La seconda notte di terrore era calata su Megateopoli, conferendo all’oscurità e al silenzio del coprifuoco un’aura di spaventosa minaccia. Quel giorno erano state rivolte al Grande Dio speciali preghiere, sia nella Cattedrale sia nelle cappelle, affinché proteggesse la città contro le forze del male. Ovunque si bisbigliavano storie di strani fantasmi che, nel corso della notte, avevano osato sfidare perfino i preti. Ai confessionali si erano presentati più cittadini desiderosi di fare ammenda per i propri peccati, di quanti i sacerdoti fossero in grado di ascoltare. E prima di venire dispersa, una folla impazzita aveva massacrato due vecchie donne che avevano la nomea di streghe. Ogni uomo guardava il proprio vicino con sospetto, domandandosi in cuor proprio se fosse in combutta con Satanas. Un’ora prima del coprifuoco le strade erano già deserte.
Costeggiando i tetti bassi delle case, l’Uomo Nero sorvolò il labirintico intrico delle vie di Megateopoli; godeva in cuor suo dell’atmosfera di terrore e di angosciosa attesa che vi regnava, come un attore si rallegra del successo dell’opera teatrale in cui recita. Sopra la Cattedrale, l’aureola del Grande Dio risplendeva con maggiore intensità del solito e l’intero Santuario era uno sfolgorio di luci. Alcune strade più oltre, il riflettore di una pattuglia di diaconi danzava nervosamente nell’oscurità. Tutt’intorno era la tenebra.
Come un nuotatore al buio, l’Uomo Nero si spingeva avanti variando la direzione e l’intensità dei pennelli di forza provenienti dai suoi avambracci. Alla modesta altezza alla quale si trovava, il campo di repulsione generato dal suo abito, che gli aderiva come una guaina a tutto il corpo, era sufficiente a contrastare la forza di gravità. Inoltre il campo aveva anche la proprietà (esclusi i punti corrispondenti agli organi sensori) di assorbire tutta l’energia radiante che lo colpiva; e, a sua volta, l’energia radiante contribuiva ad alimentare il campo stesso.
Tecnicamente parlando, lui in quel momento era fuori servizio. Un’ora prima un altro operatore gli aveva finalmente dato il cambio al telesolidografo (adesso che avevano attivato due proiettori anziché uno solo vi era una certa penuria di personale) e lui aveva avuto la conferma che la parte del piano della quale era stato messo a conoscenza procedeva in modo soddisfacente. Ma nonostante ciò, come un attore a cui il copione imponga di restare fuori scena per un certo tempo, non aveva resistito alla tentazione di scendere in platea e verificare di persona l’andamento dello spettacolo.
Aveva anche una buona scusa per farlo. Madre Jujy aveva mandato a dire che proprio quella notte Armon Jarles aveva intenzione di ritentare l’approccio con la Nuova Stregoneria. Nel frattempo, lei si sarebbe ritirata nelle sue gallerie sotterranee, fino a quando, aveva detto, “la plebaglia” si fosse calmata un po’.
Naturalmente, avrebbe potuto mandare qualcun altro a prelevare Armon Jarles. Ma trattandosi di un soggetto tanto cocciuto, forse era meglio che fosse lui a occuparsene. E la cosa di gran lunga più elettrizzante era che il luogo dell’appuntamento si trovava ai margini della Grande Piazza, nel punto in cui Armon Jarles era stato espulso dalla Stregoneria.
Nel frattempo, lui lo seguiva come un ombra, volando silenziosamente sopra la sua testa, per accertarsi che non gli capitasse qualche guaio. Vestito come un infimo popolano, Armon Jarles percorreva con passo furtivo le stradine più strette, cercando riparo dove l’ombra era più fitta e badando di evitare l’imboccatura delle fogne; di tanto in tanto si fermava per controllare che non sopraggiungesse qualche pattuglia, spesso si voltava a guardarsi le spalle, ma non dava cenno di accorgersi del suo demone custode.
Stavano per raggiungere la Grande Piazza. L’Uomo Nero fu tentato di porre fine a quell’inutile pellegrinaggio, ma lo trattenne la sua passione per il brivido. In ogni caso, il divertimento sarebbe durato ancora per poco.
L’appropinquarsi balzellante di due aureole viola annunciò la presenza di due sacerdoti impegnati in qualche missione notturna. Jarles esitò, poi si rifugiò nella stretta viuzza che separava due agglomerati di case. L’Uomo Nero si abbassò senza far rumore al limite del tetto, pronto a intervenire in caso di bisogno.
Ma i due sacerdoti proseguirono frettolosamente per la loro strada. Nel momento in cui oltrepassarono il vicolo, l’Uomo Nero trasalì di piacere. Nel prete più piccolo e paffuto aveva riconosciuto l’omino che era riuscito a spaventare a morte dapprima davanti alla casa stregata, usando il Velo Nero, e poi, dentro l’abitazione, animando perversamente il divano. Poteva dire di provare quasi un sentimento d’affetto per Fratello Chulian. E sarebbe stato un vero peccato lasciarsi sfuggire quell’occasione. Naurya gli aveva raccontato come il sacerdote fosse rimasto terrorizzato da Micia, il suo demone. Gli sarebbe bastato un attimo per disattivare il campo di repulsione, mettere Dickon a cavallo dell’estremità del suo pennello di forza, e farlo spenzolare davanti al viso di Fratello Chulian. Anche Dickon si sarebbe divertito un mondo.
Non aveva finito di formulare quel pensiero, che era già passato ai fatti. La sagoma minuscola dell’antropoide si inclinò nell’oscurità in direzione delle due aureole saltellanti. L’Uomo Nero gioì della propria infinita malizia.
Poi… una raffica di vento sinistra nel buio sopra la sua testa e il vuoto dello sconcerto alla bocca dello stomaco prima ancora di rendersi conto del perché.
Un acuto dolore al collo, mentre, dalla posizione in cui si trovava, accucciato sul bordo del tetto, si girava a guardare dietro e sopra di sé.
Poi… un istante di gelo.
Un istante di gelo per maledire quel burlone disgraziato che era, capace di cadere in qualunque trappola avesse per esca l’opportunità di giocare qualche tiro mancino; per pensare con penetrante intensità alla fine rapida e triste che avrebbe fatto la Stregoneria se tutti i suoi membri fossero stati degli idioti incoscienti e noncuranti come lui.
Un istante di gelo per riconoscere la cosa che stava sfrecciando verso di lui. Il suo corpo rigido e antropomorfo, ma alto il doppio di quello di un uomo. Le gambe tese come quelle di un tuffatore. Le braccia allungate minacciosamente in avanti, le dita divaricate come artigli. Una faccia enorme, scultorea, incorniciata da grandi riccioli dorati, bella, di quella bellezza sovrumana e ultraterrena di certi dipinti eroici, rischiarata dalla debole luce che emanavano gli occhi sbarrati e truci, che se avessero voluto avrebbero potuto emettere lampi di morte.
Un angelo.
Poi… un istante di vertiginoso smarrimento.
Un istante di vertiginoso smarrimento per riattivare il campo di repulsione e lanciarsi contemporaneamente verso la strada: l’angelo era troppo vicino per tentare di librarsi sopra i tetti.
Un istante di vertiginoso smarrimento per scartare da un lato all’altro della viuzza, come un falco in agguato sul quale fosse piombata un’aquila affamata; per vedere i due sacerdoti fermarsi, ma non abbastanza per vederli mentre si voltavano a guardare; per vedere Dickon, scagliato dal pennello di forza, cadere come una piuma vicino all’imboccatura di una fogna; per sfrecciare in alto, verso i tetti, con agilità ma, ahimè, con grave ritardo; per indovinare l’angelo che virava verso il cielo insieme a lui e un po’ sopra di lui; per percepirne l’impatto, sconcertante, perché la sua traiettoria era quasi parallela alla sua; per sentire attraverso il campo di repulsione la stretta crudele delle sue braccia meccaniche.
Un istante di vertiginoso smarrimento per pensare, con tutta la forza a cui riusciva a fare appello, a un ordine: — La fogna, Dickon, la fogna! Raggiungi il Santuario! Tieniti in contatto… privi di sensi! Per percepire in qualche recesso della sua mente l’inizio di una flebile risposta; per vedere improvvisamente davanti agli occhi il bordo di un tetto che l’angelo non riuscì a evitare.
Poi, con uno schianto assordante, l’ultimo lunghissimo istante di incoscienza e di tenebra.