzo supremo, si gettò giù e rimase appoggiato a Traveller. — È troppo! — disse. — Oh, è troppo!


Annie dormì un sonno agitato per l’intero pomeriggio, senza sognare ma anche senza riuscire a riposare bene. Alle sei andai in macchina da McDonald a prendere degli hamburger. Lei si alzò ma non riuscì a mangiare quasi nulla: allora tentò di rimettersi a letto, ma senza più riuscire a prender sonno. Si mise a camminare per la stanza, su e giù, con un passo da automa.

— Vuoi provare a leggere le bozze? — le chiesi, poiché aveva detto una volta che l’aiutavano a non pensare ai sogni: ma lei scosse la testa e continuò ad andare avanti e indietro, fermandosi di tanto in tanto e appoggiandosi alla finestra. Sembrava morta di fatica, aveva gli occhi circondati da ombre scure e il viso pallidissimo.

— Pensi che la biblioteca sarà aperta di sera? — chiese.

— Chiudeva alle sei — risposi. — Potremmo andare al cinema. Potrei andare a prendere un giornale per vedere che cosa c’è.

— No, io… — tornò al letto e si distese. Dopo un poco chiese con voce assonnata: — A che ora apre al mattino?

— La biblioteca? Alle nove — risposi, e poi non ebbi il coraggio di chiedere che cosa volesse cercare in biblioteca per paura di svegliarla. Sembrava infatti già addormentata.

Continuai a leggere il Freeman. Non cercai più nulla su Annie Lee. Non c’era motivo. Avevo pensato che Annie sarebbe stata felice di scoprire finalmente perché stava facendo quei sogni, ma lei non aveva dimostrato il minimo interesse. E la notizia non l’aveva certo aiutata a dormire.

Quando mi stancai del Freeman presi in mano le bozze. Ben e Malachi si erano imbattuti nel proprio reparto di artiglieria e si erano messi al sicuro. Non mi ricordavo quel passaggio. Nell’ultima versione che avevo letto si erano separati e Ben alla fine era stato raccolto da un’ambulanza; in questa versione invece erano finiti ben oltre la valle dove avrebbero dovuto essere. Mi chiesi se era questa la scena che Broun aveva scritto quel pomeriggio, quando l’avevo accusato di essere ossessionato dal libro su Lincoln.

Perché non chiediamo a qualcuno dov’è il nostro reggimento? — fece Ben.

Malachi indicò dietro di loro. oltre il campo di granturco, la strada e una trincea piena di uomini. Laggiù non c’era troppa nebbia e Ben poté vedere il sole brillare sulle baionette. — Ci gioco la testa che sono quelli, ma come diavolo facciamo a raggiungerli? Siamo tagliati fuori ed è meglio restare qui.

Malachi gridò la risposta, che Ben poté capire solo dal movimento delle labbra. Il crepitare dei fucili diventava più forte di minuto in minuto, ogni sparo aveva smesso di essere un rumore separato e tutto si fondeva in un rotolare di tuono. Solo dal fumo Ben capiva quando i fucili stavano sparando.

— Via! — gridò Malachi. Ben non sentì nemmeno quello, però iniziò a correre, tenendo la testa bassa come per evitare il rumore.

Finirono diritti contro un cannone. La canna era esplosa e gli uomini che lo circondavano giacevano sulla schiena. Un uomo con il cappello di paglia e un ragazzo stavano tentando di liberare i cavalli dal carro che lo trasportava. Un tenente arrivò a cavallo e gridò: — Tirate indietro quei cavalli! — e Ben si stupì di udire la sua voce. — Voi due! Aiutatelo! — disse, indicando con la spada il ragazzo, che stava lottando con le redini.

L’uomo con il cappello di paglia aveva sganciato le briglie, ma i cavalli erano rimasti impigliati. Una delle corde era arrotolata attorno alla zampa posteriore del cavallo. E più tentava di liberarsi più rimaneva impigliato.

Ben afferrò le redini del cavallo e tentò di farlo star fermo. Malachi, di lato, cercò di farlo arretrare verso il carro. L’uomo con il cappello di paglia si infilò sotto per tagliare la fune, ma il cavallo nitrì e tentò di impennarsi.

Sta fermo, dannato scemo — gridò Malachi al cavallo. — Vuoi farti ammazzare?

Ben fece un passo indietro, per sottrarsi agli zoccoli, senza mollare le redini. — Tienilo fermo, dannazione! — gridò Malachi.

Ci fu un tremendo rombo. Ben fu sorpreso di poterlo udire. Terra ed erba e pezzi di metallo volarono davanti al carro e il cavallo piombò sulle zampe anteriori, a corpo morto, e poi si rovesciò di lato addosso a Malachi. Ben si precipitò. Il peso del cavallo era tutto sul petto di Malachi. — Dannato cavallo, sporco cretino — fece Malachi. — Levati!

Ben riuscì a prenderlo per le spalle, ma non a trascinarlo fuori da sotto. Si alzò per chiamare il ragazzo, ma non vide più nessuno intorno. L’uomo con il cappello di paglia pendeva dal fianco del carro, e le sue braccia andavano su e giù come rami al vento.

— Ho sempre odiato i cavalli — disse Malachi con voce chiara e forte che Ben non ebbe difficoltà a udire. — Un dannato stallone grigio mi morsicò alle chiappe quand’ero ragazzo, e da allora non mi sono mai fidato.

Ben stringeva ancora le redini. Fece un passo indietro e tirò con tutta la sua forza, e la testa del cavallo si spostò leggermente. Il collo sembrava essersi allungato in modo innaturale, come un elastico teso. Ben tirò di nuovo.

— E poi un altro dannato cavallo si ferisce al piede, e io devo alzargli la zampa per guardare lo zoccolo. Ma lui non vuole, e allora io devo piegarmi per vedere — disse. Un rivoletto di sangue e muco gli uscì dal naso. Lui soffiò e proseguì — Mi molla un calcio fra stomaco e pancia, e io devo andare avanti a brodini per due settimane.

Ben lasciò cadere le redini e si chinò vicino a Malachi. Infilò le braccia sotto il ventre del cavallo e tentò di alzarlo. — Non ce la fai a scivolare fuori? — chiese.

— Dopo una cosa così sei sempre a guardarti alle spalle, e non avrei mai pensato che uno scemo di cavallo potesse cadermi addosso di fianco. — Un rivolo più grosso di sangue gli uscì dalla bocca e scese fra la barba.

Malachi? — chiese Ben, anche se sapeva che Malachi era morto. Si rialzò. I combattimenti si erano spostati verso sud, verso Sharpsburg. Ben adesso poteva distinguere i colpi singoli dei fucili. Guardò Malachi a terra. Uno degli stivali spuntava da sotto la coda del cavallo, l’altro era per metà sotto una zampa. Ben si chinò e tolse lo stivale. Malachi non portava calze, e aveva una vescica bluastra sul calcagno. Ben capovolse lo stivale. Poi lo posò a terra e iniziò a togliere l’altro.

— Ehi tu! — gridò un uomo a cavallo. Era lo stesso tenente che prima aveva ordinato di liberare i cavalli. Mosse la spada verso Ben. — Vieni via da lì! Di che reggimento sei?

Lo stivale si sfilò e Ben si rialzò, tenedolo in mano. — Stavo cercando…

— Stavi cercando di procurarti un paio di stivali. Torna al tuo reggimento prima che ti faccia incriminare per saccheggio! — Mosse la spada minacciosamente.

Ben infilò la mano nello stivale e ne trasse un rettangolo di carta umida. — Non hai il diritto di parlarmi in questo modo — disse. — Stavo solo cercando di essere utile. — Si chinò e infilò il pezzo di carta nella tasca della camicia di Malachi, poi si voltò e discese la collina in direzione degli spari.

Nella versione originale Ben non riusciva a scoprire che cosa fosse accaduto a Malachi. L’aveva semplicemente perso di vista, come era successo a chissà quanti altri soldati ad Antietam a Fredericksburg o a Chancellorsville. — È morto? — avevo chiesto a Broun dopo aver letto la prima stesura.

— Morto? Diavolo, no, un vecchio stalliere come Malachi è troppo furbo per morire. Ha tagliato la corda in California dopo Gettysburg.

Broun aveva riscritto la scena perché era furioso con me, ma che cosa aveva cercato di comunicare? Forse si identificava con Malachi, mentre lottava contro un assistente recalcitrante che non voleva cooperare neppure per il proprio bene, oppure si identificava con Ben, che stava solo cercando di essere utile e si ritrovava minacciato di esecuzione per saccheggio, a dispetto del proprio dolore. Broun era irritato contro di me, quel pomeriggio, ma era anche preoccupato. Mi aveva appena chiesto se non fossi un paziente di Richard, se non stessi prendendo medicine. Forse aveva scritto quel capitolo per mostrarmi che era preoccupato per me, che voleva solo aiutarmi.

Guardai l’orologio. Erano le undici e mezzo, le otto e mezzo in California, e Dio sapeva che ore fossero nel Nord Virginia o in Pennsylvania o dovunque si trovasse Lee quella notte. Annie sospirò nel sonno e si girò. Misi la catena alla porta e spostai la poltrona vicino. Rimasi in piedi per un po’, a guardarla dormire, senza poterla aiutare, poi mi sedetti a leggere.

Ben trasportò soldati feriti per tutto il pomeriggio. Il fratello di Ben, nell’esercito dell’Unione, riuscì ad uscire dal Bosco Orientale e ad attraversare la Sunken Road prima di essere colpito al fianco. Rimase immobile al sole cocente per diverso tempo, poi riuscì a strisciare fin sotto un mucchio di fieno, dove svenne. Alle due e mezzo una palla di mortaio incendiò il fieno e lui fu bruciato vivo.

— Non possono tenere quella postazione — disse Annie. Sedette e gettò giù le gambe dal letto. — Gliel’ho detto… — Si alzò.

Gettai uno sguardo alla porta, anche se avevo appena agganciato la catena, e feci per precauzione un passo in quella direzione; ma lei sedette ancora sul letto e mise le braccia attorno alla testiera di legno. — Colpa mia — disse, in un sussurro.

Tentai di sedermi accanto a lei, ma si ritrasse, e allora tornai sulla poltrona e mi chinai in avanti, le mani fra le ginocchia. — Annie!

— Lo so! Lo so! — disse amaramente. Si alzò di nuovo, un braccio ancora appoggiato alla testiera. — Dov’è? — chiese, e si voltò a guardare qualcuno dietro di sé. — Aveva l’ordine di dire a Hood di mandare la sua divisione.

Fece un passo rigido, da sonnambula, verso la porta che dava in camera mia. — Tenta di ricostituire la tua divisione in mezzo a quegli alberi — disse dolcemente, come se stesse parlando a un bambino.

— Annie? — dissi piano, andando a mettermi fra lei e la porta, cercando di ricordare se avevo messo la catena anche alla mia porta esterna. — So dove ci troviamo. È la divisione di Pickett. Longstreet non ha mandato i rinforzi.

Lei mi guardò direttamente. — Non scoraggiarti — disse. Non c’era emozione nella sua voce, ma l’espressione del suo viso era quella che aveva ad Arlington, mentre osservava giù per la collina i corpi dei soldati morti. — È stata colpa mia questa volta. Portali al riparo e ricompatta le file.

Andò avanti così per mezz’ora. Di tanto in tanto si chinava, le mani a toccare il pavimento, come se aiutasse a rialzare i soldati caduti. Poi ricordai che Lee era a cavallo. In sella a Traveller era andato avanti fino al drappello di sopravvissuti e li aveva indirizzati al coperto, fra gli alberi. Quindi stava chinandosi per toccare la spalla dei soldati, per dare incoraggiamento mentre questi arretravano trascinandosi. — Colpa mia — Annie ripeteva piano, continuamente. — Colpa mia.

Ed ero stato io a desiderare che sognasse Gettysburg, per provare la mia teoria. — Non è colpa tua — dissi.

La presi per un braccio, delicatamente, e la ricondussi a letto; lei si sedette e mise di nuovo le braccia attorno alla testiera. — È troppo — disse con voce disperata. — Oh, è troppo.

Non si mosse da quella posizione nemmeno dopo che si fu svegliata. — Ero sotto l’albero di mele e guardavo la casa — disse calma, ma le braccia erano ancora attorno alla testiera di legno. — Solo che questa volta non si trattava di un frutteto, ma di una foresta.

— La linea dei boschi — dissi. — A Gettysburg.

— Sapevo che non era davvero un frutteto e che gli alberi non erano davvero meli, anche se portavano dei piccoli frutti verdi. Era estate. Faceva così caldo che pareva di essere in un forno. Indossavo il pastrano grigio e continuavo a pensare di toglierlo, ma non potevo perché dovevo dire ai soldati che arrivavano l’uno dopo l’altro di andare a rifugiarsi fra gli alberi. Loro cercavano di scavalcare la staccionata davanti al porticato, però non si trattava di una vera staccionata, era simile a un muro e non ci riuscivano. Io non capivo come mai non entrassero nel portico, non vedevo perché c’era fumo tutt’intorno, loro tornavano nel frutteto che era pieno di sangue. Continuavo a ripetere “È colpa mia, è colpa mia” a tutti quelli che mi sorpassavano.

Sedetti al suo fianco sul letto e le dissi che cosa significava il sogno, anche se ormai non speravo più di poterla aiutare con quei racconti, non più di quanto avesse potuto fare Richard con le sue teorie e le sue pillole.

Mi aveva detto che se io le spiegavo i sogni tutto diventava più facile, ma l’avevo fatto per una settimana e i sogni erano peggiorati. Non sarebbe servito nemmeno riportarla ad Arlington, e non avevo intenzione di riconsegnarla a Richard, tuttavia tenerla qui a Fredericksburg non era molto meglio. Prima o poi mi avrebbe chiesto di portarla sul campo di battaglia. Per trovare che cosa? Un’intera nuova batteria di sogni? Spotsylvania? Petersburg? Wilderness, dove i feriti vennero bruciati vivi? Era rimasta una sfilza di straordinarie possibilità. La guerra era solo a metà strada.

— Prometti che non tenterai di interrompere i sogni — mi aveva detto il primo giorno a Fredericksburg. E io l’avevo promesso. Anche Lee aveva fatto promesse. “Non avrei potuto fare altrimenti” aveva scritto a Markie Williams. Ma quando vide ragazzi di sedici anni spezzati come steli di granturco, quando li vide scalzi e sanguinanti e morti, non prese in considerazione la possibilità di rompere le sue promesse?

Mi sentii improvvisamente troppo stanco persino per rimanere in piedi. Andai in camera mia, spinsi giù le bozze dal letto e mi buttai sopra.

Dormii fino alle sei e mezzo. Le tre e mezzo in California. Troppo presto per chiamare Broun. Andai alla caffetteria a leggere le bozze, lasciando che la cameriera dai capelli rossi mi riempisse la tazza di caffè ogni volta che ne bevevo metà, colmandola continuamente di liquido bollente.

Il cavallo di D.H. Hill ebbe le zampe spezzate. Ben ritrovò il suo reggimento, e con questo marciò verso sud-est, verso Sharpsburg. Lee tentò di usare il cannocchiale ma non poté, perché aveva le mani bendate. A.P. Hill arrivò al galoppo con una camicia rossa portando buone notizie, e Ben venne ferito a un piede.

Alle nove chiamai l’albergo di Broun dal telefono della caffetteria. Era partito.

Tornai in stanza, entrando dalla porta esterna. Annie dormiva, abbracciando il cuscino come aveva fatto prima con la testiera del letto. Chiamai la segreteria telefonica. “Stai certo chiedendoti dove sono andato” disse Broun. “Sono a San Diego. Al Westgate. Sono venuto qui per incontrare un endocrinologo. È stato lo psichiatra a indicarmelo. È un esperto di equilibri ormonali a livello cerebrale. Chiamami se hai bisogno di qualcosa, ragazzo.”

— Ci proverò — dissi. Chiamai il Westgate a San Diego. Una voce su nastro mi chiese chi cercassi e, alla mia risposta, mi mise in collegamento con la camera di Broun. Ma lui non c’era.

Mi chiesi dove si trovasse davvero. Forse a incontrare l’endocrinologo, oppure in fila all’aeroporto, oppure da qualche altra parte, e la sua voce gentile e burbera avrebbe continuato a ripetere “Sono a San Diego al Westgate.” L’aereo per San Diego avrebbe potuto cadere, ma tutto sarebbe rimasto lo stesso. La voce sul nastro avrebbe continuato a mandarmi il messaggio. Mi chiesi se non fosse questo che stava davvero accadendo, se i sogni non fossero una sorta di messaggio preregistrato lasciato da Lee, mentre lui era scomparso.

Andai a prendere la macchina. Prendete corso Lafayette fino a Sunken Road. Non potete sbagliare. Il farmacista aveva ragione. C’erano segnali ovunque: segnali autostradali per la US 3, segnali più piccoli, color marrone, del Parco Nazionale a ogni isolato di corso Lafayette, un grande segnale marrone all’entrata, un segnale di “Chiuso dopo il tramonto” vicino ai cancelli di ferro, il cartellino che indicava il Tour Storico di Fredericksburg, n. 24, un segnale bianco con “Cimitero Nazionale”. Sunken Road era intervallata da segnali regolari bianchi e verdi, con il nome della strada. Girai e mi fermai di fronte al Centro Visitatori. Erano le nove passate, per cui il Centro e anche la Libreria dovevano essere aperti, ma non entrai. Andai verso la collina a vedere le tombe.

Non era così terribile come avevo pensato. La collina era sistemata a terrazze erbose larghe a sufficienza per una fila di tombe, su cui svettavano le pietre bianche, in tante file ordinate convergenti verso la cima su cui svettava una bandiera sostenuta da tiranti di pietra; ma la collinetta non era nemmeno la metà, per estensione, di quella di Arlington, tanto da potersi a malapena definire collina.

La piana sottostante, dov’erano stati i corpi, era coperta di erba e percorsa da alberi e sentieri di mattoni. Edera e azalee circondavano il Centro Visitatori. Sembrava il cortile di una villetta qualunque.

Ebbene, era stata una guerra di quel tipo la Guerra Civile, o no? Una guerra da cortile di casa, combattuta fra campi di granturco e porticati e strade erbose di campagna, una piccola guerra domestica che aveva ucciso duecentoquattromila ragazzi e uomini direttamente e altri quattrocentomila con dissenteria, febbre biliare e infezione da arti amputati. Ma nonostante le file ordinate di tombe che si allontanavano come raggi non si aveva l’impressione che qualcuno fosse mai stato ucciso, in quel luogo. Non era per nulla come ad Arlington.

In cima alla collinetta presi il sentiero di mattoni che correva lungo la cresta e portava a un grande cartello. Da vicino il cartello si rivelava un dipinto che mostrava Lee scrutare la pianura con un cannocchiale. Accanto c’era una colonna con un altoparlante. Premetti il bottone per le informazioni turistiche.

“In questo punto delle Alture di Mary” diceva una voce profonda e autoritaria, “stava il generale Robert E. Lee, a dirigere la Battaglia di Fredericksburg.” Sembrava Richard sulla segreteria telefonica. Lasciai che la voce proseguisse, mentre guardavo le tombe di lassù.

Erano segnate da blocchi di granito di circa mezzo metro. Quello più vicino a me portava il numero 243, e poi una linea e sotto ancora il numero 4. Trascrissi i numeri su un foglietto, per poter chiedere che cosa significassero.

— Buon giorno — disse un ranger dal cappello marrone. Venne verso di me, con un sacco di plastica in mano. — Ha bisogno del Centro Visitatori? Ero fuori a controllare il campo, e così l’ho chiuso, ma posso andare subito ad aprirlo. Abbiamo avuto problemi con dei ragazzini che sono entrati di notte. — Estrasse una lattina di birra vuota dal sacco per farmi vedere, poi la rimise dentro. — Il primo giro guidato è alle undici. Sta cercando una tomba in particolare?

— No — risposi. — Volevo solo vedere il campo di battaglia da quassù.

— È difficile immaginare che ci sia stata una battaglia qui, vero? L’artiglieria era lungo questa altura e c’erano tiratori scelti giù dietro a quel muro, dove c’è la strada. Non è il muro originale. Il generale Robert Lee dirigeva la battaglia da quassù — disse con l’entusiasmo di chi non è mai stato in guerra. — Guardò l’esercito dell’Unione che risaliva dal fiume — indicò oltre gli alberi e i tetti di Fredericksburg il Rappahannock, — e disse «È bene che la guerra sia così terribile, altrimenti correremmo il rischio di appassionarci troppo.»

— Che cosa significano i numeri sulle lapidi?

— Sono i numeri di registrazione. Dopo la guerra c’erano corpi sepolti in tutta quest’area, provenienti dalle battaglie di Fredericksburg, Spotsylvania e Wilderness. Quando il campo di battaglia fu trasformato in cimitero nazionale furono mandate squadre a disseppellire i corpi e a seppellirli di nuovo lungo la collina. I numeri indicano dove i corpi furono trovati.

Presi dalla tasca il foglietto su cui avevo scritto i numeri, prima.

— Può spiegarmi questo? — chiesi. — Duecentoquarantatré, e sotto una linea e sotto ancora il quattro.

— Duecentoquarantatré è il numero di registrazione. Il quattro è il numero dei corpi.

— Il numero dei corpi?

— Che vennero trovati nella fossa originaria. O parti di corpi. Era difficile dire, certe volte, quanti soldati ci fossero. Alcuni dei corpi erano rimasti sepolti per tre anni.

Come Willie Lincoln, pensai in modo incongruente. Forse anche lui era stato sepolto in un campo da qualche parte, e poi una squadra l’aveva riportato alla luce e mandato a casa con il corpo di suo padre a Springfield.

— A Chancellorsville fu trovata una fossa piena di braccia e gambe, Si pensò che dovesse esserci lì vicino un ospedale da campo dove praticavano amputazioni. E molte volte i cavalli venivano sepolti insieme ai soldati.

— Allora come sono arrivati a definire questi numeri?

— Dai crani. È stata una faccenda poco simpatica — disse con aria allegra. — Se vuole venire giù al Centro Visitatori posso cercare informazioni su quel numero.

— No — risposi — penso che rimarrò qui ancora un po’.

— È bellissimo quassù, vero? — fece lui. Si toccò il cappello per salutarmi e proseguì lungo il sentiero, giù per la collina, chinandosi una volta a raccogliere un pezzo di carta presso una delle tombe.

Era in effetti bellissimo, lassù. La cittadina stendeva i suoi tetti azzurri e grigi e gli alberi in fiore a coprire ciò che era stato il campo di battaglia; più sotto, là dove la fanteria era stata falciata dai cannoni dietro al muro di pietra, c’era una fila di negozietti di souvenir che vendevano cartoline e bandiere confederate. Non si potevano più immaginare i cavalli morti o agonizzanti che coprivano la piana e i soldati che si riparavano dietro di loro, non avendo altra protezione. “È un bene che la guerra sia così terribile” aveva detto Lee, guardando tutto ciò, “altrimenti ci appassioneremmo troppo”.

Ci appassioneremmo troppo. Era questo che ritornava nei sogni? Era per questo che Lee non poteva dimenticarla, nemmeno in sogno? No, certo che no. Aveva detto quelle parole al mattino, quando la piana era piena di bandiere e di squilli di tromba e il sole nuovo brillava sulle canne degli Springfield.

Quella notte i feriti erano rimasti là dove adesso stavano i negozi di souvenir e il Centro Visitatori, a morire congelati, e i soldati di Lee, a piedi nudi, mal coperti, avevano disceso l’altura e scavalcato il muro di pietra, nero di sangue e gelido al tocco. Certo che avevano dovuto abbatterlo e sostituirlo. I Confederati avevano disceso la collina e passato il muro e preso le uniformi dei feriti, con i nomi agganciati alle maniche, i loro stivali con i nomi infilati in punta. E nessuno, nemmeno Lee, avrebbe potuto amare la guerra in quel momento.

Non potevo lasciare che Annie venisse qui. C’era già stata in sogno, aveva visto i corpi giacere sul terreno gelato, aveva visto l’aurora boreale accendere una danza di sangue nel cielo a settentrione, ma non aveva visto quelle file di blocchi di granito e non aveva sentito il ranger leggere quei numeri con aria allegra, entusiasta, inconsapevole dell’orrore di quel che stava dicendo. Molte volte i cavalli venivano sepolti insieme ai soldati.

Forse non potevo fermare i sogni, ma potevo certo proteggerla da tutto questo. E ciò significava portarla via da Fredericksburg, dove benintenzionate cameriere e farmacisti e autisti di taxi tracciavano piantine sul tavolo del negozio nella loro ansia di farci arrivare fin qui. Discesi la collina ed entrai nel Centro Visitatori.

Il ranger era dietro al banco informazioni e stava svuotando un cestino della cartastraccia. — Ho trovato quel numero per lei — disse, sfregandosi le mani. Aprì un librone rilegato in cuoio dove aveva messo un pezzetto di carta. — Sono stati messi in ordine alfabetico dalle squadre di disinterro.

Girò il libro verso di me e io feci scorrere lo sguardo sulla pagina scritta fittamente. “Campo di battaglia di Wilderness. Tre corpi. Fattoria di Charis, campo di granturco. Due crani. Campo di battaglia di Chancellorsville. Due corpi.”

— Eccolo qui — disse il ranger, piegandosi attraverso il banco in modo da poter leggere. — Duecentoquarantatré. — Indicò una riga quasi al fondo pagina. — Fattoria di Lacey, frutteto. Quattro crani e varie parti.

Nel frutteto. Quattro crani e varie parti. “Ha qualcosa a che fare con il soldato dal nome agganciato alla manica” aveva detto Annie, tentando di arrivare al significato dei sogni. Ma non si trattava di un ragazzo dai capelli gialli con il nome scolorito che non si poteva più leggere. Si trattava di così tanti che c’erano voluti anni per dissotterrarli tutti, dai campi di granturco e dai frutteti, per metterli qui, così tanti che non era stato possibile seppellirli uno per uno e si erano dovuti mettere in fosse comuni.

— Sa indicarmi qualche località turistica interessante vicino a Fredericksburg? — chiesi. — Che si possa raggiungere in giornata, a un centinaio di miglia al massimo?

Lui trasse un dépliant da sotto al banco. — Il campo di battaglia di Wilderness è soltanto a…

— Non Wilderness. Niente che abbia a che fare con la Guerra Civile.

Guardò di nuovo sotto il banco, con un’espressione meravigliata, e prese una carta stradale della Virginia. — Be’, c’è Williamsburg, naturalmente. Si trova a un centinaio di miglia. — Aprì la carta sul banco. — Il Parco Nazionale di Shenandoah è a cento e venti miglia. — Lo indicò. — Ci sono panorami molto belli e sentieri per le passeggiate. Però non so come sia il tempo, da quelle parti. Ci dovrebbe essere un fronte di aria fredda che avanza.

Mi chinai sulla carta. Non c’erano alternative da Fredericksburg. Verso sud, Sayler’s Creek ci bloccava la via per Richmond; verso nord avremmo dovuto attraversare il campo di Antietam. Chancellorsville e Wilderness stavano fra noi e Shenandoah, sulla US 3. Ma se fossimo andati verso sud, non fino a Spotsylvania ma percorrendo invece strade secondarie per tagliare fuori, a est, Culpepper, dov’era stata combattuta la battaglia di Cedar Mountain, avremmo potuto farcela.

— C’è qualcosa che posso fare per lei? — chiese il ranger con premura. — C’è una visita guidata alle undici.

— No, grazie. — Ripiegai la carta. — Quanti soldati senza nome sono stati sepolti, in tutto?

— Qui, intende dire? Ci sono dodicimilasettecentosettanta corpi nel Cimitero Nazionale di Fredericksburg — disse, come se fosse motivo d’orgoglio. — Sono tutti soldati dell’Unione, naturalmente.

— Quanti in tutto? In tutta la guerra?

— In tutta la guerra? Non ne ho idea. E non credo neanche che si possa… — Prese una matita dal taschino e iniziò a scrivere sul dépliant. — Bene. Ce ne sono dodicimilasettecentosettanta qui, e ci sono millecentosettanta Confederati sconosciuti nel Cimitero Confederato, e poi Spotsylvania. — Scrisse una cifra e poi prese da sotto il banco un’altra serie di dépliant. — I militi ignoti del Civil War Memorial ad Arlington sono duemilacentoundici… — Frugò fra i dépliant, ne aprì uno. — Ce ne sono quattromilacentodieci a Petersburg. A Gettysburg novecentosettantanove nel cimitero, ma altri nel campo di battaglia. La maggior parte dei morti Confederati furono portati a Richmond e Savannah e Charleston dopo la guerra e sepolti là in fosse comuni.

Frugò di nuovo fra i dépliant. — Dipendeva tutto da chi vinceva le battaglie, naturalmente. Per chi perdeva, più dell’ottanta per cento dei caduti di quella battaglia rimaneva sconosciuto. — Iniziò a sommare le cifre. — Direi fra i cento e i duecentocinquantamila caduti senza nome, in tutto, ma se vuole un calcolo più preciso…

— Va bene così — dissi, e uscii per prendere la macchina e tornare da Annie.

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