Prologo Per la grazia e gli stendardi caduti

Bayrd premette la moneta tra pollice e indice. Era davvero inquietante percepire il metallo schiacciarsi.

Tolse il pollice. Quel duro pezzo di rame ora riportava chiaramente la sua impronta, riflettendo la luce incerta delle torce. Si sentiva gelato, come se avesse trascorso una notte intera in uno scantinato.

Gli brontolò lo stomaco. Di nuovo.

Il vento del Nord aumentò di intensità, facendo sfrigolare le torce. Bayrd si sedette contro una grossa roccia vicino al centro del campo militare. Uomini affamati borbottavano nel riscaldarsi le mani attorno alle buche per il fuoco; le razioni si erano guastate tempo fa. Altri soldati nelle vicinanze iniziarono a disporre per terra tutto il loro metallo — spade, fibbie d’armatura, cotte di maglia — come lenzuola messe ad asciugare. Forse speravano che il sole, una volta sorto, l’avrebbe fatto tornare alla normalità.

Bayrd rigirò tra le dita quella che era stata una moneta, trasformandola in una pallina. Che la Luce ci preservi tutti, pensò. Luce... Lasciò cadere la pallina fra l’erba, poi allungò la mano e raccolse le pietre con cui stava lavorando.

«Voglio sapere cos’è successo qui, Karam» sbottò Lord Jarid. Jarid e i suoi consiglieri si trovavano lì vicino, di fronte a un tavolo ricoperto di mappe. «Voglio sapere come hanno fatto ad avvicinarsi così tanto e voglio la testa di quella dannata Regina Aes Sedai Amica delle Tenebre!» Jarid sbatté il pugno sul tavolo. Una volta dai suoi occhi non traspariva un’esaltazione tanto folle. Quella situazione così pressante — le razioni perdute, le strane cose nella notte — lo stava cambiando.

Dietro Jarid, la tenda di comando era un ammasso informe. I suoi capelli — cresciuti parecchio durante il loro esilio — erano scompigliati dal vento, il volto inondato dalla luce incostante delle torce. Aveva ancora pezzi di erba morta attaccati alla giacca, per essere strisciato fuori dalla tenda.

Servitori confusi tastavano i puntelli di ferro della tenda, che — come tutto il metallo nell’accampamento — erano diventati morbidi al tocco. Gli anelli di montaggio si erano allungati per poi spezzarsi come cera calda.

La notte aveva un odore sbagliato. Stantio, come stanze in cui nessuno fosse entrato per anni. L’aria di una radura nel mezzo di una foresta non avrebbe dovuto avere l’odore di polvere antica. Lo stomaco di Bayrd brontolò di nuovo. Luce, quanto gli sarebbe piaciuto avere qualcosa da mangiare. Concentrò l’attenzione sul suo lavoro, sfregando una delle pietre contro l’altra.

Le teneva come il suo nonnetto gli aveva insegnato da ragazzo. La sensazione di pietra contro pietra aiutava a scacciare la fame e il freddo. Almeno esisteva ancora qualcosa di solido in questo mondo.

Lord Jarid gli scoccò un’occhiataccia. Jarid aveva insistito perché Bayrd fosse uno dei dieci uomini della sua scorta quella notte. «Io avrò la testa di Elayne, Karam» disse Jarid, voltandosi nuovamente verso i suoi capitani. «Questa notte innaturale è opera delle sue streghe.»

«La sua testa?» chiese Eri da un lato, in tono scettico. «E in che modo, precisamente, qualcuno ti porterà la sua testa?»

Lord Jarid si voltò, proprio come gli altri attorno al tavolo illuminato dalle torce. Eri fissava il cielo; sulla spalla portava il marchio del cinghiale dorato che caricava davanti a una lancia rossa. Era l’insegna della scorta personale di Lord Jarid, ma nella voce di Eri c’era poco rispetto. «Cosa userà per tagliar via quella testa, Jarid? I denti?»

Tutto il campo si immobilizzò a quella battuta terribilmente insubordinata. Bayrd, esitante, smise di sfregare le pietre. Sì, in giro si era parlato di quanto Lord Jarid fosse uscito di testa. Ma questo?

Jarid sputacchiò, il volto sempre più rosso di rabbia. «Come osi parlarmi in un tono simile? Tu, una delle mie guardie?»

Eri continuò a esaminare il cielo coperto di nubi.

«Ti saranno trattenuti due mesi di paga» sbottò Jarid, ma la sua voce tremolava. «Sarai privato del grado e messo a servizio latrine fino a nuovo ordine. Se osi rispondermi ancora ti taglierò la lingua.»

Bayrd rabbrividì nel vento freddo. Eri era il migliore che avevano tra ciò che restava del loro esercito ribelle. Le altre guardie si agitarono a disagio, lo sguardo basso.

Eri guardò verso il nobile e sorrise. Non disse una parola, ma per certi versi non ne aveva bisogno. Tagliargli la lingua? Ogni pezzo di metallo nell’accampamento era diventato molle come lardo. Il coltello dello stesso Jarid era posato sul tavolo, contorto e deformato: si era assottigliato quando l’aveva estratto dal fodero. La giacca di Jarid sventolava aperta: aveva avuto bottoni d’argento.

«Jarid...» disse Karam. Era un giovane Lord di una Casata minore leale a Sarand, con un volto snello e labbra grosse. «Pensi davvero... pensi davvero che questo sia opera delle Aes Sedai? Tutto il metallo nell’accampamento?»

«Ma certo» sbraitò Jarid. «Cos’altro potrebbe essere? Non dirmi che credi a quelle storie da fuoco da campo. L’Ultima Battaglia? Puah.» Si voltò di nuovo verso il tavolo. Srotolata lì sopra, con ciottoli a fare da pesi agli angoli, c’era una mappa dell’Andor.

Bayrd tornò alle sue pietre. Snap, snap, snap. Ardesia e granito. Aveva faticato per trovare pezzi adatti di ciascuno, ma il vecchio nonno aveva insegnato a Bayrd a riconoscere tutti i tipi di pietra. Il vecchio si era sentito tradito quando il padre di Bayrd se n’era andato in città per diventare un macellaio, invece di mantenere il mestiere di famiglia.

Ardesia tenera e liscia. Granito scabro e angoloso. Eppure al mondo c’erano cose ancora solide. Pochissime. Non si poteva fare affidamento su molte cose, in quei giorni. Nobili un tempo irremovibili adesso erano molli come... be’, molli come il metallo. Il cielo ribolliva nero, e uomini coraggiosi — uomini che Bayrd prendeva a esempio da molto tempo — tremolavano e piagnucolavano nella notte.

«Sono preoccupato, Jarid» disse Davies. Più anziano di Jarid, Lord Davies era più vicino di chiunque altro a esserne il confidente. «Sono giorni che non vediamo nessuno. Niente contadini, niente soldati della Regina. Sta succedendo qualcosa. Qualcosa di sbagliato.»

«È stata lei a far sgomberare le persone» ringhiò Jarid. «Si sta preparando a piombarci addosso.»

«Io penso che ci stia ignorando, Jarid» disse Karam, guardando il cielo. Lì le nubi ribollivano ancora. Parevano passati mesi dall’ultima volta che Bayrd aveva visto un cielo limpido. «Perché dovrebbe preoccuparsene? I nostri uomini stanno morendo di fame. Il cibo continua a guastarsi. I segni...»

«Sta cercando di schiacciarci» disse Jarid, gli occhi sgranati dall’esaltazione. «Questa è opera delle Aes Sedai.»

All’improvviso sull’accampamento calò un’immobilità. Silenzio, tranne per le pietre di Bayrd. Non si era mai sentito a suo agio come macellaio, ma aveva trovato una casa tra la scorta del suo signore. Fare a pezzi mucche o fare a pezzi uomini erano cose decisamente simili. Lo turbava la facilità con cui era passato dall’uno all’altro.

Snap, snap, snap.

Eri si voltò. Jarid squadrò la guardia con sospetto, come se fosse sul punto di strillargli una punizione ancora più severa.

Non è stato sempre così, giusto?, pensò Bayrd. Voleva il trono per sua moglie, ma quale Lord non lo vorrebbe?

Era difficile ignorare il nome. La famiglia di Bayrd aveva seguito i Sarand con riverenza per generazioni.

Eri si allontanò a grandi passi dal posto di comando.

«Dove pensi di andare?» gli urlò dietro Jarid.

Eri si portò una mano alla spalla e strappò via lo stemma della guardia della Casata Sarand. Lo gettò da una parte e lasciò la luce delle torce, diretto nella notte verso i venti del Nord.

Parecchi uomini nel campo non erano andati a dormire. Sedevano attorno alle buche per il fuoco, desiderosi di stare vicino al calore e alla luce. Alcuni cercavano di bollire in pentole d’argilla ciuffi d’erba, foglie o strisce di cuoio per avere qualcosa da mangiare... qualunque cosa.

Si alzarono a osservare Eri che se ne andava.

«Disertore» esclamò Jarid. «Dopo tutto quello che abbiamo passato, ora se ne va. Solo perché le cose sono difficili.»

«Gli uomini stanno morendo di fame, Jarid» ripeté Davies.

«Ne sono consapevole. Grazie tante per ricordarmi i problemi con ogni tuo dannato respiro.» Jarid si asciugò la fronte con il palmo tremante, poi lo schiaffò sulla sua mappa. «Dovremo colpire una delle città; non possiamo fuggire, non ora che lei sa dove siamo. Whitebridge. La prenderemo e faremo rifornimenti. Le sue Aes Sedai devono essere indebolite dopo il trucchetto di stanotte, altrimenti avrebbe già attaccato.»

Bayrd strinse gli occhi per guardare nell’oscurità. Altri uomini si stavano alzando, sollevando bastoni da guerra o randelli. Alcuni lo fecero senza armi. Arrotolarono i loro giacigli e si misero in spalla mucchi di vestiti. Poi iniziarono ad andarsene dall’accampamento, il loro passaggio silenzioso come il movimento di fantasmi. Non c’era sferragliare di cotte di maglia o di fibbie sulle armature. Non restava più metallo. Come se gli fosse stata strappata via l’anima.

«Elayne non osa muovere contro di noi in forze» disse Jarid, forse per convincere sé stesso. «Dev’esserci un conflitto a Caemlyn. Tutti quei mercenari di cui hai riferito, Shiv. Rivolte, forse. Di certo Elenia starà agendo contro Elayne. Whitebridge. Sì, Whitebridge sarà perfetta.

«Se la occupiamo, taglieremo in due la nazione, vedete. Recluteremo lì, costringendo gli uomini nell’Andor occidentale a schierarsi sotto i nostri stendardi. Andremo a.... come si chiama quel posto? Ai Fiumi Gemelli. Dovremmo trovare uomini abili lì.» Jarid tirò su con il naso. «Ho sentito che sono decenni che non vedono un Lord. Datemi quattro mesi e avrò un esercito di tutto rispetto. Abbastanza uomini che lei non oserà attaccarci con le sue streghe...»

Bayrd tenne la pietra sollevata alla luce delle torce. Il trucco per creare una buona punta di lancia era cominciare dall’esterno e procedere verso l’interno. Aveva disegnato la forma giusta con del gesso sull’ardesia, poi aveva lavorato verso il centro per finire la sagoma. Da lì si passava da colpi più forti a colpetti, raschiando via i pezzi più piccoli.

Aveva finito un lato poco tempo prima; la seconda metà era quasi fatta. Poteva quasi sentire il suo nonnetto che gli sussurrava: Noi apparteniamo alla pietra, Bayrd. Non importa cosa dice tuo padre. Dentro di noi, apparteniamo alla pietra.

Altri soldati lasciarono il campo. Strano come solo pochi di loro parlassero. Jarid infine se ne accorse. Si alzò in piedi e afferrò una delle torce, tenendola in alto. «Cosa stanno facendo? Vanno a caccia? Non vediamo selvaggina da settimane. Vanno a mettere trappole, forse?»

Nessuno rispose.

«Forse hanno visto qualcosa» borbottò Jarid. «O forse pensano di averlo visto. Non tollererò altre chiacchiere di spiriti o sciocchezze del genere: le streghe stanno creando apparizioni per innervosirci. È.. è di questo che deve trattarsi.»

Dalle vicinanze provenne un fruscio. Karam stava rovistando nella sua tenda caduta. Ne uscì con un piccolo involto.

«Karam?» disse Jarid.

Karam lanciò un’occhiata a Lord Jarid, poi abbassò lo sguardo e iniziò a legare un borsello di monete in vita. Si fermò e rise, poi lo svuotò. Le monete d’oro all’interno si erano fuse in un unico ammasso, come orecchie di porco in un vasetto. Karam si mise in tasca quell’ammasso. Rovistò nel borsellino e tirò fuori un anello. La gemma rosso sangue al centro era ancora buona. «Probabilmente non basterà a comprare una mela, di questi tempi» borbottò.

«Esigo di sapere cosa stai facendo» ringhiò Jarid. «Questa è opera tua?» Agitò una mano verso i soldati che se ne stavano andando. «Ci sei tu dietro questa insubordinazione, non è così?»

«Non è opera mia» disse Karam con aria vergognosa. «E non è davvero nemmeno tua. Sono... sono spiacente.»

Karam si allontanò dalla luce delle torce. Bayrd si ritrovò sorpreso. Lord Karam e Lord Jarid erano amici d’infanzia.

Seguì Lord Davies, correndo dietro Karam. Stava cercando di trattenerlo? No, si mise al passo accanto a Karam. Scomparvero nell’oscurità.

«Vi farò dare la caccia per questo!» urlò loro dietro Jarid con voce acuta. Agitata. «Io sarò il consorte della Regina! Nessuno darà a voi o a qualunque membro delle vostre Casate riparo o soccorso per dieci generazioni!»

Bayrd tornò a guardare la pietra che aveva in mano. Rimaneva solo un passo, la levigatura. Una buona punta di lancia aveva bisogno di essere levigata per essere pericolosa. Tirò fuori un altro pezzo di granito che aveva raccolto per quello scopo e iniziò a raschiare con attenzione lungo il lato dell’ardesia.

Pare che me lo ricordi meglio di quanto mi aspettassi, pensò mentre Lord Jarid continuava a vaneggiare.

Cera qualcosa di potente nel costruire la punta di lancia. Quel semplice atto sembrava ricacciare indietro la depressione. Di recente c’era stata un’ombra su Bayrd e sul resto del campo. Come se... come se non riuscisse a stare alla luce, per quanto ci provasse. Si svegliava ogni mattina sentendosi come se qualcuno che aveva amato fosse morto il giorno precedente.

Quella disperazione poteva schiacciarti. Ma l’atto di creare qualcosa — qualunque cosa — contrattaccava. Quello era un modo per sfidare... lui. Quello di cui nessuno di loro parlava. Quello che sapevano essere dietro a tutto quanto, nonostante ciò che diceva Lord Jarid.

Bayrd si alzò in piedi. Più tardi si sarebbe dedicato ancora un po’ alla levigatura, ma la punta di lancia aveva proprio un ottimo aspetto. Sollevò il manico in legno — la lama di metallo era caduta via quando il male aveva colpito l’accampamento — e vi fissò la nuova punta di lancia, proprio come il suo nonnetto gli aveva insegnato tutti quegli anni prima.

Le altre guardie lo stavano guardando. «Ce ne serviranno altre» disse Morear. «Sempre che tu sia disponibile.»

Bayrd annuì. «Nell’allontanarci, possiamo fermarci presso il pendio dove ho trovato l’ardesia.»

Jarid smise finalmente di urlare, gli occhi sgranati alla luce delle torce. «No. Voi siete la mia scorta personale. Non vi opporrete a me!»

Jarid si avventò con un balzo su Bayrd, un bagliore omicida negli occhi, ma Morear e Rosse lo afferrarono da dietro. Rosse parve sconcertato per il suo stesso atto di insubordinazione. Non lo lasciò andare, però.

Bayrd prese alcune cose che stavano accanto al suo giaciglio. Dopodiché annuì agli altri e quelli si unirono a lui: otto uomini della scorta personale di Lord Jarid che trascinavano lo sputacchiante Lord in persona attraverso i resti dell’accampamento. Superarono fuochi accesi e tende cadute, abbandonate da uomini che adesso stavano sfilando fuori nell’oscurità sempre più numerosi, diretti a nord. Nel vento.

Al limitare del campo, Bayrd scelse un bell’albero robusto. Fece cenno agli altri e quelli presero la corda che aveva raccolto e legarono Lord Jarid all’albero. L’uomo farfugliò finché Morear non l’ebbe imbavagliato con un fazzoletto.

Bayrd gli si avvicinò. Ficcò un otre nell’incavo del braccio di Jarid. «Non dibatterti troppo o lo farai cadere, mio signore. Dovresti riuscire a toglierti il bavaglio — non sembra così stretto — e inclinare l’otre per bere. Ecco, ora tolgo il tappo.»

Jarid fissò Bayrd con uno sguardo minaccioso.

«Non si tratta di te, mio signore» disse Bayrd. «Hai sempre trattato bene la mia famiglia. Ma qui non possiamo tenerti con noi a renderci la vita impossibile. Si tratta solo di qualcosa che dobbiamo fare, e tu stai impedendo a tutti di farlo. Forse qualcuno avrebbe dovuto parlare prima. Be’, ormai è fatta. A volte si lascia la carne appesa per troppo tempo e tutto il quarto va a male.»

Annuì agli altri, che corsero via a raccogliere i giacigli. Indicò a Rosse l’affioramento di ardesia lì vicino e gli disse cosa cercare come buona pietra per punte di lancia.

Bayrd si voltò di nuovo verso Lord Jarid, che continuava a dibattersi. «Qui non si tratta delle streghe, mio signore. Non si tratta di Elayne... suppongo che dovrei chiamarla Regina. Divertente pensare che una ragazzina graziosa come quella sia Regina. Preferirei tenerla sul ginocchio in una taverna piuttosto che inchinarmi a lei, ma l’Andor avrà bisogno di una guida da seguire all’Ultima Battaglia, e non è tua moglie. Sono spiacente.»

Jarid si afflosciò nei suoi legacci, la rabbia che pareva trasudare via da lui. Ora stava piangendo. Una cosa davvero bizzarra da vedere.

«Dirò alla gente che incontreremo — se ne incontreremo — dove sei» promise Bayrd «e che probabilmente hai addosso dei gioielli. Potrebbero venire da te. Potrebbero.» Esitò. «Non ti saresti dovuto mettere in mezzo. Tutti sanno cosa sta per accadere tranne te. Il Drago è rinato, i vecchi legami sono spezzati, i vecchi giuramenti non valgono più... e che io sia impiccato se lascerò che l’Andor marci all’Ultima Battaglia senza di me.»

Bayrd se ne andò, allontanandosi nella notte, sollevando la sua nuova lancia sulla spalla. Ho un giuramento più antico di quello alla tua famiglia, comunque, pensò, un giuramento che il Drago in persona non ha potuto rompere. Era un giuramento alla terra. Le pietre erano nel suo sangue, e il suo sangue era nelle pietre di questo Andor.

Bayrd radunò gli altri e partirono per il nord. Dietro di loro, nella notte, il loro signore piagnucolava, da solo, mentre per l’accampamento cominciavano ad aggirarsi i fantasmi.


Talmanes strattonò le redini di Selfar, e il cavallo danzò e scosse la testa. Il roano pareva impaziente. Forse Selfar percepiva l’umore preoccupato del suo padrone.

L’aria notturna era densa di fumo. Fumo e urla. Talmanes fece marciare la Banda lungo una strada intasata di profughi sporchi di fuliggine. Si muovevano come relitti in un fiume fangoso.

Gli uomini della Banda fissavano preoccupati i profughi. «Passo regolare!» gridava loro Talmanes. «Non possiamo correre fino a Caemlyn. Passo regolare!» Faceva marciare gli uomini quanto più veloce osava, quasi a una corsa leggera. Le loro armature sferragliavano. Elayne aveva portato con sé metà della Banda al Campo di Merrilor, inclusi Estean e buona parte della cavalleria. Forse aveva previsto di dover ripiegare rapidamente.

Be’, a Talmanes non sarebbe servita a granché la cavalleria sulle strade cittadine, che senza dubbio erano intasate come questa. Selfar sbuffò e agitò la testa. Erano vicini ora; le mura della città erano appena più avanti — nere nella notte — catturate in una luce infuriata. Era come se la città fosse una buca per il fuoco.

Per la grazia e gli stendardi caduti!, pensò Talmanes con un brivido. Enormi nuvole di fumo si levavano sopra la città. Era un brutto segno. Di gran lunga peggiore di quando gli Aiel avevano attaccato Cairhien.

Talmanes finalmente lasciò fare a Selfar di testa sua. Il roano galoppò lungo il lato della strada per un poco; poi Talmanes la attraversò di prepotenza, ignorando suppliche di aiuto. Il tempo che aveva trascorso con Mat gli faceva desiderare di poter avere di più da offrire a questa gente. Era estremamente strano l’effetto che Matrim Cauthon aveva sulle persone. Talmanes guardava la gente comune sotto una luce molto diversa ora. Forse era perché non sapeva ancora con esattezza se pensare a Mat come a un Lord o no.

Dall’altro lato della strada esaminò la città in fiamme, attendendo che i suoi uomini lo raggiungessero. Avrebbe potuto farli stare in sella tutti quanti: anche se non erano addestrati come cavalleria, tutti gli uomini nella Banda avevano un destriero per i lunghi viaggi. Stanotte non osava. Con Trolloc e Myrddraal in agguato per le strade, Talmanes aveva bisogno che i suoi uomini fossero pronti per combattere immediatamente. I balestrieri marciavano con le armi cariche ai lati di colonne numerose di picchieri. Non avrebbe lasciato i suoi soldati vulnerabili a una carica di Trolloc, per quanto fosse urgente la loro missione.

Ma se avessero perso quei Draghi...

Che la Luce ci illumini, pensò Talmanes. La città pareva in ebollizione, con tutto quel fumo addensato sopra. Eppure alcune parti della Città Interna — che si elevavano sulla collina e visibili sopra le mura — non erano ancora in fiamme. Anche il palazzo non stava ancora andando a fuoco. Forse i soldati li stavano resistendo?

Non era arrivata nessuna notizia dalla Regina, e da quello che Talmanes poteva vedere non era giunto alcun aiuto per la città. La Regina doveva essere ancora ignara, e quello era male.

Molto, molto male.

Più avanti, Talmanes notò Sandip con alcuni esploratori della Banda. L’uomo snello stava cercando di districarsi da un gruppo di profughi.

«Ti prego, buon signore» stava dicendo una giovane donna tra le lacrime. «Mia figlia, la mia bambina, tra le alture del cammino nord...»

«Devo raggiungere la mia bottega!» urlava un uomo corpulento. «I miei vetri...»

«Mia brava gente,» disse Talmanes, facendosi strada con il suo cavallo in mezzo a loro «penso che, se volete che vi aiutiamo, potreste voler indietreggiare e permetterci di raggiungere la dannata città.»

I profughi si ritrassero con riluttanza e Sandip annuì a Talmanes in segno di ringraziamento. Dalla carnagione abbronzata e i capelli scuri, Sandip era uno dei comandanti della Banda e un esperto tosasiepi. Quel giorno, però, quell’uomo affabile aveva un’espressione torva.

«Sandip,» disse Talmanes, indicando «laggiù.»

A poca distanza, era accalcato un gruppo numeroso di uomini d’arme, a guardare la città.

«Mercenari» disse Sandip con un grugnito. «Ne abbiamo superati diversi gruppi. Nemmeno uno pareva disposto ad alzare un dito.»

«La vedremo» disse Talmanes. La gente continuava a riversarsi fuori dai cancelli cittadini, tossendo, tenendo stretti pochi averi, conducendo bambini in lacrime. Quel flusso non sarebbe diminuito a breve. Caemlyn era piena come una locanda in un giorno di mercato; quelli tanto fortunati da fuggire sarebbero stati solo una piccola parte, paragonati a quelli ancora dentro.

«Talmanes,» disse Sandip con calma «presto quella città diventerà una trappola mortale. Non ci sono abbastanza vie d’uscita. Se lasciamo che la Banda venga bloccata dentro...»

«Lo so. Ma...»

Ai cancelli un’ondata di emozioni crebbe tra i profughi. Fu quasi una cosa fisica, un tremito. Le urla divennero più intense. Talmanes ruotò; figure mastodontiche si muovevano nelle ombre all’interno del cancello.

«Luce!» disse Sandip. «Cosa sono?»

«Trolloc» disse Talmanes, facendo voltare Selfar. «Luce! Stanno cercando di prendere il cancello, di fermare i profughi.» Cerano cinque cancelli per uscire dalla città; se i Trolloc avessero preso il controllo di tutti quanti...

Quello era già un massacro. Se i Trolloc fossero riusciti a impedire alla gente spaventata di fuggire, sarebbe diventato molto peggio.

«Presto con quelle colonne!» urlò Talmanes. «Tutti gli uomini ai cancelli cittadini!» Spronò Selfar al galoppo.


Altrove quell’edificio sarebbe stato chiamato una locanda, anche se Isam non aveva mai visto nessuno lì dentro tranne le donne dagli occhi spenti che si occupavano delle poche stanze scialbe e preparavano pasti insipidi. Nessuno veniva qui in cerca di comodità. Era seduto su uno sgabello duro a un tavolo di pino così consumato dal tempo che probabilmente era ingrigito molto prima della nascita di Isam. Si asteneva dal toccare troppo la superficie, per paura di essere punzecchiato da più schegge delle lance di un Aiel.

La tazza di stagno ammaccata di Isam era piena di un liquido scuro, anche se lui non stava bevendo. Era seduto accanto alla parete, abbastanza vicino all’unica finestra della locanda da osservare la strada sterrata di fuori, fiocamente illuminata nella sera da poche lanterne arrugginite appese fuori dagli edifici. Isam stava attento a non far vedere il suo profilo attraverso il vetro macchiato. Non guardava mai fuori direttamente. Era sempre meglio non attirare l’attenzione nella Cittadina.

Questo era l’unico nome di quel luogo, sempre che si potesse dire che ne aveva uno. Gli edifici diroccati sparsi ovunque erano stati eretti e rimpiazzati innumerevoli volte nel corso di duemila anni. Se strizzavi gli occhi, poteva effettivamente assomigliare a una cittadina di discrete dimensioni. Parecchi dei palazzi erano stati costruiti da prigionieri, spesso con scarsa o nessuna conoscenza dell’edilizia. Erano stati supervisionati da uomini altrettanto ignoranti. Un discreto numero di case parevano sorrette da quelle che avevano ai lati.

Del sudore gocciolava dal volto di Isam, mentre osservava di nascosto la strada. Chi sarebbe venuto per lui?

In lontananza, riusciva a malapena a distinguere il profilo di una montagna che divideva in due il cielo notturno. Metallo raschiava contro metallo da qualche parte nella Cittadina, come battiti di un cuore d’acciaio. Delle figure si muovevano per la strada. Uomini pesantemente ammantati e incappucciati, con volti nascosti fino agli occhi da veli rosso sangue.

Isam era attento a non lasciare che i loro occhi si soffermassero su di lui.

Il tuono rombava. Le pendici di quella montagna erano colme di strani fulmini che schizzavano in alto verso le onnipresenti nuvole grigie. Pochi umani sapevano di quella Cittadina non lontano dalla valle di Thakan’dar, con Shayol Ghul stessa che incombeva da sopra. Pochi conoscevano voci della sua esistenza. A Isam non sarebbe dispiaciuto essere tra gli ignari.

Passò un altro di quegli uomini. Veli rossi. Li tenevano sempre su. Be’, quasi sempre. Se ne vedevi uno abbassarlo, era il momento di ucciderlo. Perché, se non l’avessi fatto, lui avrebbe ucciso te. Parecchi uomini con il velo rosso non parevano avere motivo di essere fuori, a parte guardarsi in cagnesco e forse dare un calcio ai numerosi cani randagi — macilenti e selvatici — ogni volta che le loro strade si incrociavano. In giro non si vedevano bambini, e probabilmente ce n’erano pochi. La Cittadina non era un posto per bambini. Isam lo sapeva. Era cresciuto lì.

Uno degli uomini di passaggio sulla strada alzò lo sguardo verso la finestra di Isam e si fermò. Isam rimase completamente immobile. I Samma N’Sei, gli Acceca Occhi, erano sempre stati suscettibili e pieni di orgoglio. No, suscettibili era un termine troppo gentile. A loro bastava un capriccio per accoltellare un Senza Talenti. Di solito era uno dei servitori a pagare. Di solito.

L’uomo con il velo rosso continuava a fissarlo. Isam si fece coraggio e non diede alcun segno che lo stava fissando a sua volta. Era stato convocato qui con urgenza, e una persona che volesse vivere non ignorava cose del genere. Tuttavia... se l’uomo avesse fatto un passo verso l’edificio, Isam sarebbe scivolato dentro Tel’aran’rhiod, consapevole che nemmeno uno dei Prescelti poteva seguirlo lì dentro.

All’improvviso il Samma N’Sei distolse lo sguardo dalla finestra. In un lampo si stava allontanando dall’edificio, a rapide falcate. Isam percepì parte della sua tensione dissolversi, anche se non l’avrebbe mai davvero abbandonato, non in quel posto. Quel luogo non era casa sua, malgrado vi avesse trascorso l’infanzia. Quel luogo era morte.

Movimento. Isam lanciò un’occhiata verso il fondo della strada. Un altro uomo alto con giacca e mantello neri si stava dirigendo verso di lui a volto scoperto. Cosa incredibile, la strada si stava svuotando, con i Samma N’Sei che schizzavano via lungo altre vie e vicoletti.

Dunque era Moridin. Isam non era stato lì ad assistere alla prima visita del Prescelto alla Cittadina, ma ne aveva sentito parlare. I Samma N’Sei avevano pensato che Moridin fosse uno dei Senza Talenti finché lui non aveva dimostrato il contrario. I vincoli che trattenevano loro non trattenevano lui.

I numeri dei Samma N’Sei morti variavano a seconda del racconto, ma non scendevano mai sotto la dozzina. Da ciò che aveva visto con i suoi occhi, Isam poteva crederci.

Quando Moridin raggiunse la locanda, la strada era vuota tranne per i cani. E Moridin la superò senza fermarsi. Isam guardò con quanta più attenzione osava. Moridin non pareva interessato a lui o alla locanda, il posto dove a Isam era stato detto di aspettare. Forse il Prescelto aveva altri affari, e Isam sarebbe stato un sovrappiù.

Dopo che Moridin fu passato, Isam prese finalmente un sorso della sua bevanda scura. La gente del luogo la chiamava semplicemente ‘fuoco’. Era all’altezza del suo nome. Pareva che fosse collegato a qualche bevanda del Deserto. Come ogni cosa nella Cittadina, era una versione corrotta dell’originale.

Quanto l’avrebbe fatto aspettare Moridin? A Isam non piaceva stare lì. Gli ricordava troppo la sua infanzia. Passò una servitrice — una donna con un abito tanto liso da essere praticamente stracci — e lasciò cadere un piatto sul tavolo. I due non si scambiarono neanche una parola.

Isam guardò il suo pasto. Ortaggi — peperoni e cipolle, perlopiù — tagliati sottili e bolliti. Ne prese uno e lo assaggiò, poi sospirò e spinse via il piatto. Gli ortaggi erano insipidi come farinata di miglio scondita. Non c’era carne. Quello in effetti era un bene: non gli piaceva mangiare carne a meno che non l’avesse vista uccidere e macellare con i suoi occhi. Quello era un residuo della sua infanzia. Se non l’avevi vista macellare con i tuoi occhi, non potevi sapere. Non con certezza. Da quelle parti, se trovavi della carne, poteva essere qualcosa che era stato preso al Sud, o forse un animale che era stato allevato lì, una mucca o una capra.

Oppure poteva essere qualcos’altro. Da quelle parti, le persone che perdevano al gioco e non potevano pagare poi sparivano. E spesso i Samma N’Sei meno abili fallivano il loro addestramento. I corpi scomparivano. Di rado i cadaveri duravano abbastanza per essere seppelliti.

Che bruci, questo posto, pensò Isam con lo stomaco in subbuglio. Che bruci con...

Qualcuno entrò nella locanda. Purtroppo Isam non riusciva a tenere d’occhio entrambe le vie d’accesso alla porta da quella direzione. Si trattava di una donna graziosa, vestita di nero rifinito di rosso. Isam non riconobbe la sua figura snella e il volto delicato. Era sempre più sicuro di poter riconoscere tutti quanti i Prescelti; li aveva visti spesso nel sogno. Loro non lo sapevano, naturalmente. Si ritenevano dominatori di quel luogo, e alcuni erano davvero molto abili.

Lui era abile quanto loro, ma anche estremamente bravo a non farsi vedere.

Chiunque fosse la donna, era sotto mentite spoglie, allora. Perché preoccuparsi di nascondersi lì? A ogni modo, doveva essere stata lei a convocarlo. Nessuna donna entrava nella Cittadina con un’espressione tanto imperiosa, tanta fiducia in sé, come se si aspettasse che le pietre stesse saltassero se lei gliel’avesse ordinato. Isam si abbassò silenziosamente su un ginocchio.

Quel movimento risvegliò il dolore nello stomaco, dov’era stato ferito. Ancora non si era ristabilito dal combattimento con il lupo. Sentiva un’emozione agitarsi dentro di lui: Luc odiava Aybara. Insolito. Luc tendeva a essere quello più accomodante, Isam quello più inflessibile. Be’, era così che lui si considerava.

A ogni modo, erano d’accordo su quel lupo in particolare. Da un lato, Isam era eccitato: come cacciatore, di rado gli si era presentata una sfida come Aybara. Però il suo odio era più profondo. Lui avrebbe ucciso Aybara.

Isam mascherò il dolore con una smorfia e chinò il capo. La donna lo lasciò inginocchiato e si mise a sedere al suo tavolo. Tamburellò un dito sul lato della tazza di stagno per qualche momento, fissando quello che conteneva, e non parlò.

Isam rimase immobile. Molti di quegli sciocchi che si facevano chiamare Amici delle Tenebre si agitavano e si contorcevano quando qualcuno affermava il proprio potere su di loro. In effetti, ammise con riluttanza, probabilmente Luc si sarebbe agitato proprio a quel modo.

Isam era un cacciatore. Quello era tutto ciò che gli importava. Quando avevi la certezza di ciò che eri, non c’era motivo di disprezzare che ti fosse mostrato il tuo posto.

Dannazione, quanto gli faceva male il lato della pancia.

«Lo voglio morto» disse la donna. La sua voce era morbida eppure intensa.

Isam non disse nulla.

«Lo voglio sventrato come un animale, le sue interiora versate per terra, il suo sangue in una scodella per i corvi, le sue ossa lasciate a sbiancare, poi ingrigire, poi frantumarsi al calore del sole. Lo voglio morto, cacciatore.»

«Al’Thor.»

«Sì. Hai fallito in passato.» La voce della donna era ghiaccio. Isam provò un brivido. Questa donna era dura. Dura come Moridin.

Nei suoi anni di servizio, aveva imparato a disprezzare molti dei Prescelti. Bisticciavano come bambini, nonostante tutto il loro potere e la loro presunta saggezza. Questa donna lo faceva esitare, e Isam si domandò se li avesse spiati davvero tutti. Lei pareva diversa.

«Ebbene?» chiese la donna. «Hai intenzione di discolparti dei tuoi fallimenti?»

«Ogni volta che qualcuno degli altri mi ha dato come incarico questa caccia,» disse lui «è venuto un altro a distogliermi e ad affidarmi qualche altro incarico.»

In verità, lui avrebbe preferito continuare la sua caccia al lupo. Non avrebbe disobbedito agli ordini, soprattutto non a ordini diretti dai Prescelti. A parte Aybara, una caccia per lui valeva quanto l’altra. Avrebbe ucciso questo Drago, se doveva.

«Non accadrà nulla del genere, stavolta» disse la Prescelta, ancora fissando la tazza. Non aveva guardato Isam e non gli aveva dato il permesso di alzarsi, perciò rimaneva inginocchiato. «Tutti gli altri hanno rinunciato alle rivendicazioni su di te. A meno che il Sommo Signore non ti dica altrimenti — a meno che non ti convochi personalmente — devi attenerti a questo compito. Uccidere al’Thor.»

Del movimento fuori dalla finestra indusse Isam a lanciare un’occhiata di lato. La Prescelta non osservò il passaggio di figure ammantate di nero e incappucciate. Il vento non agitava i loro mantelli.

Erano accompagnate da carrozze; uno spettacolo insolito nella Cittadina. Le carrozze si muovevano lente, ma dondolavano e sobbalzavano comunque sulla strada sconnessa. Isam non aveva bisogno di guardare all’interno delle tende ai finestrini per sapere delle tredici donne che viaggiavano dentro, in numero uguale ai Myrddraal. Nessun Samma N’Sei tornò sulla strada. Tendevano a evitare processioni come questa. Per ovvi motivi, erano... molto sensibili verso cose del genere.

Le carrozze passarono. Dunque ne avevano preso un altro. Isam aveva presunto che quella pratica sarebbe terminata, una volta ripulita la corruzione.

Prima di voltarsi di nuovo per guardare il pavimento, notò qualcosa di ancora più insolito. Un piccolo volto sporco che osservava dalle ombre di un vicolo dall’altro lato della strada. Occhi sgranati ma una postura furtiva. Il passaggio di Moridin e l’arrivo delle tredici avevano allontanato i Samma N’Sei dalla strada. Dove non c’erano loro, i monelli di strada potevano andare in giro con una certa sicurezza. Forse.

Isam voleva urlare al bambino di andar via. Dirgli di scappare, di arrischiarsi ad attraversare la Macchia. Morire nello stomaco di un Verme era meglio che vivere in questa Cittadina e patire quello che ti faceva. Va’! Fuggi! Muori!

Il momento passò rapido e il monello di strada si ritirò tra le ombre. Isam riusciva a ricordarsi di essere stato quel bambino. Aveva imparato così tante cose allora. Come trovare cibo di cui potevi quasi fidarti e che non avresti vomitato una volta scoperto cosa c’era dentro. Come combattere con i coltelli. Come evitare di essere visto o notato.

E come uccidere un uomo, naturalmente. Chiunque sopravvivesse abbastanza a lungo nella Cittadina imparava quella lezione particolare.

La Prescelta stava ancora guardando la tazza. Isam si rese conto che stava osservando il proprio riflesso. Cosa ci vedeva?

«Mi servirà aiuto» disse infine Isam. «Il Drago Rinato ha delle guardie con sé, e di rado è nel sogno.»

«L’aiuto è stato predisposto» disse lei piano. «Ma il tuo compito è trovarlo, cacciatore. Niente giochetti come hai fatto in precedenza, cercando di attirarlo verso di te. Lews Therin percepirà una trappola del genere. Inoltre non devierà dalla sua causa ora. Resta poco tempo.»

La Prescelta parlava dell’operazione disastrosa nei Fiumi Gemelli. Allora Luc aveva avuto il controllo. Cosa ne sapeva Isam di vere cittadine, di vere persone? Provava quasi un desiderio verso quelle cose, anche se sospettava che in realtà fosse un’emozione di Luc. Isam era solo un cacciatore. Non era interessato alle persone, se non a quale fosse il punto migliore in cui far penetrare una freccia affinché colpisse il cuore.

Quell’operazione ai Fiumi Gemelli... puzzava come una carcassa lasciata a marcire. Ancora non sapeva. Il vero scopo era stato attirare al’Thor, oppure era servita per tenere Isam lontano da eventi importanti? Sapeva che le sue capacità affascinavano i Reietti; era in grado di fare qualcosa di cui loro non erano capaci. Oh, potevano imitare il modo in cui entrava nel sogno, ma avevano bisogno di incanalare, di passaggi, di tempo.

Era stanco di essere una pedina nei loro giochi. Che lo lasciassero cacciare e basta; che smettessero di cambiare la preda ogni settimana.

Ma nessuno diceva cose del genere ai Prescelti. Tenne le sue obiezioni per sé.

Delle ombre offuscavano l’ingresso della locanda e la servitrice scomparve sul retro. Così il posto rimase completamente vuoto tranne per Isam e la Prescelta.

«Puoi alzarti» disse lei.

Isam lo fece in tutta fretta mentre due uomini entravano nella stanza. Alti, muscolosi e velati di rosso. Indossavano abiti color marrone come gli Aiel, ma non portavano lance o armi. Quelle creature uccidevano con armi molto più letali.

Anche se mantenne il volto impassibile, Isam provò un impeto di emozione. Un’infanzia di dolore, fame e morte. Una vita passata a evitare lo sguardo di uomini come quelli. Fece un grosso sforzo per non tremare mentre si dirigevano verso il tavolo, muovendosi con la grazia di predatori nati.

Gli uomini abbassarono i veli e snudarono i denti. Maledizione. Avevano i denti limati.

Erano stati Convertiti. Poteva vederlo nei loro occhi... occhi che non erano giusti, che non erano umani.

In quel momento Isam per poco non fuggì, entrando nel sogno. Non poteva ucciderli entrambi. Sarebbe stato ridotto in cenere prima di riuscire a eliminarne uno. Aveva visto i Samma N’Sei uccidere; spesso lo facevano semplicemente per esplorare nuovi modi per usare i loro poteri.

Non attaccarono. Sapevano che quella donna era una Prescelta? Allora perché si erano abbassati il velo? I Samma N’Sei non si abbassavano mai il velo se non per uccidere... e solo quando si trattava di uccisioni che stavano pregustando con impazienza.

«Loro ti accompagneranno» disse la Prescelta. «Avrai anche un manipolo dei Senza Talenti perché ti aiutino a sbarazzarti delle guardie di al’Thor.» Si voltò verso di lui e, per la prima volta, lo fissò negli occhi. Pareva... disgustata. Come se aver bisogno del suo aiuto le desse la nausea.

‘Loro ti accompagneranno’ aveva detto. Non ‘Loro ti serviranno.’ Dannato figlio di un cane. Questo sarebbe stato un lavoro odioso.


Talmanes si gettò di lato, evitando a malapena l’ascia del Trolloc. La terra tremò mentre l’arma rompeva le pietre del selciato; lui si tuffò e conficcò la lama nella coscia della creatura. Quella cosa aveva il muso di un toro e gettò indietro la testa per mugghiare.

«Che io sia folgorato, hai un alito davvero fetido» bofonchiò Talmanes, strappando via la spada e indietreggiando. La creatura crollò su un ginocchio e Talmanes le staccò la mano che impugnava l’ascia.

Col fiatone, Talmanes indietreggiò agilmente mentre i suoi due compagni colpivano il Trolloc alla schiena con le lance. Era sempre meglio combattere i Trolloc in gruppo. Be’, era sempre meglio combattere chiunque con una squadra al tuo fianco, ma era più importante con i Trolloc, considerando quanto erano grossi e forti.

I cadaveri erano sparsi come cumuli di immondizia nella notte. Talmanes era stato costretto a dar fuoco ai corpi di guardia dei cancelli cittadini per fare un po’ di luce; la mezza dozzina circa di guardie rimaste erano diventate reclute della Banda, per il momento.

Come una marea nera, i Trolloc iniziarono a ritirarsi dal cancello. Si erano spinti troppo avanti per conquistarlo. O meglio nell’essere spinti nel conquistarlo. C’era stato un Mezzo Uomo con quel manipolo. Talmanes abbassò la mano alla ferita che aveva al fianco. Era umida.

I fuochi dei corpi di guardia si stavano estinguendo. Avrebbe dovuto ordinare di dare alle fiamme alcune botteghe. Così rischiava di far estendere l’incendio, ma la città era già perduta. Non aveva senso trattenersi ora. «Brynt!» sbraitò. «Dà fuoco a quelle stalle!»

Sandip si avvicinò mentre Brynt passava correndo con una torcia. «Torneranno. Presto, probabilmente.»

Talmanes annuì. Adesso che il combattimento era finito, la gente cominciava a riversarsi fuori da vicoli e nascondigli, cercando timidamente di raggiungere il cancello e — presumibilmente — la salvezza.

«Non possiamo restare qui e tenere questo cancello» disse Sandip. «I Draghi...»

«Lo so. Quanti uomini abbiamo perso?»

«Non ho ancora un conteggio. Un centinaio, almeno.»

Luce. Mat mi spellerà vivo quando lo saprà. Mat odiava perdere truppe. In quell’uomo c’era una tenerezza pari al suo genio, una combinazione strana ma formidabile. «Manda degli esploratoli a controllare le strade cittadine nei paraggi per vedere se si sta avvicinando della Progenie dell’Ombra. Ammassate alcune carcasse di questi Trolloc per farne delle barricate; funzioneranno come qualunque altra cosa. Tu, soldato!»

Uno dei soldati stanchi che passava lì davanti si immobilizzò. Indossava i colori della Regina. «Mio signore?»

«Dobbiamo far sapere alla gente che questo cancello per uscire dalla città è sicuro. C’è un richiamo con il corno che i popolani dell’Andor possano riconoscere? Qualcosa che li porterà qui?»

«‘Popolani’» disse l’uomo pensieroso. Pareva che quella parola non gli piacesse. Non la usavano spesso, lì nell’Andor. «Sì, la Marcia della Regina.»

«Sandip?»

«Provvederò a farla suonare, Talmanes» disse Sandip.

«Bene.» Talmanes si inginocchiò per ripulire la spada sulla camicia di un Trolloc caduto; il fianco gli faceva male. La ferita non era grave. Non in condizioni normali. Solo un graffio, davvero.

La camicia era così sudicia che quasi esitò nel ripulire la sua arma, ma il sangue di Trolloc nuoceva a una lama, perciò vi tamponò la spada. Si rialzò, ignorando il dolore al fianco, poi si diresse verso il cancello, dove aveva legato Selfar. Non osava fidarsi del cavallo contro la Progenie dell’Ombra. Era un buon castrone, ma non era addestrato come quelli delle Marche di Confine.

Nessuno degli uomini sollevò obiezioni quando salì in sella e voltò Selfar verso ovest, fuori dai cancelli cittadini, in direzione di quei mercenari che aveva visto prima. Talmanes non fu sorpreso di scoprire che si erano spostati più vicino alla città. I combattimenti attiravano i guerrieri come faceva un fuoco con viaggiatori infreddoliti in una notte invernale.

Non si erano uniti alla battaglia. Avvicinandosi, Talmanes venne accolto da un gruppetto delle spade prezzolate: sei uomini dalle braccia forti ma il cui cervello — probabilmente — non lo era altrettanto. Riconobbero lui e la Banda. Mat era decisamente famoso in quei giorni, e per associazione lo era anche la Banda.

Senza dubbio notarono anche le macchie di sangue trolloc sugli abiti di Talmanes e la fasciatura che aveva al fianco.

Quella ferita aveva iniziato a sanguinare copiosamente ora. Talmanes strattonò le redini di Selfar, poi tastò con pazienza le bisacce. Avevo messo via del tabacco qui da qualche parte...

«Ebbene?» chiese uno dei mercenari. Il capo era facile da distinguere: aveva l’armatura migliore. Spesso un uomo diventava il capo di una banda come quella rimanendo vivo.

Talmanes estrasse la sua seconda miglior pipa dalla bisaccia. Dov’era quel tabacco? Non portava mai la pipa migliore in battaglia. Suo padre l’aveva definita scaramanzia.

Ah, pensò, tirando fuori il borsello del tabacco. Ne mise un po’ nel fornello, poi tolse un bastoncino per accendere e si sporse in avanti per ficcarlo in una torcia nella mano di un mercenario guardingo.

«Non combatteremo a meno che non siamo pagati» disse il capo. Era un uomo robusto, sorprendentemente pulito, anche se una spuntata alla barba non gli avrebbe fatto male.

Talmanes accese la pipa, sbuffando una nuvoletta di fumo. Dietro di lui, i corni cominciarono a suonare. La Marcia della Regina si rivelò una melodia orecchiabile. I corni furono accompagnati da urla, e Talmanes si guardò indietro. Trolloc sulla strada principale, un drappello più numeroso di prima.

I balestrieri si schierarono e iniziarono a sparare a un ordine che Talmanes non poteva sentire.

«Non siamo...» esordì nuovamente l’uomo al comando.

«Sai cosa ci troviamo davanti?» chiese Talmanes piano con la pipa in bocca. «Questo è l’inizio della fine. È la caduta delle nazioni e l’unificazione dell’umanità. Questa è l’Ultima Battaglia, dannato idiota.»

Gli uomini si agitarono a disagio.

«Tu... tu parli per la Regina?» disse il capo, cercando di recuperare qualcosa. «Voglio solo che si provveda ai miei uomini.»

«Se combatterete,» disse Talmanes «ti prometto una ricompensa enorme.»

L’uomo attese.

«Ti prometto che continuerete a respirare» disse Talmanes prendendo un’altra boccata.

«È una minaccia, Cairhienese?»

Talmanes sbuffò il fumo, poi si sporse in basso dalla sua sella, avvicinando il volto a quello del capo. «Ho ucciso un Myrddraal stanotte, Andorano» disse piano. «Mi ha scalfito con una lama Thakan’dar e la ferita è diventata nera. Questo significa che, nella migliore delle ipotesi, mi rimangono poche ore prima che il veleno mi bruci dall’interno e muoia nel modo più atroce possibile per un uomo. Pertanto, amico, ti suggerisco di fidarti di me quando ti dico che non ho proprio nulla da perdere.»

L’uomo sbatté le palpebre.

«Avete due possibilità» disse Talmanes, voltando il suo cavallo e parlando ad alta voce alla truppa. «Potete combattere come il resto di noi e aiutare questo mondo a vedere nuovi giorni, e forse alla fine guadagnerete qualche moneta. Non posso prometterlo. L’altra vostra possibilità è starvene seduti qui, a guardare gente che viene massacrata e dire a voi stessi che non lavorate gratis. Se siete fortunati e il resto di noi salverà questo mondo senza di voi, respirerete per il tempo sufficiente a essere appesi per i vostri colli codardi.»

Silenzio. Corni risuonarono dall’oscurità dietro Talmanes.

Il capo mercenario guardò verso i suoi compagni. Quelli annuirono.

«Aiutate a tenere quel cancello» disse Talmanes. «Andrò dalle altre bande mercenarie e le convincerò a collaborare.»


Leilwin fece spaziare lo sguardo sulla moltitudine di accampamenti che punteggiavano il luogo noto come Campo di Merrilor. Nell’oscurità, con la luna che non sarebbe sorta ancora per qualche tempo, poteva quasi immaginare che i fuochi per cucinare fossero lanterne di navi in un porto indaffarato di notte.

Era uno spettacolo che probabilmente non avrebbe visto mai più. Leilwin Senzanave non era un capitano; non lo sarebbe stata mai più. Desiderare altrimenti era come sfidare la natura stessa di ciò che era diventata.

Bayle le mise una mano sulla spalla. Dita tozze, irruvidite da molti giorni di lavoro. Leilwin sollevò una mano per posarla sulla sua. Era stato semplice scivolare attraverso uno di quei passaggi creati a Tar Valon. Bayle sapeva come muoversi per la città, anche se si era lamentato di trovarsi lì. «Questo posto mi fa rizzare i peli delle braccia» aveva detto, e «Non volevo percorrere queste strade mai più. Non lo volevo davvero.»

Ma era andato con lei comunque. Un brav’uomo, Bayle Domon. Il migliore che avesse trovato in queste terre a lei sconosciute, malgrado momenti di commerci riprovevoli nel suo passato. Ma se l’era lasciato alle spalle. Se non capiva qual era il giusto corso delle cose, almeno ci provava.

«Questo sì che è uno spettacolo» disse lui, esaminando il silenzioso mare di luce. «Cosa vuoi fare ora?»

«Troviamo Nynaeve al’Meara o Elayne Trakand.»

Bayle si grattò il mento barbuto; lo portava alla maniera illianese, con il labbro superiore rasato. Le ciocche che aveva in testa erano di lunghezza variabile; aveva smesso di rasarsi una parte del capo adesso che lei l’aveva liberato. Leilwin l’aveva fatto in modo che potessero sposarsi, naturalmente.

Era un bene: una testa rasata avrebbe attirato l’attenzione lì. Lui si era comportato molto bene come so’jhin una volta che certe... questioni erano state risolte. Alla fine, comunque, Leilwin doveva ammettere che Bayle Domon non era fatto per essere so’jhin. Era troppo rozzo e nessuna marea avrebbe mai attenuato quelle spigolosità. Era così che lo voleva, anche se non l’aveva mai detto ad alta voce.

«È davvero tardi, Leilwin» disse lui. «Forse dovremmo a — spettare fino a domattina.»

No. Gli accampamenti erano silenziosi, vero, ma non era il silenzio del torpore. Era la quiete di navi che attendevano venti propizi.

Leilwin sapeva poco di ciò che stava accadendo lì: non aveva osato aprire la bocca a Tar Valon per fare domande, così da evitare di essere riconosciuta come Seanchan dal suo accento. Un raduno di queste dimensioni non avveniva senza un’adeguata pianificazione. La sua immensità la lasciava sorpresa: aveva sentito che lì ci sarebbe stato un raduno, uno al quale buona parte delle Aes Sedai erano venute a partecipare. Questo superava qualunque cosa avesse previsto.

Si avviò lungo il campo e Bayle la seguì; entrambi si unirono al gruppo di servitori di Tar Valon che avevano il permesso di accompagnare, grazie a qualche moneta di Bayle. I suoi metodi non le piacevano, ma Leilwin non era riuscita a escogitare nessun altro modo. Cercava di non pensare troppo ai contatti che lui aveva un tempo a Tar Valon. Be’, se lei non fosse più salita su una nave, Bayle non avrebbe avuto altre opportunità per il contrabbando. Quella era una piccola consolazione.

Sei un capitano di nave. E tutto ciò che conosci; tutto ciò che vuoi. E ora, sei Senzanave. Rabbrividì e chiuse le mani a pugno per non stringere le braccia attorno a sé stessa. Passare il resto dei suoi giorni in queste terre immutabili, non poter più muoversi a un passo più rapido di quello che poteva fornire un cavallo, non sentire più l’odore dell’aria del mare al largo, non indirizzare più la sua prora verso un orizzonte, issare l’ancora, far vela e semplicemente...

Si riscosse. Trovare Nynaeve ed Elayne. Poteva essere Senzanave ma non avrebbe permesso a sé stessa di scivolare negli abissi e affogare. Tracciò la rotta e iniziò a camminare. Bayle si ingobbì lievemente, sospettoso, e cercò di osservare tutto quello che li circondava. Le lanciò anche qualche occhiata, le labbra tese in una linea. Oramai Leilwin sapeva cosa significava.

«Cosa c’è?» domandò.

«Leilwin, cosa ci facciamo qui?»

«Te l’ho detto. Dobbiamo trovare...»

«Sì, ma perché? Cosa pensi di fare? Sono Aes Sedai.»

«Mi hanno mostrato rispetto in precedenza.»

«E perciò pensi che ci accoglieranno?»

«Forse.» Lo fissò. «Parla, Bayle. Hai qualcosa per la testa.»

Lui sospirò. «Perché dobbiamo farci coinvolgere, Leilwin? Potremmo trovarci una nave da qualche parte, nell’Arad Doman. Dove non ci siano Aes Sedai Seanchan.»

«Non capitanerei il tipo di nave che ti piacerebbe.»

Bayle le scoccò un’occhiata piatta. «So come condurre commerci onesti, Leilwin. Non sarebbe...»

Lei sollevò una mano per zittirlo, poi gliel’appoggiò sulla spalla. Si fermarono sul cammino. «Lo so, amore mio. Lo so.

Sto pronunciando parole per distrarre, per farci virare in una corrente che non va da nessuna parte.»

«Perché?»

Quell’unica parola la grattò come una scheggia sotto un’unghia. Perché? Perché era venuta fin lì, viaggiando con Matrim Cauthon, mettendosi pericolosamente vicino alla Figlia delle Nove Lune? «Il mio popolo vive con un’idea seriamente sbagliata del mondo, Bayle. Nel farlo, generano ingiustizia.»

«Ti hanno emarginato, Leilwin» disse lui piano. «Non sei più una di loro.»

«Io sarò sempre una di loro. Mi è stato tolto il nome, ma non il sangue.»

«Sono spiacente per l’insulto.»

Leilwin annuì bruscamente. «Sono ancora leale all’Imperatrice, che possa vivere per sempre. Ma le damane... loro sono le fondamenta stesse del suo dominio. Sono i mezzi tramite i quali crea l’ordine, con cui tiene assieme l’impero. E le damane sono una menzogna.»

Le sul’dam potevano incanalare. Il talento poteva essere appreso. Ora, mesi dopo aver scoperto la verità, la sua mente non riusciva ad abbracciare tutte le implicazioni. Qualcun altro forse avrebbe avuto più interesse nel vantaggio politico; qualcun altro sarebbe potuto tornare a Seanchan e usarlo per ottenere potere. Leilwin desiderava quasi averlo fatto. Quasi.

Ma le suppliche delle sul’dam... arrivare a conoscere quelle Aes Sedai, che erano completamente diverse da quello che le era stato insegnato...

Bisognava fare qualcosa. Eppure, nel farlo, rischiava forse di far crollare tutto quanto l’impero? Doveva ponderare con estrema attenzione le sue mosse, come gli ultimi turni di una partita di shal.

I due continuarono a seguire la fila di servitori nell’oscurità; accadeva spesso che delle Aes Sedai inviassero dei servitori a prendere qualcosa che avevano lasciato nella Torre Bianca, perciò viaggiare avanti e indietro era una cosa comune: un bene per Leilwin. Superarono il perimetro dell’accampamento delle Aes Sedai senza alcun controllo.

Fu sorpresa da quella facilità finché non notò diversi uomini lungo il sentiero. Era facile non vederli: c’era qualcosa in loro che li faceva fondere con i paraggi, in particolare al buio. Li notò solo quando uno si mosse, staccandosi dagli altri per mettersi al passo a poca distanza dietro lei e Bayle.

Bastarono pochi secondi perché fosse evidente che li aveva notati. Forse era la loro andatura, il loro portamento. Erano stati attenti a indossare abiti ordinari, anche se la barba di Bayle lo avrebbe contrassegnato come un Illianese.

Leilwin si fermò — posando una mano sul braccio di Bayle — e si voltò per fronteggiare l’uomo che li seguiva. Un Custode, ipotizzò dalle descrizioni.

Il Custode si avvicinò a loro. Si trovavano ancora vicino al perimetro dell’accampamento, le tende disposte ad anelli. Leilwin aveva notato con disagio che alcune delle tende brillavano di una luce troppo costante per provenire da lampade o candele.

«Ehi» disse Bayle, sollevando amichevolmente una mano verso il Custode. «Cerchiamo una Aes Sedai di nome Nynaeve al’Meara. Se non è qui, forse una chiamata Elayne Trakand?»

«Nessuna delle due è accampata qui» disse il Custode. Era un uomo dalle braccia lunghe che si muoveva con grazia. Le sue fattezze, incorniciate da lunghi capelli scuri, parevano... incomplete. Cesellate nella roccia da uno scultore che aveva perso interesse a metà progetto.

«Ah» disse Bayle. «Errore nostro, allora. Potresti indicarci dove sono accampate? E una questione di una certa urgenza, vedi.» Parlò in tono tranquillo, sereno. Bayle poteva essere molto affascinante, quand’era necessario. Molto più di Leilwin.

«Dipende» disse il Custode. «La tua compagna, anche lei desidera trovare queste Aes Sedai?»

«Sì, lei...» iniziò Bayle, ma il Custode alzò una mano.

«Vorrei sentirlo da lei» disse, esaminando Leilwin.

«E quello che desidero» disse Leilwin. «Per la mia vecchia nonna! Queste donne, loro ci hanno promesso un pagamento, e io intendo averlo. Le Aes Sedai non mentono. Tutti lo sanno. Se non vuoi portarci da loro, mandaci qualcuno che lo farà!»

Il Custode esitò, sgranando gli occhi a quella raffica di parole. Poi, per fortuna, annuì. «Da questa parte.» Li condusse lontano dal centro del campo, ma non sembrava più sospettoso.

Leilwin esalò un respiro sommesso e si mise al passo con Bayle dietro il Custode. Bayle la guardò con orgoglio, mostrando un sorriso così ampio che di sicuro li avrebbe traditi se il Custode si fosse guardato alle spalle. Anche lei non riuscì a trattenere un accenno di sorriso.

L’accento illianese non le era venuto naturale, ma avevano convenuto entrambi che la sua inflessione seanchan era pericolosa, in particolare quando viaggiavano in mezzo alle Aes Sedai. Bayle affermava che nessun vero Illianese l’avrebbe accettata come una di loro, ma era evidente che Leilwin era abbastanza brava da ingannare un forestiero.

Si sentì sollevata quando si allontanarono dall’accampamento delle Aes Sedai nell’oscurità. Avere due amiche — erano amiche, malgrado i problemi tra loro — che erano Aes Sedai non significava che lei volesse essere all’interno di un campo che ne era pieno. Il Custode li condusse a uno spiazzo aperto vicino al centro del Campo di Merrilor. C’era un accampamento molto vasto lì, con un gran numero di piccole tende.

«Aiel» le disse Bayle piano. «Ce ne sono decine di migliaia.»

Interessante. Si narravano storie spaventose sugli Aiel, leggende che non potevano essere tutte vere. Tuttavia i racconti — pur se esagerati — lasciavano intendere che fossero i migliori guerrieri da quel lato dell’oceano. Leilwin avrebbe gradito un combattimento amichevole con uno o due di loro, se la situazione fosse stata diversa. Posò una mano sul lato del suo zaino; aveva riposto il suo randello in una tasca lunga sul lato, a portata di mano.

Di sicuro erano un popolo alto, questi Aiel. Superarono alcuni di loro che oziavano presso i fuochi da campo, apparentemente rilassati. Quegli occhi, però, osservavano in maniera più acuta di quelli del Custode. Gente pericolosa, pronta a uccidere mentre si rilassava presso il fuoco. Non riusciva a distinguere gli stendardi che sventolavano sopra quel campo nel cielo notturno.

«Quale Re o Regina governa questo campo, Custode?» gli domandò.

L’uomo si voltò verso di lei, le sue fattezze nascoste nelle ombre della notte. «Il vostro Re, Illianese.»

Al suo fianco, Bayle si irrigidì.

Il mio...

Il Drago Rinato. Era orgogliosa di non aver incespicato nel camminare, ma ci era andata vicina. Un uomo in grado di incanalare. Quello era peggio, molto peggio delle Aes Sedai.

Il Custode li condusse a una tenda vicino al centro dell’accampamento. «Siete fortunati: ha la luce accesa.» Non c’erano guardie all’ingresso della tenda, così lui chiese e ricevette il permesso di entrare. Scostò il lembo con un braccio e fece loro un cenno con il capo, tuttavia teneva l’altra mano sulla spada e stava in una posa da combattimento.

Leilwin odiava avere quella spada alle sue spalle, ma entrò come ordinato. La tenda era rischiarata da uno di quegli innaturali globi di luce, e una donna familiare in un abito verde sedeva a uno scrittoio, lavorando a una lettera. Nynaeve al’Meara era quella che, a Seanchan, sarebbe stata definita una telarti: una donna con il fuoco nell’anima. Leilwin era giunta a capire che le Aes Sedai in teoria erano calme come acque placide. Ebbene, quella donna poteva essere così ogni tanto... ma era il tipo di acque tranquille che si trovavano soltanto a un’ansa di distanza da una cascata impetuosa.

Nynaeve continuò a scrivere mentre entravano. Non portava più la treccia; aveva i capelli sciolti attorno alle spalle. Era una vista strana quanto una nave senza albero maestro.

«Sarò da te tra un momento, Sleete» disse Nynaeve. «Sinceramente, il modo in cui mi ronzi attorno di recente mi fa pensare a una mamma uccello che abbia perso un uovo. La tua Aes Sedai non ha nessun incarico per te?»

«Lan è importante per molti di noi, Nynaeve Sedai» disse il Custode — Sleete — con voce calma e roca.

«Ah, e non è importante per me? Sinceramente, mi domando se non dovremmo mandarti a spaccare la legna o cose del genere. Se un altro Custode viene a vedere se ho bisogno di...»

Alzò lo sguardo, notando finalmente Leilwin. All’istante il volto di Nynaeve divenne impassibile. Gelido. Di un freddo ustionante. Leilwin si ritrovò a sudare. Quella donna teneva la sua vita nelle proprie mani. Perché Sleete non li aveva portati da Elayne? Forse non avrebbero dovuto menzionare Nynaeve.

«Questi due hanno chiesto di vederti» disse Sleete. Aveva la spada sguainata. Leilwin non l’aveva notato. Domon borbottò piano tra sé. «Affermano che hai promesso di pagar loro del denaro e che sono venuti a riscuoterlo. Non si sono identificati nella Torre, però, e hanno trovato un modo per intrufolarsi attraverso uno dei passaggi. L’uomo proviene da Illian. La donna da qualche altra parte. Sta camuffando il suo accento.»

Be’, forse non era così brava con l’accento come aveva presunto. Leilwin lanciò un’occhiata alla spada del Custode. Se fosse rotolata da un lato, probabilmente lui avrebbe mancato il colpo, sempre che avesse mirato al torace o al collo. Poteva tirar fuori il randello e....

Si trovava di fronte a una Aes Sedai. Non si sarebbe mai rialzata dopo aver rotolato. Sarebbe stata intrappolata in un flusso dell’Unico Potere, o peggio.

«Li conosco, Sleete» disse Nynaeve, la sua voce fredda. «Hai fatto bene a portarli da me. Grazie.»

Il Custode rinfoderò all’istante la spada e Leilwin avvertì aria fresca sul collo quando lui scivolò fuori dalla tenda, silenzioso come un sussurro.

«Se sei qui per implorare perdono,» disse Nynaeve «sei venuta dalla persona sbagliata. Ho una mezza idea di consegnarti ai Custodi per essere interrogata. Forse possono estorcere da quella tua mente infida qualcosa di utile sul tuo popolo.»

«Anch’io sono contenta di rivederti, Nynaeve» disse Leilwin in tono freddo.

«Allora cos’è successo?» domandò Nynaeve.

«Ho tentato» disse all’improvviso Bayle, con rammarico. «Li ho combattuti, ma sono stato sopraffatto facilmente. Avrebbero potuto dar fuoco alla mia nave, farci affondare tutti quanti, uccidere i miei uomini.»

«Sarebbe stato meglio se tu e tutti quelli a bordo foste morti, Illianese» disse Nynaeve. «Il ter’angreal è finito nelle mani di una dei Reietti: Semirhage si stava nascondendo tra i Seanchan, spacciandosi per qualche tipo di giudice. Una Voce della Verità? È quella la definizione giusta?»

«Sì» disse Leilwin piano. Ora capiva. «Mi dispiace aver infranto il mio giuramento, ma...»

«Ti dispiace, Egeanin?» disse Nynaeve, alzandosi in piedi e sbattendo indietro la sedia. «‘Dispiacere’ non è una parola che userei per aver messo in pericolo il mondo stesso, portandoci sull’orlo dell’oscurità per poi spingerci quasi oltre il bordo! Lei ha fatto fare delle copie di quell’aggeggio, donna. Una è finita attorno al collo del Drago Rinato. Il Drago Rinato in persona, controllato da una dei Reietti!»

Nynaeve gettò in alto le mani. «Luce! Siamo stati solo a pochi attimi dalla fine, a causa tua. La fine di tutto. Niente più Disegno, niente più mondo, niente di niente. Milioni di vite si sarebbero potute estinguere a causa della tua sbadataggine.»

«Io...» Tutt’a un tratto i fallimenti di Leilwin parvero monumentali. La sua vita, perduta. Il suo stesso nome, perduto. La sua nave, strappatale dalla Figlia delle Nove Lune in persona. Tutto scompariva alla luce di quello.

«Io ho combattuto» disse Bayle con maggiore fermezza. «Ho combattuto con tutto ciò che potevo dare.»

«Pare che mi sarei dovuta unire a te» disse Leilwin.

«Ho cercato di spiegarlo» disse Bayle con aria torva. «Molte volte ormai, che io sia folgorato, ma l’ho fatto eccome.»

«Bah» disse Nynaeve, portandosi una mano alla fronte. «Cosa ci fai qui, Egeanin? Speravo fossi morta. Se fossi morta cercando di mantenere il tuo giuramento, non avrei potuto biasimarti.»

L’ho dato a Suroth in persona, pensò Leilwin. Un prezzo pagato per la mia vita, l’unica via di salvezza.

«Ebbene?» Nynaeve la fissò con sguardo torvo. «Parla, Egeanin.»

«Non porto più quel nome.» Leilwin si inginocchiò. «Tutto mi è stato tolto, incluso il mio onore, a quanto pare. Mi concedo a te come pagamento.»

Nynaeve sbuffò. «Non teniamo le persone come se fossero animali, a differenza di voi Seanchan.»

Leilwin rimase inginocchiata. Bayle le appoggiò una mano sulla spalla, ma non cercò di tirarla in piedi. Oramai capiva piuttosto bene perché lei doveva comportarsi a quel modo. Era quasi del tutto civilizzato.

«In piedi» sbottò Nynaeve. «Luce, Egeanin. Ti ricordo così forte da poter masticare rocce e sputar fuori sabbia.»

«È la mia forza a obbligarmi» disse lei, abbassando gli occhi. Nynaeve non capiva quanto era difficile? Sarebbe stato più semplice tagliarsi la gola, solo che non le rimaneva abbastanza onore per chiedere una fine tanto facile.

«Alzati!»

Leilwin fece come le veniva detto.

Nynaeve prese il mantello dal letto e se lo mise addosso. «Vieni. Ti porteremo dall’Amyrlin. Forse lei saprà cosa fare con te.»

Nynaeve uscì a grandi passi nella notte e Leilwin la seguì. Aveva preso la sua decisione. C’era una sola strada che aveva senso, un solo modo per conservare un briciolo d’onore e forse per aiutare il suo popolo a sopravvivere alle menzogne che avevano raccontato a sé stessi per così tanto tempo.

Leilwin Senzanave ora apparteneva alla Torre Bianca. Qualunque cosa avessero detto, qualunque cosa avessero cercato di fare con lei, quel fatto non sarebbe cambiato. La possedevano. Sarebbe stata da’covale per quella Amyrlin, e avrebbe cavalcato quella tempesta come una nave la cui vela fosse stata fatta a brandelli dal vento.

Forse, con ciò che rimaneva del suo onore, sarebbe riuscita a conquistarsi la fiducia di quella donna.


«Fa parte di un vecchio rimedio per il dolore delle Marche di Confine» disse Melten, togliendo la benda sul fianco di Talmanes. «La vescichella rallenta la corruzione lasciata dal metallo maledetto.»

Melten era un uomo snello, con una zazzera di lunghi capelli. Era vestito come un boscaiolo andorano, con camicia e mantello semplici, ma parlava come un uomo delle Marche di Confine. Nel borsello portava una serie di palle colorate con cui alle volte faceva il giocoliere per altri membri della Banda. In un’altra vita, doveva essere stato un menestrello.

Era insolito che un uomo come lui fosse nella Banda, ma questo valeva per tutti, in un senso o nell’altro.

«Non so come faccia a smorzare il veleno» disse Melten. «Ma lo fa. Non è un veleno naturale, bada bene. Non puoi succhiarlo via.»

Talmanes si premette la mano contro il fianco. Il dolore bruciante era come rampicanti spinosi che gli strisciavano sottopelle, insinuandosi più in profondità e strappandogli la carne a ogni movimento. Poteva percepire il veleno muoversi attraverso il suo corpo. Luce, quanto faceva male.

Nelle vicinanze, gli uomini della Banda si facevano strada combattendo per Caemlyn, diretti su verso il Palazzo. Erano entrati attraverso il cancello meridionale, lasciando i drappelli di mercenari — sotto il comando di Sandip — a tenere il cancello occidentale.

Se c’era resistenza umana da qualche parte nella città, sarebbe stata al palazzo. Purtroppo, manipoli di Trolloc vagabondavano per la zona tra la posizione di Talmanes e il palazzo. Continuavano a imbattersi nei mostri e a rimanere coinvolti in scontri.

Talmanes non era riuscito a scoprire se c’era davvero qualcuno che resisteva lassù senza andarci effettivamente. Questo significava guidare i suoi uomini fino al Palazzo, facendosi strada combattendo, e rischiare che il percorso alle sue spalle venisse bloccato se uno di quei manipoli erranti li avesse aggirati. Non c’era altra possibilità, però. Doveva scoprire cosa rimaneva — sempre che rimanesse qualcosa — delle difese del palazzo. Da lì, poteva spingersi più in profondità dentro Caemlyn e cercare di prendere i Draghi.

L’aria puzzava di fumo e sangue; durante una breve pausa tra gli scontri, avevano impilato i Trolloc morti contro il lato destro della strada per lasciar spazio per passare.

C’erano anche dei profughi in quel quartiere cittadino, anche se non una fiumana. Un flusso, forse, che fuoriusciva dall’oscurità man mano che Talmanes e la Banda conquistavano parti della strada principale che portava al palazzo. Quei profughi non chiedevano mai che la Banda proteggesse i loro averi o salvasse le loro case; singhiozzavano dalla gioia nel trovare una resistenza umana. Madwin aveva l’incarico di mandarli verso la libertà lungo il corridoio sicuro che la Banda aveva tracciato.

Talmanes guardò su verso il palazzo, in cima alla collina, ma visibile solo a malapena nella notte. Anche se buona parte della città bruciava, il palazzo non era in fiamme; le sue mura bianche erano sospese come fantasmi nella notte fumosa. Niente fuoco. Quello doveva indicare una resistenza, giusto? I Trolloc non lo avrebbero forse attaccato come una delle prime cose una volta giunti in città?

Aveva mandato alcuni esploratori a perlustrare la strada più avanti mentre concedeva ai suoi uomini — e a sé stesso — un breve riposo.

Melten finì di legare stretto il cataplasma di Talmanes.

«Grazie, Melten» disse Talmanes, annuendo all’uomo. «Sento già che l’impiastro sta facendo effetto. Hai detto che è parte della cura per il dolore. Qual è l’altra parte?»

Melten sganciò una fiasca di metallo dalla cintura e gliela porse. «Acquavite shienarese, fortissima.»

«Non è una buona idea bere in combattimento, soldato.»

«Prendila» disse Melten piano. «Tieni la fiasca e bevi a fondo, mio signore. Oppure alla prossima campana non sarai in piedi.»

Talmanes esitò, poi prese la fiasca e tracannò una lunga sorsata. Bruciava come la ferita. Tossì, poi mise via l’acquavite. «Credo che tu abbia scambiato le bottiglie, Melten. Quello era qualcosa che hai trovato in una tinozza da conciatura.»

Melten sbuffò. «E poi dicono che non hai il senso dell’umorismo, Lord Talmanes.»

«Non ce l’ho» replicò Talmanes. «Restami vicino con la tua spada.»

Melten annuì, lo sguardo solenne. «Spezzaterrore.»

«Che vuol dire?»

«È un titolo delle Marche di Confine. Hai ucciso un Fade. Spezzaterrore.»

«Quando l’ho ucciso aveva diciassette dardi in corpo.»

«Non ha importanza.» Melten gli strinse la spalla. «Spezzaterrore. Quando non riuscirai più a sopportare il dolore, stringi le mani a pugno e sollevale verso di me. Ci penserò io.»

Talmanes si alzò in piedi, incapace di trattenere un grugnito. Capivano entrambi. I vari uomini delle Marche di Confine nella Banda erano d’accordo: le ferite inferte da una lama Thakan’dar erano imprevedibili. Alcune suppuravano rapidamente, altre facevano ammalare gli uomini. Quando una diventava nera come quella di Talmanes, però... quella era la peggiore. Non c’era nulla che poteva salvarlo, tranne trovare una Aes Sedai entro poche ore.

«Vedi,» borbottò Talmanes «è un bene che non abbia alcun senso dell’umorismo, altrimenti penserei che il Disegno mi sta giocando uno scherzo. Dennel! Hai una mappa a portata di mano?» Luce, quanto gli mancava Vanin.

«Mio signore» disse Dennel, precipitandosi lungo la strada buia con in mano una torcia e una mappa disegnata in tutta fretta. Era uno dei capitani dei Draghi della Banda. «Penso di aver trovato un percorso più rapido fino alle strade dove Aludra ha fatto mettere da parte quei Draghi...»

«Prima ci faremo strada combattendo fino al Palazzo» disse Talmanes.

«Mio signore» le parole di Dennel giunsero più piano dalle sue grosse labbra. Continuava a toccarsi l’uniforme, come se non gli calzasse a dovere. «Se l’Ombra raggiunge quei Draghi...»

«Sono consapevole dei pericoli, Dennel, grazie. Quanto puoi spostarli rapidamente, sempre che li raggiungiamo? Temo che ci stiamo sparpagliando troppo, e questa città sta bruciando più velocemente di lettere d’amore intrise d’olio indirizzate all’amante di un Sommo Signore. Voglio prendere le armi e lasciare questa città il più rapidamente possibile.»

«Posso spianare un bastione nemico con un colpo o due, mio signore, ma i Draghi non si muovono rapidamente. Sono attaccati a carretti, perciò questo aiuterà, ma non andranno più veloci di... un convoglio di salmerie, diciamo. E occorrerà tempo per posizionarli a dovere e sparare.»

«Allora continuiamo verso il Palazzo» disse Talmanes.

«Ma...»

«Al Palazzo» disse lui in tono severo «potremmo trovare donne in grado di intessere un passaggio che ci porti dritto al magazzino di Aludra. Inoltre, se troviamo la Guardia del Palazzo che sta ancora combattendo, sapremo di avere degli amici a coprirci le spalle. Recupereremo quei Draghi, ma lo faremo in modo intelligente.»

Notò Ladwin e Mar che si affrettavano a scendere verso di lui. «Ci sono Trolloc lassù!» disse Mar, precipitandosi da Talmanes. «Almeno un centinaio, a formare una barriera lungo la strada.»

«Formate i ranghi, uomini!» urlò Talmanes. «Sferreremo un’offensiva per arrivare al Palazzo!»


Un silenzio totale calò sulla tenda della sauna.

Aviendha aveva previsto forse incredulità al suo racconto. Di sicuro domande. Non quel doloroso silenzio.

Anche se non se l’era aspettato, lo comprendeva. Lo aveva provato lei stessa dopo aver assistito alla visione degli Aiel che avrebbero perduto lentamente ji’e’toh nel futuro. Era stata testimone della morte, del disonore e della rovina del suo popolo. Almeno ora aveva qualcuno con cui condividere quel fardello.

Le pietre riscaldate nel bollitore sibilarono piano. Qualcuno avrebbe dovuto versare altra acqua, ma nessuna delle sei occupanti della stanza fece una mossa per provvedervi. Le altre cinque erano tutte Sapienti, nude — proprio come Aviendha — secondo l’usanza delle tende della sauna. Sorilea, Amys, Bair, Melaine e Kymer degli Aiel Tomanelle. Tutte avevano lo sguardo fisso davanti a sé, ciascuna sola per il momento con i propri pensieri.

Una a una, raddrizzarono la schiena e si misero a sedere, come per accettare un nuovo fardello. Quel gesto confortò Aviendha; non che si fosse aspettata che quelle notizie le Avrebbero spezzate. Era sempre bene vederle rivolgere i loro volti verso il pericolo invece che distoglierli.

«L’Accecatore è troppo vicino al mondo ora» disse Melaine. «E Disegno è stato distorto in qualche modo. Nel sogno vediamo ancora molte cose che potrebbero accadere oppure no, ma ci sono troppe possibilità; non possiamo distinguere una dall’altra. Il destino del nostro popolo è incerto per le Camminatrici dei Sogni, così come il destino del Car’a’carn una volta che avrà sputato nell’occhio dell’Accecatore l’Ultimo Giorno. Non conosciamo la verità di ciò che Aviendha ha visto.»

«Dobbiamo fare delle prove» disse Sorilea, gli occhi come pietra. «Dobbiamo sapere. Adesso a ciascuna donna viene mostrata questa visione invece dell’altra, oppure si è trattato di un’esperienza unica?»

«Elenar dei Daryne» disse Amys. «Il suo addestramento è quasi completo; sarà la prossima a visitare il Rhuidean. Potremmo chiedere a Hayde e Shanni di incoraggiarla.»

Aviendha represse un tremito. Comprendeva fin troppo bene quanto potevano essere ‘incoraggianti’ le Sapienti.

«Sarebbe bene» disse Bair, sporgendosi in avanti. «Forse è questo che succede quando qualcuno passa attraverso le colonne di vetro una seconda volta? Forse è per questo che è proibito.»

Nessuna di loro guardò Aviendha, ma poteva percepire che la stavano valutando. Quello che aveva fatto era proibito. E anche parlare di quello che era successo nel Rhuidean.

Non ci sarebbe stato nessun rimprovero. Il Rhuidean non l’aveva uccisa; questo era ciò che la Ruota aveva intessuto. Bair continuò a fissare in lontananza. Del sudore gocciolava lungo i lati del volto di Aviendha e sui suoi seni.

Non mi manca fare il bagno, si disse. Non era una molle abitante delle terre bagnate. Tuttavia, una tenda della sauna non era davvero necessaria da questo versante delle montagne. Non c’era un freddo pungente di notte, perciò il calore della tenda pareva soffocante, non un sollievo. E se c’era acqua in abbondanza per un bagno...

No. Assunse un’espressione decisa. «Posso parlare?»

«Non essere sciocca, ragazza» disse Melaine. La donna aveva un ventre tondeggiante, quasi da partoriente. «Sei una di noi ora. Non c’è bisogno di chiedere il permesso.»

Ragazza? Sarebbe occorso del tempo perché la vedessero davvero come una di loro, ma almeno facevano lo sforzo. Nessuno le ordinava di preparare il tè o di gettare acqua sul bollitore. Senza apprendiste in giro e nessun gai’shain a portata di mano, facevano a turno per quei compiti.

«Sono meno preoccupata della possibilità che la visione si ripeta» disse Aviendha «che per quello che mi è stato mostrato. Accadrà? Possiamo fermarlo?»

«Il Rhuidean mostra due tipi di visione» disse Kymer. Era una donna giovane, forse di una decina d’anni più vecchia di Aviendha, con capelli rosso intenso e un viso lungo e abbronzato. «La prima visita è quello che potrebbe essere, la seconda, alle colonne, quello che è accaduto.»

«La terza visione potrebbe essere qualunque di queste due» disse Amys. «Le colonne mostrano sempre il passato con precisione; perché non dovrebbero mostrare il futuro con altrettanta precisione?»

Ad Aviendha sussultò il cuore in petto.

«Ma perché» disse Bair piano «le colonne mostrerebbero una disperazione immutabile? No. Mi rifiuto di crederlo. Il Rhuidean ci ha sempre mostrato ciò che ci occorreva vedere. Per aiutarci, non per distruggerci. Anche questa visione deve avere uno scopo. Incoraggiarci verso un onore più grande?»

«Non ha importanza» disse Sorilea in tono brusco.

«Ma...» iniziò Aviendha.

«Non ha importanza» ripeté Sorilea. «Se questa visione fosse immutabile, se il nostro destino fosse... cadere... come hai detto tu, qualcuno di noi smetterebbe di combattere per cambiarla?»

La stanza rimase in silenzio. Aviendha scosse il capo.

«Dobbiamo trattarla come se possa essere cambiata» disse Sorilea. «Meglio non dilungarsi sulla tua domanda, Aviendha. Dobbiamo decidere che strada intraprendere.»

Aviendha si ritrovò ad annuire. «Io... Sì, sì, hai ragione, Sapiente.»

«Ma cosa facciamo?» chiese Kymer. «Cosa cambiamo? Per ora, l’Ultima Battaglia deve essere vinta.»

«Vorrei quasi» disse Amys «che la visione fosse immutabile, poiché almeno proverebbe che vinceremo questa lotta.»

«Non prova nulla» disse Sorilea. «La vittoria dell’Accecatore romperebbe il Disegno, perciò nessuna visione del futuro può essere certa o affidabile. Perfino con le profezie di ciò che potrebbe accadere nelle Epoche a venire, se l’Accecatore vince questa battaglia, tutto diventerà nulla.»

«Questa visione a cui ho assistito ha a che fare con quello che sta progettando Rand» disse Aviendha.

Si voltarono verso di lei.

«Domani» disse Aviendha. «Da ciò che mi avete detto, si sta preparando per una rivelazione importante.»

«Il Car’a’carn ha un... debole per le presentazioni drammatiche» disse Bair, dal cui tono traspariva quella stessa debolezza. «E come un orcinello che ha lavorato tutta notte per costruire un nido così da poterci cantare al mattino per tutti quelli che ascolteranno.»

Aviendha era rimasta sorpresa nello scoprire del raduno a Merrilor; l’aveva saputo solo usando il suo legame con Rand al’Thor per determinare dove si trovava. Nell’arrivare lì e trovare così tante persone assieme, le forze delle terre bagnate tutte radunate lì, si era domandata se ciò fosse parte di quello che aveva visto. Questo raduno era l’inizio di ciò che sarebbe diventato la sua visione?

«Mi sento come se sapessi più di quanto dovrei.» Parlò quasi fra sé.

«Hai dato una profonda occhiata a quello che il futuro potrebbe avere in serbo» disse Kymer. «Ti cambierà, Aviendha.»

«Domani è la chiave» disse Aviendha. «Il suo piano.»

«Da quello che hai detto,» ribatté Kymer «pare che lui intenda ignorare gli Aiel, il suo stesso popolo. Perché darebbe benefici a chiunque altro, ma non a coloro che sono più meritevoli? Cerca forse di insultarci?»

«Non penso che sia quello il motivo» disse Aviendha. «Credo che intenda fare richieste ai partecipanti, non concedere loro doni.»

«In effetti ha menzionato un prezzo» disse Bair. «Un prezzo che intende far pagare agli altri. Nessuno è stato in grado di cavargli il segreto di quel prezzo.»

«Poche ore fa ha attraversato un passaggio per Tear ed è tornato con qualcosa» disse Melaine. «Lo hanno riferito le Fanciulle; ora lui rispetta il suo giuramento di portarle con sé.

Quando abbiamo chiesto di questo suo prezzo, ha detto che si tratta di qualcosa di cui gli Aiel non devono preoccuparsi.»

Aviendha aggrottò la fronte. «Ha intenzione di farsi pagare dagli uomini per fare ciò che tutti sappiamo che deve fare? Forse ha trascorso troppo tempo con quell’emissaria che il Popolo del Mare gli ha mandato.»

«No, questo è un bene» disse Amys. «Questa gente pretende troppo dal Car’a’carn. Lui ha il diritto di pretendere qualcosa in cambio da loro. Sono molli; forse lui intende renderli duri.»

«E così lascia fuori noi,» disse Bair piano «perché sa che siamo già duri.»

Nella tenda calò il silenzio. Amys, con espressione preoccupata, versò qualche mestolo d’acqua sulle pietre riscaldate del bollitore. Ci fu un sibilo mentre si levava il vapore.

«Proprio così» disse Sorilea. «Non intende insultarci. Intende renderci onore, ai suoi occhi.» Scosse il capo. «Dovrebbe sapere che non è così.»

«Spesso» concordò Kymer «il Car’a’carn reca offesa per puro caso, come se fosse un bambino. Noi siamo forti, perciò la sua richiesta — qualunque sia — non ha importanza. Se è un prezzo che gli altri possono pagare, possiamo farlo anche noi.»

«Non commetterebbe questi errori se fosse stato addestrato a dovere nelle nostre usanze» mormorò Sorilea.

Aviendha incontrò i loro occhi senza battere ciglio. No, lei non l’aveva addestrato al meglio, ma sapevano che Rand al’Thor era ostinato. Inoltre, adesso Aviendha era una loro pari. Anche se aveva qualche problema a pensarla così nel guardare le labbra serrate di Sorilea, segno della sua disapprovazione.

Forse derivava dall’aver trascorso troppo tempo con abitanti delle terre bagnate come Elayne, ma all’improvviso vide le cose come doveva vederle Rand. Concedere agli Aiel un’esenzione dal suo prezzo — se era effettivamente quello che lui intendeva — era un atto d’onore. Se lui avesse fatto loro una richiesta come per gli altri, queste stesse Sapienti si sarebbero potute offendere per essere state accomunate con gli abitanti delle terre bagnate.

Cosa stava architettando? Aviendha notò degli accenni nelle visioni, ma era sempre più certa che l’indomani gli Aiel si sarebbero avviati sulla strada per la loro rovina.

Doveva fare in modo che non accadesse. Quello era il suo primo compito come Sapiente, e probabilmente sarebbe stato il più importante che mai le sarebbe stato affidato. Non avrebbe fallito.

«Il suo compito non era soltanto istruirlo» disse Amys. «Cosa non darei per sapere che si trova al sicuro sotto gli occhi attenti di una brava donna.» Guardò Aviendha, il volto carico di significato.

«Sarà mio» disse Aviendha con fermezza. Ma non per te, Amys, né per il nostro popolo. Rimase sconcertata dalla forza di quel sentimento dentro di lei. Aviendha era Aiel. Il suo popolo significava tutto per lei.

Ma quella scelta non era loro. Quella scelta era sua.

«Bada, Aviendha» disse Bair, posandole una mano sul polso. «È cambiato da quando te ne sei andata. È diventato più forte.»

Aviendha si accigliò. «In che modo?»

«Ha abbracciato la morte» disse Amys in tono orgoglioso. «Può darsi che porti ancora una spada e indossi i vestiti di un abitante delle terre bagnate, ma ora è nostro, finalmente e completamente.»

«Devo vederlo con i miei occhi» disse Aviendha, alzandosi in piedi. «Scoprirò quello che posso sui suoi piani.»

«Non rimane più molto tempo» la avvisò Kymer.

«Rimane una notte» disse Aviendha. «Sarà sufficiente.»

Gli altri annuirono e Aviendha iniziò a vestirsi. Inaspettatamente, le altre si unirono a lei, vestendosi a loro volta. Pareva che le considerassero notizie tanto importanti da condividerle con le altre Sapienti, piuttosto che continuare a starsene sedute lì in riunione.

Aviendha fu la prima a uscire nella notte; l’aria fresca, lontano dal calore soffocante della tenda della sauna, le dava una bella sensazione sulla pelle. Prese un respiro profondo. Aveva la mente oppressa dalla stanchezza, ma il sonno avrebbe dovuto attendere.

I lembi della tenda frusciarono dietro le altre Sapienti, Melaine e Amys che parlavano piano tra loro mentre si allontanavano in tutta fretta nella notte. Kymer si diresse a passo deciso verso la parte dell’accampamento dei Tomanelle. Forse voleva parlare con suo padre-sorella, Han, il capo del clan Tomanelle.

Aviendha stessa iniziò ad avviarsi, ma una mano ossuta la prese per il braccio. Con la coda dell’occhio vide Bair in piedi dietro di lei, vestita di nuovo con blusa e gonna.

«Sapiente» disse Aviendha di riflesso.

«Sapiente» replicò Bair con un sorriso.

«C’è qualcosa che...»

«Voglio andare al Rhuidean» disse Bair, lanciando un’occhiata al cielo. «Potresti gentilmente creare un passaggio per me?»

«Hai intenzione di passare attraverso le colonne di vetro.»

«Una di noi deve farlo. Malgrado quello che dice Amys, Elenar non è pronta, in particolare non per vedere... qualcosa di questa natura. Quella ragazza passa la metà delle sue giornate a starnazzare come una poiana per l’ultimo pezzo di una carcassa marcia.»

«Ma...»

«Oh, non cominciare anche tu. Adesso sei una di noi, Aviendha, ma io sono ancora abbastanza vecchia da aver accudito la tua bisnonna quando era una bambina.» Bair scosse il capo; i suoi capelli bianchi parevano quasi brillare nella luce lunare che filtrava. «Sono la scelta migliore» continuò. «Le incanalatrici devono essere preservate per la battaglia a venire. E non voglio che qualche bambina cammini in mezzo a quelle colonne ora. Lo farò io. Adesso, quel passaggio? Esaudirai la mia richiesta oppure devo fare la prepotente con Amys perché lo crei?»

Ad Aviendha sarebbe piaciuto vedere qualcuno fare il prepotente con Amys. Forse Sorilea poteva riuscirci. Non disse nulla, però, e creò il flusso adeguato per aprire un passaggio.

Il pensiero che un’altra persona vedesse ciò che aveva visto lei le dava il voltastomaco. Se Bair fosse tornata esattamente con la stessa visione, cosa avrebbe significato? Avrebbe indicato che il futuro era più probabile?

«E stato terribile, vero?» chiese Bair piano.

«Orrendo. Avrebbe fatto piangere le lance e sbriciolare le rocce, Bair. Avrei preferito danzare con l’Accecatore in persona.»

«Allora è molto meglio che ci vada io piuttosto che qualcun’altra. Dovrebbe essere la più forte di noi a farlo.»

Aviendha si trattenne a stento dal sollevare un sopracciglio. Bair era robusta quanto cuoio buono, ma le altre Sapienti non erano esattamente petali di fiori. «Bair» disse Aviendha quando le venne in mente una cosa. «Hai mai incontrato una donna di nome Nakomi?»

«Nakomi.» Bair saggiò quella parola nella sua bocca. «Un nome antico. Non ho mai conosciuto nessuno che lo usasse. Perché?»

«Ho incontrato una donna aiel mentre ero in viaggio verso il Rhuidean» disse Aviendha. «Ha affermato di non essere una Sapiente, ma si comportava in un modo...» Scosse il capo. «Te l’ho chiesto solo per curiosità.»

«Be’, conosceremo un po’ della verità di queste visioni» disse Bair, avviandosi verso il passaggio.

«E se fossero vere, Bair?» si ritrovò a chiedere Aviendha. «E se non ci fosse nulla che possiamo fare?»

Bair si voltò. «Hai visto i tuoi figli, hai detto?»

Aviendha annuì. Non aveva parlato in dettaglio di quella parte della visione. Le era sembrata una faccenda più personale.

«Cambia uno dei loro nomi» disse Bair. «Non pronunciare mai il nome con cui il bambino veniva chiamato nella visione, nemmeno con noi. Allora saprai. Se una cosa è diversa, anche altre potrebbero esserlo. Lo saranno. Questo non è il nostro destino, Aviendha. E un sentiero che eviteremo. Assieme.»

Aviendha si ritrovò ad annuire. Sì. Un cambiamento semplice, un piccolo cambiamento, ma pieno di significato. «Grazie, Bair.»

L’attempata Sapiente le rivolse un cenno con il capo, poi entrò nel passaggio, correndo nella notte verso la città più avanti.


Talmanes si scagliò con la spalla contro un imponente Trolloc dalla faccia di cinghiale in una rozza armatura di maglia.

La bestia emanava un fetore orrendo, come fumo, pelliccia umida e carne non lavata. Grugnì per la forza dell’assalto di Talmanes; quelle cose sembravano rimanere sempre sorprese quando lui le attaccava.

Talmanes indietreggiò, strappando via la spada dal fianco della bestia mentre crollava a terra. Poi si scagliò in avanti e le conficcò la spada nella gola, incurante delle unghie frastagliate che gli graffiavano le gambe. La vita scomparve da quei piccoli occhi brillanti, fin troppo umani.

Gli uomini combattevano, urlavano, grugnivano, uccidevano. La strada procedeva in una pendenza ripida su verso il Palazzo. Orde di Trolloc si erano asserragliati lì, tenendo la posizione e impedendo alla Banda di raggiungere la cima.

Talmanes si afflosciò contro il lato di un edificio; quello accanto era in fiamme, illuminava la strada con colori violenti e inondandolo di calore. Quei fuochi parevano gelidi paragonati al terribile dolore avvampante della sua ferita. Quella vampata gli scendeva dalla gamba fino al piede e stava iniziando a salire fino alla spalla.

Sangue e maledette ceneri, pensò. Cosa darei per qualche altra ora con la mia pipa e un libro, da solo e in pace. Le persone che parlavano di morte gloriosa in battaglia erano degli stramaledetti idioti. Non c’era nulla di glorioso nel morire in quel caos di fuoco e sangue. Mille volte meglio una morte tranquilla.

Talmanes si rimise in piedi, gocce di sudore che gli cadevano dal volto. Sotto, i Trolloc erano ammassati dietro la sua posizione di retroguardia. Avevano bloccato la strada dietro la truppa di Talmanes, ma lui fu in grado di procedere, aprendosi un varco tra i Trolloc più avanti.

Sarebbe stato difficile riuscire in una ritirata. Non solo quella strada era piena di Trolloc, ma combattere nella città voleva dire che i Trolloc potevano aggirarli passando per le vie in piccoli gruppi e attaccarli sui fianchi, mentre avanzavano e più tardi quando avessero ripiegato.

«Scagliategli contro tutto quello che avete, uomini!» urlò, lanciandosi su per la strada contro i Trolloc che bloccavano il passaggio. Il Palazzo era molto vicino ora. Intercettò la spada di un Trolloc dalla testa di capra con il suo scudo appena prima che spiccasse la testa di Dennel. Talmanes cercò di scaraventare indietro l’arma della bestia, ma Luce, quanto erano forti i Trolloc. Talmanes riuscì a stento a impedire che questo lo gettasse a terra mentre Dannel si ristabiliva e lo attaccava alle cosce, facendolo cadere.

Melten si mise accanto a Talmanes. L’abitante delle Marche di Confine era fedele alla sua parola di stare vicino, nel caso Talmanes avesse avuto bisogno di una spada per porre fine alla sua vita. I due guidarono l’offensiva su per la collina. I Trolloc cominciarono a cedere, poi si radunarono, un ammasso ringhiante e ruggente di pelliccia scura, occhi e armi alla luce del fuoco.

Ce n’erano così tanti.

«Avanti così!» urlò Talmanes. «Per Lord Mat e la Banda della Mano Rossa.»

Se Mat fosse stato lì, probabilmente avrebbe imprecato parecchio, si sarebbe lamentato altrettanto, poi avrebbe proceduto a salvarli con qualche miracolo sul campo. Talmanes non riusciva a replicare il miscuglio di follia e ispirazione di Mat, ma il suo urlo parve incoraggiare gli uomini. I ranghi si strinsero. Gavid dispose le sue due dozzine di balestrieri — gli ultimi che Talmanes aveva con sé — in cima a un edificio che non era stato raso al suolo dalle fiamme. Iniziarono a scagliare dardi contro i Trolloc, una raffica dopo l’altra.

Quello avrebbe potuto mandare in rotta nemici umani, ma non i Trolloc. I dardi ne abbatterono alcuni, ma non quanti Talmanes avrebbe sperato.

C’è un altro Fade là dietro, pensò Talmanes. Che li spinge in avanti. Luce, non posso combatterne un altro. Non avrei dovuto affrontare nemmeno il primo!

Non sarebbe dovuto essere in piedi. La fiasca di acquavite di Melten non c’era più, prosciugata da tempo per lenire quello che poteva. La sua mente era già confusa fino al punto massimo che poteva permettersi. Si accostò a Dennel e Londraed in prima linea, combattendo, concentrandosi. Spargendo sangue di Trolloc sui ciottoli che poi scorreva giù per la collina.

La Banda combatteva bene, ma erano in inferiorità numerica ed esausti. Più in basso, un altro manipolo di Trolloc si unì a quelli sulla strada alle loro spalle.

Quello era il momento. Avrebbe dovuto colpire quella forza lì dietro — voltando le spalle a quella davanti — oppure separare i suoi uomini in unità più piccole e mandarli in ritirata per le vie laterali a ricompattarsi al cancello più in basso.

Talmanes si preparò a dare gli ordini.

«Avanti il Leone Bianco!» urlarono delle voci. «Per l’Andor e la Regina!»

Talmanes si voltò e vide uomini in bianco e rosso irrompere tra le file dei Trolloc in cima alla collina. Una seconda forza di picchieri andorani si riversò fuori da un vicolo laterale, arrivando dietro l’orda di Trolloc che lo aveva appena circondato. I Trolloc andarono in rotta davanti ai picchieri in arrivo e, in pochi istanti, quell’intera massa scoppiò come una vescica piena di pus, con i Trolloc che si sparpagliavano in tutte le direzioni.

Talmanes barcollò all’indietro. Per un attimo dovette puntellarsi con la spada mentre Madwin prendeva il comando del contrattacco e i suoi uomini uccidevano molti dei Trolloc in fuga.

Un gruppo di ufficiali, nelle uniformi insanguinate della Guardia della Regina, si precipitò giù per il versante della collina; non parevano in condizioni migliori della Banda. Erano guidati da Guybon. «Mercenario,» disse a Talmanes «ti ringrazio per essere venuto.»

Talmanes si accigliò. «Ti comporti come se fossimo stati noi a salvarvi. Dal mio punto di vista, è successo proprio il contrario.»

Guybon fece una smorfia alla luce del fuoco. «Q avete dato un po’ di respiro; quei Trolloc stavano attaccando le porte del Palazzo. Mi scuso per averci messo così tanto a raggiungervi: sulle prime non ci eravamo resi conto di cosa li avesse attirati in questa direzione.»

«Luce. Il Palazzo resiste ancora?»

«Sì» disse Guybon. «Siamo pieni di profughi, però.»

«E le incanalatrici?» chiese Talmanes, speranzoso. «Perché gli eserciti andorani non sono tornati con la Regina?»

«Amici delle Tenebre.» Guybon si accigliò. «Sua maestà ha preso con sé buona parte delle donne della Famiglia, le più forti, perlomeno. Ne ha lasciate quattro con potere sufficiente per creare un passaggio tutte assieme, ma — l’attacco — un assassino ne ha uccise due prima che le altre due potessero fermarlo. Da sole, quelle due non sono abbastanza forti per chiedere aiuto. Stanno usando le loro forze per Guarire.»

«Sangue e maledette ceneri» disse Talmanes, anche se provò una punta di speranza mentre lo diceva. Forse queste donne potevano non riuscire a creare un passaggio, ma potevano essere in grado di Guarire la sua ferita. «Dovresti guidare i profughi fuori dalla città, Guybon. I miei uomini tengono il cancello meridionale.»

«Eccellente» disse Guybon, raddrizzandosi. «Ma dovrai essere tu a guidare i profughi. Io devo difendere il Palazzo.»

Talmanes lo guardò sollevando un sopracciglio; lui non prendeva ordini da Guybon. La Banda aveva la propria struttura di comando e riferiva soltanto alla Regina. Mat l’aveva messo in chiaro quando aveva accettato il contratto.

Purtroppo nemmeno Guybon prendeva ordini da Talmanes. Talmanes trasse un respiro profondo, ma poi un giramento di testa lo fece barcollare. Melten lo prese per il braccio per impedirgli di cadere a terra.

Luce, quanto faceva male. Perché il suo fianco non poteva comportarsi a dovere e diventare insensibile? Sangue e maledette ceneri. Doveva arrivare da quelle donne della Famiglia.

Talmanes disse speranzoso: «Quelle due donne che possono Guarire?»

«Le ho già mandate a chiamare» disse Guybon. «Non appena abbiamo visto questa truppa.»

Be’, era già qualcosa.

«Io intendo restare qui» lo avvisò Guybon. «Non abbandonerò questa postazione.»

«Perché? La città è perduta, amico!»

«La Regina ci ha ordinato di inviare rapporti regolari tramite passaggi» disse Guybon. «Prima o poi si domanderà perché non abbiamo mandato un messaggero. Invierà un’incanalatrice per vedere perché non abbiamo fatto rapporto e quel messaggero arriverà al terreno di Viaggio del Palazzo. Questo...»

«Mio signore!» chiamò una voce. «Mio Lord Talmanes!»

Guybon si interruppe e Talmanes si voltò, trovando Filger — uno degli esploratori — che si precipitava su per il selciato insanguinato del pendio verso di lui. Filger era un uomo magro, con capelli radi e una barba non fatta da un paio di giorni, e vederlo riempì Talmanes di terrore. Filger era uno di quelli che avevano lasciato a guardia dei cancelli cittadini più in basso.

«Mio signore,» disse Filger con il fiatone «i Trolloc hanno preso le mura. Stanno affollando i bastioni, scagliando frecce o lance a chiunque si avvicini troppo. Il tenente Sandip mi ha mandato ad avvertirti.»

«Sangue e ceneri! E il cancello?»

«Stiamo tenendo» disse Filger. «Per ora.»

«Guybon» disse Talmanes, voltandosi. «Mostra un po’ di pietà, amico; c’è bisogno che qualcuno difenda quel cancello. Per favore, porta fuori i profughi e dà man forte ai miei uomini. Quel cancello sarà la nostra unica via per ritirarci dalla città.»

«Ma il messaggero della Regina...»

«La Regina capirà cos’è dannatamente successo non appena penserà a dare un’occhiata qui. Guardati attorno! Cercare di difendere il Palazzo è follia. Non ha più una città, ma una pira.»

Il volto di Guybon era combattuto, le sue labbra una linea sottile.

«Sai che ho ragione» disse Talmanes, la faccia contorta dal dolore. «La cosa migliore che puoi fare è dare man forte ai miei uomini al cancello meridionale per tenerlo aperto per tutti i profughi che riusciranno a raggiungerlo.»

«Forse» disse Guybon. «Ma lasciar bruciare il Palazzo?»

«Puoi fare in modo che valga qualcosa» disse Talmanes. «E se lasciassi alcuni soldati a combattere al Palazzo? Potrebbero tenere a bada i Trolloc il più a lungo possibile. Questo attirerà i Trolloc lontano dalle persone che stanno fuggendo da questa parte. Quando non ce la faranno più, i tuoi soldati potranno scappare dai cortili del Palazzo sul lato opposto e poi fare il giro fino al cancello meridionale.»

«Un buon piano» disse Guybon malvolentieri. «Farò come suggerisci, ma tu?»

«Io devo arrivare ai Draghi» disse Talmanes. «Non possiamo lasciare che cadano nelle mani dell’Ombra. Si trovano in un magazzino vicino al margine della Città Interna. La Regina li voleva tenere nascosti, lontano dalle bande di mercenari fuori città. Devo trovarli. Se possibile, recuperarli. Altrimenti, distruggerli.»

«Molto bene» disse Guybon voltandosi, con l’aria frustrata per aver accettato l’inevitabile. «I miei uomini faranno come suggerisci: metà di loro guideranno fuori i profughi, poi aiuteranno i tuoi soldati a tenere il cancello meridionale. L’altra metà terrà il Palazzo ancora un poco, poi si ritirerà. Ma io verrò con te.»


«Abbiamo davvero bisogno di così tante lampade qui dentro?» domandò la Aes Sedai dal suo sgabello sul fondo della stanza. Era come se quello sgabello fosse un trono. «Pensa a quanto olio stai sprecando.»

«Ci servono le lampade» bofonchiò Androl. La pioggia notturna martellava la finestra, ma lui la ignorava, cercando di concentrarsi sul cuoio che stava cucendo. Sarebbe stata una sella. Al momento stava lavorando sulla cinghia che avrebbe circondato la pancia del cavallo.

Fece una doppia fila di buchi nel cuoio, lasciando che il lavoro lo calmasse. Il cesello che usava creava buchi a forma di diamante; se avesse voluto, avrebbe potuto farli più velocemente usando il maglio, ma in quel momento gli piaceva la sensazione di realizzare i buchi a mano.

Raccolse la ruota per la cucitura, misurando le posizioni per i punti successivi, poi praticò altri fori. Bisognava allineare i lati piatti dei diamanti l’uno verso l’altro per buchi del genere, in modo che, quando il cuoio tirava, non lo facesse contro di essi. Quei punti precisi avrebbero aiutato a mantenere la sella in buono stato nel corso degli anni. Le file dovevano essere abbastanza vicine da rinforzarsi a vicenda, ma non così tanto da rischiare che si strappassero. Praticarli lungo una linea spezzata aiutava.

Piccole cose. Dovevi semplicemente assicurarti che le piccole cose fossero fatte nel modo giusto e....

Le sue dita scivolarono e fece un foro con il diamante che puntava nella direzione sbagliata. Due dei buchi si lacerarono tra loro a quel movimento.

Per poco non lanciò tutto quanto dall’altra parte della stanza dalla frustrazione. Era la quinta volta, quella notte!

Luce, pensò, premendo le mani sul tavolo. Cos’è successo al mio autocontrollo?

Poteva rispondere facilmente a quella domanda, purtroppo. La Torre Nera, ecco cos’è successo. Si sentiva come un nachi dalle molte zampe intrappolato in una pozza di marea asciutta, attendendo disperatamente che l’acqua tornasse mentre osservava un gruppo di bambini muoversi lungo la spiaggia con dei secchi, raccogliendo qualunque cosa sembrasse saporita...

Inspirò ed espirò, poi raccolse il cuoio. Questo sarebbe stato il pezzo più raffazzonato che faceva da anni, ma l’avrebbe terminato. Lasciare qualcosa incompiuto era sbagliato quanto fare pasticci con i dettagli.

«Curioso» disse la Aes Sedai. Si chiamava Pevara, dell’Ajah Rossa. Androl poteva sentire i suoi occhi sulla schiena.

Una Rossa. Be’, destinazioni comuni richiamavano insoliti compagni di viaggio, come diceva il vecchio adagio tairenese. Forse avrebbe dovuto usare invece il proverbio saldaeano: Se la sua spada è alla gola del tuo nemico, non perdere tempo a ricordare quando era alla tua.

«Allora,» disse Pevara «mi stavi raccontando della tua vita prima di arrivare alla Torre Nera.»

«Non mi pare proprio» disse Androl, iniziando a cucire. «Perché? Cosa volevi sapere?»

«Sono semplicemente curiosa. Sei stato uno di quelli giunti qui per conto loro, per essere messi alla prova, oppure uno di quelli che hanno trovato mentre erano in giro a caccia?»

Androl tirò forte un filo. «Sono venuto per conto mio, come credo che Evin ti abbia detto ieri, quando gli hai chiesto di me.»

«Mmm» disse lei. «Sono tenuta sotto controllo, vedo.»

Lui la guardò, abbassando il cuoio. «È qualcosa che ti insegnano?»

«Cosa?» domandò Pevara in tono innocente.

«A rigirare una conversazione. Eccoti lì seduta, ad accusare me di spiarti, quando sei stata tu quella che è andata in giro a chiedere di me ai miei amici.»

«Voglio sapere quali sono le mie risorse.»

«Vuoi sapere perché un uomo sceglierebbe di venire alla Torre Nera. Di apprendere a incanalare l’Unico Potere.»

Pevara non rispose. Andrai poteva vedere che stava cercando una risposta che non entrasse in conflitto con i Tre Giuramenti. Parlare con una Aes Sedai era come cercare di seguire un serpente verde che strisciava tra l’erba umida.

«Sì» disse lei.

Androl sbatté le palpebre dalla sorpresa.

«Sì, voglio saperlo» continuò. «Siamo alleati, che ciascuno di noi lo desideri o no. Voglio sapere con che genere di persona mi sono infilata a letto.» Lo squadrò. «In senso figurato, naturalmente.»

Lui prese un respiro profondo, costringendosi a calmarsi. Odiava parlare con le Aes Sedai: distorcevano tutto quanto. Quello, unito alla tensione della notte e all’incapacità di realizzare quella sella per bene...

Sarebbe rimasto calmo, che la Luce lo folgorasse!

«Dovremmo esercitarci a creare un circolo» disse Pevara. «Sarà un vantaggio per noi — per quanto piccolo — contro gli uomini di Taim, se dovessero cercare di catturarci.»

Androl scacciò dalla mente la sua antipatia per quella donna — aveva altre cose di cui preoccuparsi — e si impose di pensare in maniera oggettiva. «Un circolo?»

«Non sai di cosa si tratta?»

«Temo di no.»

Lei increspò le labbra. «A volte dimentico quanto siete ignoranti tutti voi...» Si interruppe, come rendendosi conto di aver detto troppo.

«Tutti gli uomini sono ignoranti, Aes Sedai» disse Androl. «Gli argomenti della nostra ignoranza possono cambiare, ma la natura del mondo prevede che nessun uomo possa sapere tutto.»

Nemmeno quella parve essere la risposta che lei si era aspettata. Quegli occhi duri lo esaminarono. Non le piacevano gli uomini in grado di incanalare — questo valeva per buona parte della gente — ma nel suo caso era ancora di più. Aveva passato a vita a dare la caccia a uomini come Androl.

«Un circolo» disse Pevara «si crea quando donne e uomini uniscono le loro forze nell’Unico Potere. Dev’essere fatto in un modo specifico.»

«Il M’Hael lo conoscerà, allora.»

«Gli uomini hanno bisogno delle donne per formare un circolo» disse Pevara. «In effetti, un circolo deve contenere più donne che uomini tranne in casi molto limitati. Un uomo e una donna possono collegarsi, così come possono fare una donna e due uomini, oppure due donne e due uomini. Perciò il massimo che potremmo creare è un circolo di tre, con me e due di voi. Tuttavia, potrebbe esserci utile.»

«Ti troverò due degli altri con cui esercitarti» disse Androl. «Tra quelli di cui mi fido, direi che Nalaam è il più forte. Anche Emarin è molto potente, e non penso che abbia ancora raggiunto l’apice della sua forza. Lo stesso vale per Jonneth.»

«Loro sono i più forti?» chiese Pevara. «Non tu?»

«No» disse lui, tornando al suo lavoro. Fuori la pioggia si intensificò di nuovo e dell’aria fredda si insinuò sotto la porta. Lì vicino una delle lampade della stanza ardeva bassa, creando ombre. Androl osservò l’oscurità con inquietudine.

«Lo trovo difficile da credere, Mastro Androl» disse lei. «Tutti fanno riferimento a te.»

«Credi quello che vuoi, Aes Sedai. Sono il più debole tra loro. Forse il più debole in tutta la Torre Nera.»

Questo la zittì, e Androl si alzò per ricaricare quella lampada tremolante. Mentre tornava a sedersi, dei colpi alla porta annunciarono l’ingresso di Emarin e Canler. Sebbene entrambi fossero fradici a causa della pioggia, per il resto erano quanto di più opposto esistesse. Uno era alto, raffinato e accorto, l’altro irritabile e incline ai pettegolezzi. Avevano trovato un punto di incontro da qualche parte e parevano gradire la reciproca compagnia.

«Ebbene?» chiese Androl.

«Potrebbe funzionare» disse Emarin, togliendosi la giacca zuppa di pioggia e appendendola a un gancio accanto alla porta. Sotto indossava abiti ricamati secondo lo stile tairenese. «Dovrebbe essere un temporale molto forte. Le guardie sorvegliano con attenzione.»

«Mi sento come il toro in palio a una fiera» borbottò Canler, sbattendo via dagli stivali un po’ di fango dopo aver appeso la sua giacca. «Ovunque andiamo, i preferiti di Taim ci controllano con la coda dell’occhio. Sangue e ceneri, Androl. Lo sanno. Sanno che proveremo a fuggire.»

«Avete trovato qualche punto debole?» chiese Pevara, sporgendosi in avanti. «Qualche parte in cui le mura siano meno sorvegliate?»

«Pare che dipenda dalle guardie scelte, Pevara Sedai» disse Emarin, rivolgendole un cenno con il capo.

«Mmm... suppongo sia così. Ho mai detto come trovo affascinante che quello di voi a trattarmi con più rispetto è un tairenese?»

«Essere cortesi verso una persona non è indice di rispetto nei suoi confronti, Pevara Sedai» replicò Emarin. «E semplicemente un segno di una buona educazione e una natura equilibrata.»

Androl sorrise. Emarin era un’assoluta meraviglia con gli insulti. Buona parte delle volte, la persona non si rendeva conto di essere stata presa in giro finché non si erano congedati.

Pevara increspò la bocca. «Bene, allora. Osserviamo la rotazione delle guardie. Quando giungerà il prossimo temporale, lo useremo come copertura e fuggiremo scavalcando le mura vicino alle guardie che ci sembreranno meno vigili.»

I due uomini si voltarono verso Androl, assorto a osservare l’angolo della stanza dove cadeva l’ombra di un tavolo. Si stava ingrandendo? Si allungava verso di lui...

«Non mi piace lasciare indietro degli uomini» disse, costringendosi a distogliere lo sguardo dall’angolo. «Qui ci sono dozzine e dozzine di uomini e ragazzi che non sono ancora sotto il controllo di Taim. Non possiamo plausibilmente condurli via tutti quanti senza attirare l’attenzione. Se li lasciamo indietro, rischiamo...»

Non riusciva a dirlo. Non sapevano cosa stava accadendo, non proprio. Le persone stavano cambiando. Alleati una volta affidabili diventavano nemici nell’arco di una notte. Parevano le stesse persone, eppure allo stesso tempo erano diversi. Diversi in fondo agli occhi. Androl rabbrividì.

«Le donne mandate dalle Aes Sedai ribelli sono ancora fuori dai cancelli» disse Pevara. Erano accampate là fuori da un po’ di tempo, sostenendo che il Drago Rinato aveva promesso loro dei Custodi. Taim non ne aveva ancora fatta entrare nessuna. «Se riusciamo a raggiungerle, possiamo fare irruzione nella Torre e salvare quelli lasciati indietro.»

«Sarà davvero così facile?» chiese Emarin. «Taim avrà un intero villaggio di ostaggi. Parecchi uomini hanno portato le famiglie.»

Canler annuì. La sua famiglia era una di quelle. Non l’avrebbe abbandonata di proposito.

«Oltre a quello,» disse Androl piano, girando lo sgabello per guardare Pevara «pensi davvero che le Aes Sedai possano vincere qui?»

«Molte di loro hanno decenni di esperienza... alcune anche secoli.»

«E quanto di quel tempo hanno speso a combattere?»

Pevara non rispose.

«Qui ci sono centinaia di uomini in grado di incanalare, Aes Sedai» continuò Androl. «Ciascuno è stato addestrato — a lungo — per essere un’arma. Noi non impariamo politica o storia. Non studiamo come influenzare le nazioni. Impariamo a uccidere. Ogni uomo e ragazzo qui viene spinto ai limiti delle sue capacità, costretto a dare il massimo e crescere. Ottenere più potere. Distruggere. E parecchi di loro sono pazzi. Le tue Aes Sedai possono combattere questo? In particolare quando molti degli uomini di cui ci fidiamo — quegli stessi che stiamo cercando di salvare — probabilmente lotteranno al fianco degli uomini di Taim, se vedranno che le Aes Sedai cercano di invadere la Torre?»

«Le tue argomentazioni non sono prive di valore» disse Pevara.

Proprio come una Regina, pensò lui, impressionato pur controvoglia dall’atteggiamento della Aes Sedai.

«Ma di certo ci serve far giungere informazioni all’esterno» continuò Pevara. «Un attacco totale può non essere saggio, ma starcene seduti qui finché non saremo presi tutti, uno alla volta...»

«Credo proprio che sarebbe saggio mandare qualcuno» disse Emarin. «Dobbiamo avvertire il Lord Drago.»

«Il Lord Drago» disse Canler con uno sbuffo, andandosi a sedere accanto alla parete. «Ci ha abbandonato, Emarin. Per lui non siamo nulla. E...»

«Il Drago Rinato porta il mondo sulle sue spalle, Canler» disse Androl piano, interrompendolo. «Non so perché ci abbia lasciato qui, ma preferirei ritenere che è dovuto al fatto che ci reputa in grado di cavarcela da soli.» Androl tastò le cinghie di cuoio, poi si alzò in piedi. «Questo è il momento di dar prova di noi stessi, di vedere quanto vale la Torre Nera. Se dovremo correre dalle Aes Sedai per proteggerci dai nostri stessi compagni, ci sottometteremo alla loro autorità. Se dovremo rifugiarci dal Drago Rinato, non saremo nulla una volta che lui non ci sarà più.»

«Ormai non può più esserci riconciliazione con Taim» disse Emarin. «Sappiamo tutti cosa sta facendo.»

Androl non guardò Pevara. Lei aveva spiegato i suoi sospetti su ciò che stava accadendo e, malgrado anni di addestramento per tenere sotto controllo le emozioni, non era stata in grado di mettere a tacere la paura nella sua voce mentre lo diceva. Tredici Myrddraal e tredici persone in grado di incanalare, uniti in rito terrificante, potevano Convertire all’Ombra qualunque incanalatore. Contro la sua volontà. «Quello che fa è male puro, concentrato» disse Pevara. «Non esiste più una divisione tra uomini che seguono un capo e quelli che ne seguono un altro. Questa è opera del Tenebroso, Androl. La Torre Nera è caduta sotto l’influsso dell’Ombra. Devi accettarlo.»

«La Torre Nera è un sogno» disse lui, guardandola negli occhi. «Un rifugio per uomini in grado di incanalare, un posto tutto nostro, dove gli uomini non devono temere, fuggire o essere odiati. Non la lascerò a Taim. Non lo farò.»

Sulla stanza calò il silenzio, tranne per i suoni della pioggia contro le finestre. Emarin iniziò ad annuire e Canler si alzò in piedi, prendendo Androl per il braccio.

«Hai ragione» disse Canler. «Che io sia folgorato se non hai ragione, Androl. Ma cosa possiamo fare? Siamo deboli, in inferiorità numerica.»

«Emarin,» disse Androl «hai mai sentito parlare della Ribellione di Knoks?»

«Ma certo. Causò un bel trambusto, perfino fuori dal Murandy.»

«Dannati Murandiani» esclamò Canler. «Ti rubano la giacca di dosso e ti picchiano se non gli offri anche le scarpe.»

Emarin sollevò un sopracciglio.

«Knoks era molto fuori Lugard, Canler» disse Androl. «Immagino che scopriresti che quella gente non era molto diversa dagli Andorani. La ribellione avvenne... uhm, circa dieci anni fa.»

«Un gruppo di contadini rovesciarono il loro signore» disse Emarin. «Se lo meritava, da ogni punto di vista: Desartin era una persona orribile, in particolare verso i suoi sudditi. Aveva una delle unità di soldati più numerose fuori da Lugard e si comportava come se avesse instaurato un piccolo regno personale. Non c’era nulla che il Re potesse fare al riguardo.»

«E Desartin fu rovesciato?» chiese Canler.

«Da semplici uomini e donne che ne avevano abbastanza della sua brutalità» disse Androl. «Alla fine, molti dei mercenari che erano stati suoi sgherri si schierarono con noi. Anche se era sembrato forte, la sua natura marcia lo portò alla rovina. Qui la situazione sembra disperata, ma molti degli uomini di Taim non gli sono fedeli. Quelli come lui non ispirano lealtà. Radunano leccapiedi, altri che sperano di condividere potere o ricchezza. Noi possiamo trovare e troveremo un modo per rovesciarlo.»

Gli altri annuirono, anche se Pevara si limitò a fissarlo con le labbra increspate. Androl non poté fare a meno di sentirsi un po’ sciocco; non pensava che gli altri dovessero confidare in lui, invece che in qualcuno di dignitoso come Emarin o di potente come Nalaam.

Con la coda dell’occhio, vide le ombre sotto il tavolo allungarsi, protendersi verso di lui. Si fece forza. Non avrebbero osato prenderlo con così tante persone attorno, vero? Se le ombre volevano consumarlo, avrebbero atteso finché non fosse stato solo, a cercare di dormire.

Le notti lo terrorizzavano.

Ora arrivano quando non trattengo saidin, pensò. Che io sia folgorato, la Fonte è stata ripulita! Non dovrei più perdere le mie facoltà mentali!

Strinse forte il piano del suo sgabello finché il terrore non si ritirò e l’oscurità retrocedette. Canler — con aria insolitamente allegra — disse che sarebbe andato a prendere qualcosa da bere per tutti loro. Si diresse verso la cucina, ma nessuno doveva andarsene in giro da solo, quindi esitò.

«Penso che anch’io gradirei qualcosa da bere» disse Pevara con un sospiro, unendosi a lui.

Androl si sedette per continuare il suo lavoro. Mentre lo faceva, Emarin avvicinò uno sgabello, sistemandosi accanto a lui. Lo fece con noncuranza, come se stesse semplicemente cercando un buon posto per rilassarsi e avere una visuale fuori dalla finestra.

Emarin, però, non era tipo da fare qualcosa senza svariate motivazioni. «Hai combattuto nella Ribellione di Knoks» disse Emarin piano.

«Ho detto questo?» Androl riprese a lavorare il cuoio.

«Hai detto che, quando i mercenari cambiarono schieramento, combatterono con voi. Hai usato la parola ‘noi’ per riferirti ai ribelli.»

Androl esitò. Che io sia folgorato. Devo proprio stare attento a cosa dico. Se Emarin l’aveva notato, di sicuro l’aveva fatto anche Pevara.

«Ero solo di passaggio» disse Androl «e rimasi invischiato in qualcosa di imprevisto.»

«Hai un passato strano e variegato, amico mio» disse Emarin. «Più cose apprendo al riguardo, più mi incuriosisco.»

«Non direi di essere l’unico con un passato interessante» disse Androl piano. «Lord Algarin della Casata Pendaloan.»

Emarin trasalì, gli occhi sgranati. «Come l’hai saputo?»

«Fanshir aveva un libro sulle dinastie nobili di Tear» disse Androl, menzionando uno dei soldati Asha’man che era stato uno studioso prima di giungere alla Torre. «Includeva una curiosa annotazione. Una Casata sui cui uomini gravava un problema innominabile; il più recente aveva ricoperto di vergogna la Casata meno di qualche decina di anni fa.»

«Capisco. Be’, suppongo che il fatto che sia un nobile non costituisca una grossa sorpresa.»

«Uno che ha esperienza con le Aes Sedai,» continuò Androl «e che le tratta con rispetto, malgrado o forse proprio come conseguenza di quello che hanno fatto per la sua famiglia. Un nobiluomo tairenese che fa questo, bada. Uno che non disdegna servire sotto quelli che definiresti braccianti e che simpatizza con popolani ribelli. Se posso dirlo, amico mio, questo non è un atteggiamento prevalente fra i tuoi compatrioti. Non esiterei a ipotizzare che tu stesso hai avuto un passato interessante.»

Emarin sorrise. «Concesso. Saresti eccellente nel Gioco delle Casate, Androl.»

«Oh, non direi proprio» disse Androl con una smorfia. «L’ultima volta che ci ho provato, ho quasi...» Si fermò.

«Cosa?»

«Preferirei non dirlo» rispose Androl, arrossendo. Non aveva intenzione di spiegare quel periodo della sua vita. Luce, pensò, la gente penserà che sono un ciarlatano come Nalaam se continuo così.

Emarin si voltò per osservare la pioggia che colpiva la finestra. «La Ribellione di Knoks ebbe successo solo per breve tempo, se ben ricordo. Nel giro di due anni, la dinastia nobile si era reinsediata e i dissidenti furono cacciati o giustiziati.»

«Sì» disse Androl piano.

«Perciò qui vediamo di far meglio» disse Emarin. «Sono con te, Androl. Lo siamo tutti.»

«No» disse Androl. «Siamo tutti con la Torre Nera. Io vi guiderò, se devo, ma qui non si tratta di me, di te o di ciascuno di noi individualmente. Sono al comando solo fino al ritorno di Logain.»

Se mai tornerà, pensò Androl. I passaggi non funzionano più all’interno della Torre Nera. Forse sta cercando di tornare ma si trova chiuso fuori?

«Molto bene» disse Emarin. «Cosa facciamo?»

Il tuono rimbombò all’esterno. «Lasciami pensare» disse Androl, raccogliendo il pezzo di cuoio e gli attrezzi. «Dammi un’ora.»


«Sono spiacente» disse Jesamyn piano, in ginocchio accanto a Talmanes. «Non c’è nulla che possa fare. Questa ferita va ben oltre le mie capacità.»

Talmanes annuì, rimettendo a posto la fasciatura. Tutta la pelle lungo il fianco era diventata nera come per una tremenda ustione da freddo.

La donna della Famiglia lo fissò accigliata. Aveva capelli dorati e un aspetto giovanile, anche se con le incanalatrici l’età poteva essere molto ingannevole. «Mi stupisce che tu riesca ancora a camminare.»

«Non sono certo che si possa definire camminare» disse Talmanes, zoppicando di nuovo verso i soldati. Poteva ancora andarsene in giro da solo zoppicando, perlopiù, ma adesso era colto più di frequente da capogiri.

Guybon stava discutendo con Dennel, che continuava a indicare la sua mappa e a gesticolare. Nell’aria era sospeso tanto di quel fumo che molti degli uomini si erano legati fazzoletti alla faccia. Assomigliavano a una banda di maledetti Aiel.

«...Perfino i Trolloc stanno ripiegando da quel quartiere» insisteva Guybon. «C’è troppo fuoco.»

«I Trolloc stanno ripiegando verso le mura tutt’intorno alla città» replicò Dennel. «Hanno intenzione di lasciare che la città bruci tutta la notte. L’unico settore non in fiamme è quello dove si trova la Porta delle Vie. Hanno abbattuto tutti gli edifici lì per creare una muraglia di fuoco.»

«Hanno usato l’Unico Potere» disse Jesamyn da dietro Talmanes. «L’ho percepito. Sorelle Nere. Suggerisco di non andare in quella direzione.»

Jesamyn era l’unica donna della Famiglia rimasta: l’altra era caduta. Jesamyn non era abbastanza potente da creare un passaggio, ma non era nemmeno inutile. Talmanes l’aveva osservata incendiare sei Trolloc che avevano fatto irruzione attraverso il suo fronte.

Aveva trascorso quella schermaglia standosene in disparte, sopraffatto dal dolore. Per fortuna, Jesamyn gli aveva dato alcune erbe da masticare. Gli facevano sentire la testa più confusa, ma gli permettevano di sopportare il dolore. Sembrava come se il suo corpo fosse in una morsa, schiacciato lentamente, ma almeno poteva stare in piedi.

«Prediamo l’itinerario più rapido» disse Talmanes. «Il quartiere che non sta bruciando è troppo vicino ai Draghi; non voglio rischiare che la Progenie dell’Ombra scopra Aludra e le sue armi.» Sempre che non l’abbiano già fatto, si disse.

Guybon lo guardò torvo, ma questa era un’operazione della Banda. Guybon era il benvenuto, ma non faceva parte della struttura di comando.

L’unità di Talmanes continuava ad attraversare la città buia, in guardia contro le imboscate. Anche se conoscevano l’ubicazione approssimativa del magazzino, arrivarci era problematico. Molte strade ampie erano bloccate da macerie, fuoco o nemici. La sua truppa dovette arrancare per vicoli e stradine così contorti che perfino Guybon e gli altri di Caemlyn avevano difficoltà a seguire la direzione pianificata.

Il loro itinerario costeggiava parti della città che bruciavano con un calore tanto intenso che probabilmente stava fondendo le pietre del selciato. Talmanes fissò quelle fiamme finché non si sentì gli occhi asciutti, poi condusse gli uomini per ulteriori deviazioni.

Pollice dopo pollice, si avvicinavano al magazzino di Aludra. Due volte incontrarono dei Trolloc che si aggiravano furtivi in cerca di profughi da uccidere. Li eliminarono, con i balestrieri rimanenti che abbattevano oltre la metà di ciascun gruppo prima che i Trolloc avessero il tempo di reagire.

Talmanes rimase a guardare, ma non se la sentiva più di combattere. Quella ferita lo aveva indebolito troppo. Luce, perché aveva lasciato indietro il suo cavallo? Una mossa sciocca, quella. Be’, i Trolloc lo avrebbero fatto fuggire comunque.

Sto cominciando a pensare sempre le stesse cose, si disse. Indicò l’imboccatura di un vicolo con la spada. Gli esploratori si precipitarono a ispezionarlo e guardarono in entrambe le direzioni prima di dare il via libera. Riesco a malapena a pensare, rifletté. Ormai non manca molto prima che l’oscurità mi prenda.

Ma prima si sarebbe assicurato che i Draghi fossero protetti. Doveva.

Talmanes uscì barcollando dal vicolo su una strada familiare. Erano vicini. Da un lato della strada, gli edifici bruciavano. Lì le statue parevano povere anime intrappolate tra le fiamme. I fuochi infuriavano attorno a esse e il loro marmo bianco stava per essere sopraffatto lentamente dal nero.

L’altro lato della strada era silenzioso: non c’era nulla che bruciasse lì. Ombre gettate dalle statue danzavano e giocavano, come persone che gozzovigliavano vedendo bruciare i propri nemici. L’aria aveva un odore opprimente di fumo. Quelle ombre — e le statue in fiamme — parevano muoversi, nella mente offuscata di Talmanes. Creature danzanti fatte d’ombra. Meraviglie morenti, consumate da una malattia sulla pelle, che la anneriva, la divorava, uccideva l’anima...

«Siamo vicini ora!» disse Talmanes. Si spinse avanti in una corsa arrancante. Non poteva permettersi di rallentarli. Se quell’incendio raggiunge il magazzino...

Arrivarono a un appezzamento di terreno consumato dalle fiamme; a quanto pareva, lì c’era stato il fuoco e poi se n’era andato. Un tempo lì sorgeva un grande magazzino di legno, ma era crollato. Ora c’erano solo tizzoni fumanti, ammassati con macerie e cadaveri di Trolloc semibruciati.

Gli uomini si radunarono attorno a lui, silenziosi. L’unico suono era quello delle fiamme scoppiettanti. Sudore freddo colò lungo il volto di Talmanes.

«Siamo arrivati troppo tardi» sussurrò Melten. «Li hanno presi, vero? I Draghi avrebbero causato delle esplosioni, se fossero bruciati. La Progenie dell’Ombra è arrivata, ha preso i Draghi e ha raso al suolo questo posto con il fuoco.»

Attorno a Talmanes, membri esausti della Banda si afflosciarono in ginocchio. Mi dispiace, Mat, pensò Talmanes. Abbiamo tentato. Abbiamo...

Un suono improvviso come tuono crepitò attraverso il cielo. Scosse Talmanes fino alle ossa, e l’uomo alzò lo sguardo.

«Luce» disse Guybon. «La Progenie dell’Ombra sta usando i Draghi?»

«Forse no» disse Talmanes. Una scarica di forza lo attraversò e partì nuovamente di corsa. Gli uomini si radunarono attorno a lui.

Ciascun passo gli mandava una scarica di dolore al fianco. Passò per la strada con le statue, fiamme sulla destra, fredda immobilità sulla sinistra.

Boom.

Quelle esplosioni non parevano abbastanza fragorose per essere i Draghi. Osava forse sperare in una Aes Sedai? Jesamyn sembrava aver drizzato le orecchie a quei suoni, e stava correndo accanto agli uomini tenendosi le gonne. Il gruppo si precipitò, svoltando a un angolo a due strade di distanza dal magazzino, e si imbatté nelle retrovie di un drappello ringhiante di Progenie dell’Ombra.

Talmanes lanciò un urlo di una ferocia sconcertante e sollevò la spada a due mani. Il fuoco della ferita si era diffuso per l’intero corpo; gli faceva bruciare perfino le dita. Si sentiva come se fosse diventato una di quelle statue, destinate a bruciare assieme alla città.

Decapitò un Trolloc prima che si accorgesse della sua presenza, poi si gettò contro la creatura successiva sulla sua strada. Quella si ritrasse con una grazia quasi melliflua, voltando verso di lui una faccia senza occhi e un mantello che non si agitava al vento. Labbra pallide si ritirarono in un ringhio.

Talmanes si ritrovò a ridere. Perché no?, si chiese. E gli uomini dicevano che non aveva il senso dell’umorismo. Talmanes si mosse in ‘i fiori di melo nel vento’, menando colpi all’impazzata con una forza e una furia tali da eguagliare il fuoco che lo stava uccidendo.

Era evidente che si trovava in svantaggio contro il Myrddraal. Nella migliore delle ipotesi, Talmanes avrebbe avuto bisogno di aiuto per combatterne uno. Quella cosa si muoveva come un’ombra, passando con fluidità da una forma all’altra, la sua lama terribile che schizzava verso Talmanes. Era evidente che immaginava di doverlo soltanto graffiare.

Il Myrddraal mise a segno un colpo sulla sua guancia, la punta della spada che si agganciava alla pelle e incideva un nastro netto nella carne. Talmanes rise e colpì l’arma con la sua spada, cosa che indusse il Fade a spalancare la bocca dalla sorpresa. Non era così che gli uomini avrebbero dovuto reagire. Avrebbero dovuto barcollare per la vampata ardente di dolore, urlare nel sapere che la loro vita era terminata.

«Sono già stato trapassato da una delle vostre maledette spade, figlio di una capra» urlò Talmanes, attaccando più e più volte. ‘Il fabbro colpisce la lama’. Una forma tanto inelegante. Si adattava perfettamente al suo umore.

Il Myrddraal barcollò. Talmanes si ritrasse con un fluido movimento, portando la spada da un lato e staccando via il braccio bianco pallido della creatura al gomito. L’arto roteò in aria, con la lama del Fade che cadeva dalle dita percorse da spasmi. Talmanes ruotò per lo slancio e calò la spada a due mani, spiccando la testa del Fade dal collo.

Sprizzò sangue scuro e quella cosa cadde, la sua mano rimasta che artigliava il moncherino insanguinato mentre crollava. A Talmanes, in piedi sopra di essa, tutt’a un tratto parve che la sua spada fosse troppo pesante. Gli scivolò dalle dita, sferragliando sulle pietre del selciato. Si inclinò e perse l’equilibrio, cadendo a faccia avanti, ma una mano lo afferrò da dietro.

«Luce!» esclamò Melten, guardando il corpo. «Un altro?»

«Ho scoperto il segreto per sconfiggerli» sussurrò Talmanes. «Devi solo essere già morto.» Ridacchiò fra sé, anche se Melten si limitò a guardarlo con aria perplessa.

Attorno a loro, dozzine di Trolloc crollarono a terra, contorcendosi. Erano stati collegati al Fade. La Banda si radunò attorno a Talmanes, alcuni di loro feriti; altri erano a terra morti. Erano esausti, sfiniti; questo drappello di Trolloc sarebbe potuto essere la loro fine.

Melten recuperò la spada di Talmanes e la ripulì, ma Talmanes scoprì di avere problemi a stare in piedi, perciò la rinfoderò e mandò un uomo a prendere una lancia trolloc a cui potesse appoggiarsi.

«Ehi, in fondo alla strada!» chiamò una voce da lontano. «Chiunque siate, grazie!»

Talmanes avanzò zoppicando. Filger e Mar andarono a esplorare più avanti senza bisogno che fosse loro ordinato. La strada lì era buia e ingombra dei Trolloc che erano caduti solo pochi momenti prima, perciò ci volle qualche momento prima che Talmanes potesse passare sopra i cadaveri e vedere chi li aveva chiamati.

Qualcuno aveva costruito una barricata al termine della via. C’erano delle persone in piedi sopra di essa, inclusa una che teneva in alto una torcia. Aveva i capelli acconciati in trecce e indossava un semplice abito marrone con un grembiule bianco. Era Aludra.

«Soldati di Cauthon» disse Aludra, in tono indifferente. «Sicuramente ve la siete presa comoda a venire.» In una mano teneva un tozzo cilindro di pelle più grosso del pugno di un uomo, con una corta miccia scura attaccata. Talmanes sapeva che quelle cose esplodevano dopo che lei le aveva accese e tirate. La Banda le aveva usate in precedenza, scagliandole con delle frombole. Non erano devastanti quanto i Draghi, ma erano comunque potenti.

«Aludra,» disse a gran voce Talmanes «hai i Draghi? Ti prego, dimmi che li hai salvati.»

Lei sbuffò, facendo cenno ad alcune persone di spostare un lato della barricata per far accedere gli uomini della Banda. Pareva che lì dietro ci fossero diverse centinaia — forse diverse migliaia — di abitanti, che riempivano la strada. Quando gli aprirono quel varco, Talmanes poté vedere uno spettacolo stupendo. Circondati dalla gente, lì c’erano un centinaio di Draghi.

I tubi di bronzo erano stati montati su appositi carretti di legno a formare una sola unità, tirata da due cavalli. Erano davvero piuttosto maneggevoli, tutto sommato. Talmanes sapeva che quei carretti potevano essere ancorati al terreno per sopportare il rinculo, e i Draghi sparavano una volta staccati i cavalli. E lì c’erano persone a sufficienza per fare quel lavoro al posto dei cavalli.

«Pensi che li abbandonerei?» chiese Aludra. «Questa marmaglia, loro non hanno l’addestramento per usarli. Ma possono tirare un carretto come chiunque altro.»

«Dobbiamo portarli fuori» disse Talmanes.

«Ma che rivelazione hai avuto» replicò Aludra. «Come se io non stessi cercando di fare proprio quello. La tua faccia, cos’ha che non va?»

«Una volta ho mangiato un formaggio piuttosto piccante e non l’ho mai digerito del tutto.»

Aludra lo guardò inclinando la testa. Forse se ridessi di più quando faccio delle battute, pensò lui oziosamente, appoggiato contro il lato della barricata, magari capirebbero cosa intendo. Naturalmente quello sollevava una domanda: voleva che la gente capisse? Spesso era più divertente il contrario. Inoltre sorridere era così vistoso. Dov’era la sottigliezza? E...

E aveva davvero problemi a concentrarsi. Sbatté le palpebre verso Aludra, il cui volto era diventato preoccupato alla luce della torcia.

«Cos’ha la mia faccia?» Talmanes si portò una mano alla guancia. Sangue. Il Myrddraal. Giusto. «Solo un taglio.»

«E le vene?»

«Vene?» chiese lui, poi notò la mano. Viticci neri, come edera che cresceva sotto la pelle, erano serpeggiati lungo il suo polso fino al dorso della mano, verso le dita. Parevano diventare più scuri mentre li osservava. «Oh, quello. Sto morendo, purtroppo. Una tragedia terribile. Non è che avresti un po’ d’acquavite, vero?»

«Io...»

«Mio signore!» chiamò una voce.

Talmanes sbatté le palpebre, poi si costrinse a voltarsi, appoggiandosi alla lancia. «Sì, Filger?»

«Altri Trolloc, mio signore. Parecchi! Stanno arrivando dietro di noi.»

«Stupendo. Preparate la tavola. Spero che abbiamo abbastanza posate. Sapevo che avremmo dovuto mandare la cameriera a prendere quel completo per cinquemilasettecentotrentuno persone.»

«Ti... ti senti bene?» chiese Aludra.

«Sangue e maledette ceneri, donna, ho forse l’aria di sentirmi bene? Guybon! La ritirata è bloccata. Quanto siamo lontani dai cancelli orientali?»

«Cancelli orientali?» disse a gran voce Guybon. «Forse mezz’ora di marcia. Dobbiamo scendere più giù per la collina.»

«Avanti, allora» disse Talmanes. «Prendi gli esploratori e perlustra la strada. Dennel, accertati che quegli abitanti siano organizzati per trainare i Draghi! State pronti a caricare le armi.»

«Talmanes,» disse Aludra, intervenendo. «Uova di Drago e polvere, ce ne rimane poco. Ci serviranno le provviste di Baerlon. Oggi, se prepari i Draghi... Pochi colpi per ciascuno, questo è tutto ciò che posso darti.»

Dennel annuì. «I Draghi non sono fatti per tenere la prima linea da soli, mio signore. Hanno bisogno di supporto per impedire che il nemico arrivi troppo vicino e li distrugga. Possiamo azionare quei Draghi, ma non dureremo molto senza fanteria.»

«Ecco perché stiamo fuggendo» disse Talmanes. Si voltò, fece un passo e avvertì la testa girargli a tal punto che per poco non cadde. «E credo... credo che mi servirà un cavallo...»


Moghedien salì su una piattaforma di pietra che galleggiava nel mezzo di un mare aperto. Azzurra e vitrea, l’acqua si increspava nell’occasionale brezza, ma non c’erano onde. Né c’era terra in vista.

Moridin si trovava in piedi sul lato della piattaforma, le mani serrate dietro la schiena. Di fronte a lui, il mare bruciava. Il fuoco non emetteva fumo, ma era caldo e l’acqua vicino a esso bolliva e sibilava. Un piano di pietra nel mezzo di un mare sconfinato. Acqua che bruciava. A Moridin era sempre piaciuto creare impossibilità all’interno dei suoi frammenti di sogno.

«Siediti» le disse Moridin, senza voltarsi.

Lei obbedì, scegliendo una delle quattro sedie comparse all’improvviso vicino al centro della piattaforma. Il cielo era di un azzurro intenso, senza nuvole, e il sole era sospeso a circa tre quarti del suo percorso verso lo zenit. Quanto tempo era passato da quando Moghedien aveva visto il sole dentro Tel’aran’rhiod? Di recente, quell’onnipresente tempesta nera aveva ammantato il cielo. Ma d’altra parte questo non era completamente Tel’aran’rhiod. Né era il sogno di Moridin, ma una... fusione dei due. Come un riparo temporaneo costruito da un lato del Mondo dei Sogni. Una bolla di realtà compenetrate.

Moghedien indossava un abito nero e oro, con merletto sulle spalle che ricordava vagamente una ragnatela. Solo vagamente. Non era il caso di abusare di un tema ricorrente.

Mentre si sedette, tentò di far trasparire fiducia e autocontrollo. Un tempo, entrambe le cose le erano risultate facili. Oggi, cercare di catturare una delle due era come provare a prendere dei soffioni dall’aria, solo per ritrovarseli a danzare lontano dalla mano. Moghedien digrignò i denti, arrabbiata con sé stessa. Era una dei Prescelti. Aveva fatto piangere Re, tremare eserciti. Il suo nome era stato usato da generazioni di madri per spaventare i loro bambini. E ora...

Si tastò il collo e vi trovò il pendente. Era ancora al sicuro. Sapeva che lo era, ma toccarlo le dava calma.

«Non rilassarti troppo con quello addosso» disse Moridin. Fu colpito da una folata di vento, che increspò l’immacolata superficie dell’oceano. Su quel vento, lei udì flebili urla. «Non sei stata perdonata del tutto, Moghedien. Questo è un periodo di prova. Forse, la prossima volta che fallirai, darò la trappola mentale a Demandred.»

Lei sbuffò. «La getterebbe da una parte dalla noia. Demandred vuole solo una cosa. Al’Thor. Chiunque non lo guidi verso il suo obiettivo non ha alcuna importanza per lui.»

«Lo sottovaluti» disse Moridin piano. «Il Sommo Signore è soddisfatto di Demandred. Molto soddisfatto. Tu, invece...»

Moghedien affondò nella sua sedia, sentendo nuovamente le sue torture. Un dolore come pochi in questo mondo avevano mai conosciuto. Un dolore superiore a quello che un corpo sarebbe dovuto riuscire a sopportare. Strinse il cour’souvra e abbracciò saidar. Ciò le diede un po’ di sollievo.

Prima, incanalare nella stessa stanza del cour’souvra era stato straziante. Adesso che era lei e non Moridin a indossare il pendente, non era così. Non solo un pendente, pensò, tenendolo stretto. La mia stessa anima. Per l’Oscurità! Non aveva mai pensato che proprio lei si sarebbe trovata soggetta a uno di quelli. Non era forse come il ragno, accorta in ogni cosa che faceva?

Sollevò l’altra mano, serrandola sopra quella che reggeva il pendente. E se fosse caduto? E se qualcuno l’avesse preso? Lei non l’avrebbe perso. Non avrebbe potuto perderlo.

È questo che sono diventata?, si chiese. Provò nausea. Devo riprendermi. In qualche modo. Si costrinse a lasciar andare la trappola mentale.

L’Ultima Battaglia era alle porte; i Trolloc si riversavano già nelle terre meridionali. Era una nuova Guerra dell’Ombra, ma solo lei e gli altri Prescelti conoscevano i segreti più profondi dell’Unico Potere. Quelli che lei non era stata costretta a rivelare a quelle donne orribili...

No, non pensarci. Il dolore, la sofferenza, il fallimento.

In questa guerra non c’erano Cento Compagni ad affrontarli, niente Aes Sedai con secoli di capacità e pratica alle spalle. Moghedien avrebbe dato prova di sé e gli errori passati sarebbero stati dimenticati.

Moridin continuava a fissare quelle fiamme impossibili. Gli unici suoni erano quelli del fuoco e dell’acqua che gli bolliva vicino. Prima o poi le avrebbe spiegato a che scopo l’aveva convocata, vero? Di recente si era comportato in modo sempre più strano. Forse la sua follia stava tornando. Una volta, l’uomo di nome Moridin — o Ishamael, o Elan Morin Tedronai — avrebbe provato piacere nel tenere in mano un cour’souvra per uno dei suoi rivali. Avrebbe inventato punizioni, si sarebbe eccitato per il suo tormento.

C’era stato qualcosa di tutto ciò all’inizio; poi... aveva perso interesse. Passava sempre più tempo da solo, fissando le fiamme, meditabondo. Le punizioni che aveva inflitto a lei e a Cyndane erano sembrate quasi una prassi.

Moghedien lo trovava più pericoloso così.

Un passaggio divise l’aria appena a lato della piattaforma. «Abbiamo davvero bisogno di fare questo un giorno sì e uno no, Moridin?» chiese Demandred, attraversandolo ed entrando nel Mondo dei Sogni. Alto e avvenente, aveva capelli corvini e un naso pronunciato. Lanciò un’occhiata a Moghedien, notando la trappola mentale che aveva al collo prima di continuare. «Ho cose importanti da fare, e tu le interrompi.»

«Ci sono persone che devi incontrare, Demandred» disse Moridin piano. «A meno che il Sommo Signore non ti abbia nominato Nae’blis senza avermi informato, tu farai come ti viene detto. I tuoi trastulli possono aspettare.»

L’espressione di Demandred si rabbuiò, ma non obiettò ulteriormente. Lasciò richiudere il passaggio, poi si spostò da un lato, guardando giù nel mare. Si accigliò. Cosa c’era nell’acqua? Moghedien non aveva guardato. Si sentiva sciocca per non averlo fatto. Cos’era successo alla sua cautela?

Demandred si diresse a una delle sedie accanto a lei, ma non si sedette. Rimase in piedi, contemplando Moridin da dietro. Cosa stava facendo Demandred? Durante il periodo in cui era stata vincolata alla trappola mentale, lei aveva fatto quello che Moridin voleva, ma non aveva mai trovato una risposta per Demandred.

Rabbrividì di nuovo, pensando a quei mesi sotto il controllo di Moridin. Avrò la mia vendetta.

«Hai lasciato libera Moghedien» disse Demandred. «E quella... Cyndane?»

«Lei non ti riguarda» disse Moridin.

A Moghedien non era sfuggito che Moridin indossava ancora la trappola mentale di Cyndane. Cyndane. Voleva dire ‘ultima possibilità’ nella Lingua Antica, ma la vera natura di quella donna era un segreto che Moghedien aveva scoperto. Moridin in persona aveva salvato Lanfear da Sindhol, liberandola dalle creature che si nutrivano della sua capacità di incanalare.

Per salvarla, e naturalmente per punirla, Moridin l’aveva uccisa. Ciò aveva permesso al Sommo Signore di ricatturare la sua anima e metterla in un nuovo corpo. Brutale, ma molto efficace. Precisamente il tipo di soluzione che il Sommo Signore preferiva.

Moridin era concentrato sulle sue fiamme, e Demandred su di lui, così Moghedien utilizzò quell’opportunità per scivolare via dalla sedia e andare fino al bordo della piattaforma di pietra galleggiante. L’acqua lì sotto era completamente limpida. Attraverso di essa poteva vedere molto chiaramente delle persone. Galleggiavano con le gambe incatenate a qualcosa molto in profondità, le braccia legate dietro di loro. Ondeggiavano come alghe.

Ce n’erano a migliaia. Ciascuno di loro aveva lo sguardo rivolto al cielo con occhi sgranati e colmi di terrore. Erano bloccati in un perpetuo stato di affogamento. Non erano morti — la morte non gli era concessa — ma boccheggiavano costantemente in cerca d’aria e trovavano solo acqua. Mentre osservava, qualcosa di scuro si protese dal basso e ne tirò uno giù negli abissi. Si levò sangue come un fiore che sbocciava; questo indusse gli altri a dibattersi con maggior insistenza.

Moghedien sorrise. Le faceva bene vedere soffrire qualcuno che non fosse lei. Forse si trattava di semplici prodotti di fantasia, ma era possibile che fossero persone che avevano deluso il Sommo Signore.

Si aprì un altro passaggio sul lato della piattaforma e una donna sconosciuta lo attraversò. Quella creatura aveva fattezze decisamente sgradevoli, con un naso adunco e bitorzoluto e strabici occhi pallidi. Indossava un abito che cercava di essere elegante, di seta gialla, ma non faceva altro che sottolineare la bruttezza della donna.

Moghedien sogghignò e tornò alla sua sedia. Perché Moridin ammetteva una sconosciuta a uno dei loro incontri? Questa donna poteva incanalare; doveva trattarsi di una di quelle inutili donne che si facevano chiamare Aes Sedai in quest’Epoca.

È davvero potente, pensò Moghedien sedendosi, le va riconosciuto. Come le era potuta sfuggire una donna con un talento del genere tra le Aes Sedai? Le sue fonti avevano notato quella abietta sgualdrina di Nynaeve quasi immediatamente, eppure si erano lasciate sfuggire questa megera?

«E questa la persona che vuoi che incontriamo?» chiese Demandred, le sue labbra che si incurvavano verso il basso.

«No» disse Moridin distrattamente. «Avete già incontrato Hessalam.»

Hessalam? Voleva dire... ‘senza perdono’ nella Lingua Antica. La donna incontrò gli occhi di Moghedien con orgoglio, e c’era qualcosa di familiare nella sua posa.

«Ho faccende da sbrigare, Moridin» disse la nuova arrivata. «Sarà meglio che...»

Moghedien annaspò. Il tono in quella voce...

«Non assumere quel tono con me» la interruppe Moridin, parlando piano senza voltarsi. «Non assumerlo con nessuno di noi. Al momento, perfino Moghedien gode di più favore di te.»

«Graendal?» chiese Moghedien, atterrita.

«Non usare quel nome!» disse Moridin, ruotando verso di lei, l’acqua ardente che guizzava verso l’alto. «Le è stato tolto.»

Graendal — Hessalam — si sedette senza guardare di nuovo Moghedien. Sì, l’atteggiamento della donna era quello giusto. Era lei.

Moghedien quasi ridacchiò per l’allegria. Graendal aveva sempre usato il suo aspetto come un randello. Bene, ora era un randello di tipo diverso. Davvero perfetto! Di sicuro quella donna si stava contorcendo dentro. Cosa aveva fatto per meritare una posizione del genere? La levatura di Graendal — la sua autorità, le leggende narrate su di lei — era collegata alla sua bellezza. E adesso? Avrebbe dovuto cominciare a cercare le persone più orrende al mondo come suoi preferiti, le uniche che potevano competere con la sua bruttezza?

Stavolta Moghedien rise davvero. Una risata sommessa, ma Graendal la udì. La donna le scoccò un’occhiataccia che da sola sarebbe bastata a incendiare un pezzo dell’oceano.

Moghedien rispose con uno sguardo calmo, ora che si sentiva più fiduciosa. Resistette all’impulso di accarezzare il cour’souvra. Fa’ pure del tuo peggio, Graendal, pensò. Siamo sullo stesso piano ora. Vedremo chi vincerà questa competizione.

Soffiò un vento più forte e delle increspature iniziarono a sollevarsi attorno a loro, anche se la piattaforma rimase salda. Moridin lasciò che il fuoco si estinguesse e, nelle vicinanze, le onde si sollevarono. Moghedien poteva distinguere dei corpi, poco più che ombre scure, dentro quelle onde. Alcuni erano morti. Altri si dibattevano per raggiungere la superficie, le loro catene rimosse, ma non appena si avvicinavano all’aria, c’era sempre qualcosa a trascinarli di nuovo giù.

«Siamo in pochi, ora» disse Moridin. «Noi quattro e colei che viene punita più di tutti siamo tutto ciò che resta. Per definizione, questo ci rende i più forti.»

Alcuni di noi lo sono, pensò Moghedien. Uno di noi è stato ucciso da al’Thor, Moridin, ed è stata necessaria la mano del Sommo Signore per farlo tornare. Perché Moridin non era mai stato punito per il suo fallimento? Be’, era meglio non soffermarsi a cercare giustizia nella mano del Sommo Signore.

«Tuttavia, siamo troppo pochi.» Moridin agitò una mano e una porta di pietra comparve sul lato della piattaforma. Non un passaggio, solo una porta. Questo era il frammento di sogno di Moridin; lui poteva controllarlo. La porta si aprì e un uomo la attraversò, giungendo sulla piattaforma.

L’uomo aveva capelli scuri e le fattezze di un saldaeano: un naso lievemente adunco e occhi a mandorla. Era bello e alto, e Moghedien lo riconobbe. «Il capo di quegli Aes Sedai maschi alle prime armi? Conosco quest’uomo, Mazri...»

«Quel nome è stato abbandonato» disse Moridin. «Proprio come ciascuno di noi, nell’essere Prescelti, abbiamo abbandonato ciò che eravamo e i nomi con cui gli uomini ci chiamavano. Da questo momento in avanti, quest’uomo sarà conosciuto solo come M’Hael. Uno dei Prescelti.»

«Prescelto?» Hessalam parve strozzarsi con quella parola. «Questo bambino? Lui...» Si interruppe.

Non stava a loro dibattere se uno fosse Prescelto. Potevano discutere tra loro, complottare perfino, se lo facevano con attenzione. Ma mettere in discussione il Sommo Signore... quello non era permesso. Mai.

Hessalam non disse altro. Moridin non avrebbe osato chiamare quest’uomo Prescelto se il Sommo Signore non l’avesse deciso. Non c’era nulla da discutere. Tuttavia, Moghedien rabbrividì. Si diceva che Taim... M’hael... fosse potente, forse quanto il resto di loro, ma elevare uno di quest’Epoca, con tutta la loro ignoranza... La urtava pensare che questo M’Hael sarebbe stato considerato un suo pari.

«Vedo la sfida nei vostri occhi,» disse Moridin, guardandoli tutti e tre «anche se solo una è stata tanto sciocca da esprimerla a voce. M’Hael ha guadagnato la sua ricompensa. Troppi di noi si sono scagliati in competizioni con al’Thor quando si presumeva che fosse debole. M’Hael invece si è guadagnato la fiducia di Lews Therin, poi ha assunto il comando dell’addestramento) delle sue armi. Lui ha allevato una nuova generazione di Signori del Terrore per la causa dell’Ombra. Che risultati avete da mostrare del vostro lavoro da quando siete stati liberati?»

«Conoscerai i frutti che ho raccolto, Moridin» disse Demandred a bassa voce. «Li conoscerai in canestri e mandrie. Ricorda soltanto il mio requisito: affronterò al’Thor sul campo di battaglia. Il suo sangue è mio e di nessun altro.» Incontrò gli occhi di ciascuno di loro a turno, e infine quelli di M’Hael. Pareva esserci familiarità tra loro. Dovevano essersi già incontrati.

Non sarà facile vedertela con quello, Demandred, pensò Moghedien. Vuole al’Thor quanto te.

Demandred era cambiato di recente. Un tempo non gli sarebbe importato chi avrebbe ucciso Lews Therin, sempre che quell’uomo fosse morto. Cosa lo faceva insistere per compiere quell’atto di persona?

«Moghedien» disse Moridin. «Demandred ha dei piani per la guerra imminente. Tu dovrai assisterlo.»

«Assisterlo?» disse lei. «Io...»

«Te ne sei dimenticata così in fretta, Moghedien?» La voce di Moridin era vellutata. «Farai ciò che ti viene detto. Demandred vuole che tu sovrintenda a uno degli eserciti che adesso è privo di adeguata supervisione. Pronuncia un’unica parola di lamentele e ti renderai conto che il dolore che hai conosciuto fino a questo momento non è che l’ombra del vero tormento.»

La sua mano andò al cour’souvra che aveva al collo. Guardando negli occhi di Moridin, Moghedien percepì la propria autorità evaporare. Ti odio, pensò. Ti odio ancora di più per avermi fatto questo di fronte agli altri.

«Gli ultimi giorni sono alle porte» disse Moridin, voltando loro le spalle. «In queste ore, guadagnerete le vostre ricompense finali. Se avete dei rancori, lasciateveli alle spalle. Se avete dei complotti, portateli a compimento. Fate le vostre ultime mosse, poiché questa... questa è la fine.»


Talmanes giaceva supino, lo sguardo fisso verso il cielo buio. Le nuvole parevano riflettere la luce dal basso, la luce di una città morente. Era sbagliato. La luce proveniva da sopra, giusto?

Era caduto da cavallo poco dopo che si erano avviati verso i cancelli cittadini. Riusciva a ricordarselo, buona parte del tempo. Il dolore rendeva difficile pensare. C’erano persone che sbraitavano l’una contro l’altra.

Avrei dovuto... avrei dovuto prendere in giro Mat di più, pensò, un accenno di sorriso a socchiudergli le labbra. Un momento stupido per pensare a cose del genere. Devo... devo trovare i Draghi. O li abbiamo già trovati...?

«Te lo dico io, quelle dannate cose non funzionano così!» La voce di Dennel. «Non sono dannate Aes Sedai su ruote. Non possiamo creare un muro di Fuoco. Possiamo scagliare queste palle di metallo a tutta velocità in mezzo ai Trolloc.»

«Esplodono.» La voce di Guybon. «Potremmo usare quelle in più come ho detto.»

Gli occhi di Talmanes si chiusero tremolando.

«Le palle esplodono, sì» disse Dennel. «Ma prima dobbiamo lanciarle. Metterle tutte in fila e lasciare che i Trolloc ci corrano sopra non servirà a molto.»

Una mano scosse la spalla di Talmanes. «Lord Talmanes» disse Melten. «Non c’è disonore nel lasciare che finisca ora. So che il dolore è grande. Che l’ultimo abbraccio della Madre ti protegga.»

Una spada sfoderata. Talmanes si fece forza.

Poi scoprì che non voleva morire, non lo voleva proprio.

Si costrinse ad aprire gli occhi e sollevò una mano verso Melten, in piedi sopra di lui. Jesamyn aleggiava lì vicino con le braccia conserte e l’aria preoccupata.

«Aiutami ad alzarmi» disse Talmanes.

Melten esitò, poi lo fece.

«Non dovresti stare in piedi» disse Jesamyn.

«Meglio che essere decapitato onorevolmente» borbottò Talmanes, stringendo i denti contro il dolore. Luce, quella era la sua mano? Era così scura che pareva essere stata carbonizzata in un incendio. «Cosa... cosa sta succedendo?»

«Siamo stretti all’angolo, mio signore» disse Melten in tono cupo e con sguardo solenne. Pensava che ormai fossero praticamente morti. «Dennel e Guybon stanno discutendo sul posizionamento dei Draghi per un ultimo scontro. Aludra sta misurando le cariche.»

Talmanes, finalmente in piedi, si afflosciò contro Melten. Davanti a lui, duemila persone erano ammassate nella vasta piazza cittadina. Erano rannicchiati l’uno contro l’altro, come uomini che cercassero vicendevolmente il calore in una notte fredda nella foresta. Dennel e Guybon avevano disposto i Draghi in un semicerchio rivolto verso l’esterno, verso il centro della città, con i profughi dietro. La Banda adesso era impegnata con i Draghi; servivano tre paia di mani per azionare ogni arma. Quasi tutti i membri della Banda avevano almeno un minimo addestramento.

Gli edifici nelle vicinanze avevano preso fuoco, ma la luce stava facendo strane cose. Perché non raggiungeva le strade? Erano troppo buie. Come se fossero state dipinte. Come...

Sbatté le palpebre, scacciando lacrime di dolore dagli occhi, una comprensione che gli spuntava in mente. Le strade si riempirono di Trolloc come inchiostro che scorreva verso il semicerchio di Draghi puntati verso di loro.

Qualcosa li trattenne per il momento. Stanno aspettando di essere tutti assieme per un assalto, pensò Talmanes.

Richiami e ringhi provennero da dietro. Talmanes ruotò, poi strinse forte il braccio di Melten quando il mondo sussultò. Attese che tornasse fermo. Il dolore... il dolore si stava davvero attenuando. Come fiamme lucenti che esaurivano carbone fresco. Aveva banchettato con lui, ma non gli rimaneva più molto da consumare.

Mentre le cose intorno a lui si stabilizzavano, Talmanes vide ciò che stava generando quei ringhi. La piazza in cui si trovavano era adiacente alle mura cittadine, ma gli abitanti e i soldati si erano tenuti a distanza, poiché erano ricoperte di Trolloc come un denso sudiciume. Quelli sollevarono le armi in aria e ruggirono rivolti alle persone.

«Scagliano lance a chiunque si avvicini troppo» disse Melten. «Speravamo di raggiungere le mura, seguirle fino al cancello, ma non possiamo... non con quelle cose lassù che ci fanno piovere addosso morte. Tutte le altre strade sono bloccate.»

Aludra si avvicinò a Guybon e Dennel. «Cariche, le posso mettere sotto i Draghi» disse loro; piano, ma non piano quanto avrebbe dovuto. «Queste cariche distruggeranno le armi. Possono ferire le persone in modo spiacevole.»

«Fallo» disse Guybon molto piano. «Quello che farebbero i Trolloc è peggio, e non possiamo permettere che i Draghi cadano nelle mani dell’Ombra. È quello il motivo per cui stanno aspettando. I loro capi sperano che un attacco improvviso darà loro il tempo di sopraffarci e impadronirsi delle armi.»

«Si stanno muovendo!» gridò un soldato che stava accanto ai Draghi. «Luce, stanno arrivando!»

Quella melma scura di Progenie dell’Ombra ribollì giù per le strade. Denti, unghie, artigli, occhi troppo umani. I Trolloc arrivarono da ogni lato, bramosi di uccidere. Talmanes si sforzò di prendere fiato.

Sulle mura, le urla si fecero eccitate. Siamo circondati, pensò Talmanes. Con le spalle al muro, intrappolati in una rete. Siamo...

Con le spalle al muro.

«Dennel!» urlò Talmanes sopra il trambusto. Il capitano dei Draghi si voltò dalla sua linea, dove gli uomini attendevano con esche accese l’ordine di lanciare l’unica salva che avrebbero avuto.

Talmanes trasse un profondo respiro che gli fece ardere i polmoni. «Mi hai detto di poter radere al suolo un bastione nemico in pochi colpi.»

«Certamente» gridò Dennel. «Ma non stiamo cercando di entrare...» La sua voce si spense.

Luce, pensò Talmanes. Siamo tutti così esausti. Avremmo dovuto capirlo. «Voi nel mezzo, squadra dei Draghi di Ryden, dietrofront!» urlò Talmanes. «Voialtri restate in posizione e sparate ai Trolloc in avvicinamento! Muoversi, muoversi, muoversi!»

I dragonieri si misero subito in moto, con Ryden e i suoi uomini che si affrettavano a voltare le loro armi tra un cigolio di ruote. Gli altri Draghi iniziarono a sparare un ventaglio di colpi che si sparsero per tutte le strade che entravano nella piazza. I boati furono assordanti, tanto che i profughi strillarono e si coprirono le orecchie. Parve la fine del mondo. Centinaia, migliaia di Trolloc crollarono in pozze di sangue mentre le uova di Drago esplodevano in mezzo a loro. La piazza si riempì di fumo fuoriuscito dalle bocche dei Draghi.

I profughi lì dietro, già terrorizzati da quello a cui avevano appena assistito, strillarono quando i Draghi di Ryden si voltarono verso di loro, e molti si gettarono a terra dalla paura, liberando una traiettoria. Una traiettoria che aveva come bersaglio le mura cittadine infestate dai Trolloc. La fila di Draghi di Ryden si piegò all’interno come un calice, una formazione inversa rispetto a quelli che sparavano ai Trolloc dietro, in modo che i tubi fossero indirizzati verso lo stesso tratto di mura.

«Datemi una di quelle dannate esche!» urlò Talmanes, protendendo una mano. Uno dei dragonieri obbedì, passandogli un ferro per marcatura con la punta rosso luccicante. Si spinse via da Melten, deciso a stare in piedi da solo per il momento.

Guybon si avvicinò. La voce dell’uomo suonò sommessa alle orecchie provate di Talmanes. «Quelle mura esistono da secoli. La mia città. La mia povera città.»

«Non è più la tua città» disse Talmanes, sollevando in alto il ferro rovente, con aria di sfida davanti a mura zeppe di Trolloc e una città in fiamme alle sue spalle. «È la loro.»

Talmanes calò il ferro nell’aria, lasciando una scia di rosso. Il suo segnale accese un ruggito di fuoco di Draghi che riecheggiò per la piazza.

I Trolloc — i loro pezzi, perlomeno — saltarono in aria. Le mura sotto di loro esplosero come una pila di mattoncini per bambini scalciati correndo a tutta velocità. Mentre Talmanes barcollava e la sua vista si oscurava, vide le mura sgretolarsi verso l’esterno. Quando crollò, scivolando nell’incoscienza, il terreno parve tremare dalla forza della sua caduta.

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