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Armon Jarles si rannicchiò nel punto in cui l’ombra era più fitta e si sforzò di pensare a un piano. Ma la grave ustione, provocata dal raggio dell’ira che l’aveva colpito alla spalla, gli aveva già fatto salire la febbre e l’assordante musica da ballo e le risate stridule che provenivano dalla casa dietro di lui non facevano altro che suscitare visioni da incubo nella sua mente straziata dal dolore.

Quella era l’unica zona di Megateopoli in cui venissero tollerate violazioni al coprifuoco. Era il distretto consacrato all’assistenza alle Sorelle Perdute. Era un luogo di ombre furtive, fessure di luce, porte che si aprivano e si chiudevano rapidamente, fischi, sussurri, saluti gutturali e un’invisibile allegria, ma con un sottofondo di disperata tristezza. Una ragazza dalla bellezza eterea, che indugiava nel vano illuminato di una porta, l’aveva visto passare. I suoi modi e l’espressione del suo volto dovevano essere quelli di un uomo braccato, perché la ragazza aveva spalancato gli occhi in preda al terrore e si era messa a urlare, riportando di nuovo i suoi inseguitori sulle sue tracce.

Per il momento stavano perlustrando un’altra strada, seguendo una pista sbagliata. Ma sarebbero ritornati. Sì, sarebbero ritornati.

Doveva escogitare un piano.

La febbre gli aveva fatto passare la farne, ma aveva la gola arsa. I sandali malfatti gli tagliavano i piedi gonfi. Non si era reso conto di come i due anni di vita al Santuario l’avessero rammollito.

Ma tutti gli altri dolori non erano niente paragonati a quello provocato dallo sfregamento della stoffa ruvida della tunica che aveva rubato contro la ferita aperta della spalla.

Doveva assolutamente escogitare un piano.

Aveva pensato di lasciare Megateopoli. Ma i campi diligentemente coltivati non erano un granché come nascondiglio, e se poi i contadini si fossero dimostrati ostili nei suoi confronti come i cittadini di Megateopoli…

Doveva…

Ma un improvviso e disperato crescendo della musica evocò nella sua mente l’immagine del viso di sua madre, segnato dal lavoro. Anche in quel momento gli era difficile accettare il fatto che lei lo avesse tradito. Che suo padre e i suoi fratelli avessero fatto altrettanto. La sua casa. L’unico posto in cui era sicuro di poter trovare rifugio. Nemmeno la loro prima reazione, comprensibilmente fredda, ostile e spaventata, alla sua improvvisa comparsa l’aveva messo sull’avviso. Ma poi gli sguardi d’intesa e quella repentina decisione di mandare suo fratello a fare una commissione non meglio specificata lo avevano costretto a guardare in faccia la realtà. Appena in tempo. Era a mala pena riuscito a battere sul tempo i diaconi che suo fratello era andato a chiamare. Era stato allora che l’avevano colpito con il raggio dell’ira. Ed era stato sempre allora che aveva appreso che sulla sua testa pendeva una taglia, una taglia su cui ogni cittadino non vedeva l’ora di mettere le mani.

Aveva dovuto lottare con suo padre e scaraventarlo a terra, quando aveva cercato di trattenerlo.

A un tratto gli parve di vedere il volto di sua madre, indistinto, come se fosse stato velato da correnti di aria calda, che lo guardava furtivamente dall’oscurità. Jarles allungò una mano per cancellarlo.

Forse, si disse, mentre una vocina dentro di lui gli ripeteva che l’universo era impazzito e che il mondo stava girando alla rovescia, forse avrebbe dovuto rallegrarsi del comportamento dei suoi famigliari. Era una prova che nel loro intimo i cittadini comuni nutrivano un odio infinito nei confronti della Gerarchia. Un sacerdote sostenuto dalla Gerarchia era un persona da temere, da adulare, quasi da venerare. Ma un prete espulso dalla Gerarchia costituiva un’opportunità più che unica per dare libero sfogo al proprio astio! Infatti adesso erano i comuni cittadini a dargli la caccia. Erano guidati dai diaconi ma erano pur sempre cittadini.

Due anni prima, appena aveva superato gli esami ed era stato ammesso al sacerdozio, aveva cominciato a darsi da fare per migliorare la moralità e le condizioni di vita dei cittadini; insomma, voleva fare la sua parte per accelerare l’avvento della Nuova Età dell’Oro. In quel modo, pensava, sarebbe stato utile anche alla sua famiglia.

Ma quello stesso giorno la sua famiglia lo aveva guardato con disprezzo, come se per loro non esistesse più, perché aderendo alla Gerarchia lui era diventato qualcosa di più e di meno di un uomo, un prete, un essere disumano.

— Eccolo, è lì!

Con gli occhi abbacinati, cercò scampo dalla luce della torcia. Si lanciò in una corsa disperata, fiondandosi in un vicolo dalla parte opposta della strada, mentre un dolore lancinante gli bruciava i muscoli contratti. Un raggio dell’ira sfrigolò contro un muro lontano.

L’acciottolato. I cinturini dei sandali gli mordevano la carne. La tunica gli raschiava la pelle. Il braccio ferito. Buio. Un rettangolo di luce. Il viso truccato di una donna. Grida.

Correre. Correre. Correre.

Improvviso scoppio di urla alle sue spalle: i suoi inseguitori avevano imboccato il vicolo. Un ago di luce viola sopra la sua testa.

Ma prima che il raggio dell’ira si abbattesse su di lui, Jarles aveva già svoltato nella viuzza successiva, l’aveva attraversata e si era lanciato verso la zona piena di rovine verso la quale, inconsciamente, si era diretto fin dall’inizio.

Macerie. Grovigli di erbacce. Procedere a tentoni. Grandi blocchi di pietra e di plastica rotta. Muri sgretolati che forse risalivano a un’epoca anteriore all’Età dell’Oro. Spazi angusti e tortuosi. Vicoli ciechi. Un labirinto fatto dei resti di imponenti costruzioni.

Urla alle sue spalle. Un circolo di luce poco sopra la sua testa, contro un enorme blocco frastagliato. Nascondersi. Sgusciare. Strisciare.

Altre urla, più vicine. Una corsa disperata alla ricerca di un rifugio. Ondate di dolore, simili a lampi accecanti, ogni volta che il suo braccio ferito e ciondolante urtava contro qualche masso. Mordersi la guancia per non urlare. E in bocca il sapore salato del sangue.

Da quel momento in poi il suo unico scopo fu quello di seppellirsi fra le rovine, infilarsi nelle strade più strette e più buie. A volte le grida si allontanavano, altre volte riecheggiavano vicine. Il fatto che nel corso di quella sua fuga senza meta prima o poi sarebbe finito nelle grinfie dei suoi inseguitori apparteneva a un genere di ragionamento che ormai non aveva più alcun significato per lui.

Gli sembrava di sentire ancora la musica da ballo rimbombargli nelle orecchie, mescolata a urla oscene e a gemiti di rauca disperazione. Mentre l’intero universo ondeggiava vertiginosamente al ritmo folle di quel frastuono e della ferita che gli pulsava sulla spalla. Anche lui avrebbe voluto ballare, ma era tropo doloroso. Lui era un’altra persona. Era Armon Jarles, ma Armon Jarles era un’altra persona. Suo padre… suo padre era un arciprete. Le sue braccia vecchie ma forti lo stringevano e non la lasciavano più andare. Suo fratello era un bambinetto piccolo e grasso, con la voce stridula. Si chiamava Fratello Chulian. Sua madre…

In piedi, davanti a un uscio illuminato, una bellissima ragazza gli sorrise e gli fece segno di avvicinarsi. Lui avanzò lentamente: più vicino, sempre più vicino e a ogni passo la sua diffidenza diminuiva. Ma poi, all’improvviso, la ragazza allungò una mano, lo afferrò per la spalla ferita, e dietro di lei comparve un’ondata di vesti scarlatte. Il viso della donna sfiorì e gli occhi stanchi di sua madre, vestita di una misera tunica, lo fissarono cupidi.

Ma quel viso era troppo vecchio, troppo vecchio per essere quello di sua madre. Le guance erano cascanti, le labbra raggrinzite, il naso terminava in un becco sottile, il mento era ridotto a un pomello marrone.

— Svegliati Fratello Jarles! — Un sussurro stridulo.

C’era qualcosa che non andava in quel viso. Era reale e in quel momento lui non voleva guardare la realtà. Ma la mano continuava stringergli la spalla e a fargli male. Cercò di allontanarla. Sollevò lo sguardo e alla luce della torcia che illuminava il budello in cui si trovava, vide di nuovo quel volto di vecchia, ma questa volta lo riconobbe.

— Vieni con me, Fratello Jarles! Vieni con Madre Jujy!

A Jarles sfuggì un sorriso.

— Sono contento che la taglia la riscuota tu anziché mio padre — mormorò.

Una mano ossuta gli tappò la bocca.

— Zitto, altrimenti li attirerai qui! Su alzati, Fratello Jarles! Siamo quasi arrivati, ma non c’è tempo da perdere. Dobbiamo sbrigarci.

Era meno doloroso alzarsi in piedi che restare supino e farsi trascinare da Madre Jujy. Dopo un paio di tentativi riuscì finalmente a drizzarsi sulle gambe, ma lo sforzo fu tale che la tenebra intorno a lui ricominciò a vorticare e gli apparvero di nuovo le visioni di prima. Mentre arrancava appoggiandosi alla spalla scheletrica della vecchia strega gli sembrò che la donna continuasse a cambiare identità. Prima era sua madre. Poi Sharlson Naurya. Poi Madre Jujy. Poi la ragazza sull’uscio. Poi sua madre…

— Lascia che li chiami — disse sorridendo stupidamente. — Non c’è bisogno che andiamo a cercarli. Lascia che li chiami e loro arriveranno. E poi, pensa, la ricompensa sarà tutta tua. O hai forse paura che te la porteranno via con qualche trucco? Per tutta risposta ricevette una bastonata sulla bocca.

— Eccolo là! Da quella parte! C’è qualcuno con lui!

Improvvisa svolta in una stradina laterale. Voci concitate che abbaiavano ovunque. Un’altra svolta brusca. Poi, Jarles vide Madre Jujy afferrare alcune erbacce, tirarle verso l’alto e sollevare un’intera zolla di terra.

— Dentro! Svelto!

La bastonata di poco prima aveva restituito a Jarles un po’ di senno. Si lasciò cadere nel buco nero che Madre Jujy aveva scoperto. In parte scese, in parte scivolò giù da una corta scala. Poi, giunto all’ultimo gradino, rotolò per terra e giacque immobile.

Le grida erano svanite. Era buio pesto. Silenzio.

Dopo un po’ si accese una luce e lui vide il viso grinzoso della vecchia che gli rivolgeva un sorriso sdentato al di sopra della fiamma di una candela.

— Adesso sai come Madre Jujy reclama la propria ricompensa, Fratello Jarles! — ridacchiò la donna.

Gli si avvicinò zoppicando e sollevò la stoffa della tunica per esaminargli la spalla. Jarles digrignò i denti.

— Bisogna che sistemi questa brutta ferita — mormorò. — Hai anche la febbre. Ma per prima cosa dobbiamo andarcene da qui. Bevi questo.

Gli avvicinò una bottiglietta alle labbra. Jarles bevve, ma il liquido era così forte che alla prima sorsata cominciò a tossire e a boccheggiare.

— Brucia, eh? — osservò Madre Jujy allegramente. — Tutt’altra cosa rispetto al vino della Gerarchia, vero? Eh, Madre Jujy ha una distilleria tutta sua e provvede da sé al suo nettare!

Lui si guardò intorno.

— Dove siamo?

— In uno dei passaggi sotterranei dell’Età dell’Oro — rispose la donna. — Ma non chiedermi a che cosa servissero perché non lo so. In compenso so a quel che servono adesso. — Ridacchiò maliziosamente, scuotendo la testa. — Solo vecchie streghe ignoranti! I preti sanno tutto di noi! Eccome!

Lui sgranò gli occhi e la fissò confuso.

— Sei troppo frastornato, Fratello Jarles, è inutile che ti lambicchi il cervello. Limitati a seguire Madre Jujy.

Lui obbedì. In alcuni punti, la galleria era quasi completa, un tubo circolare di metallo grigio abbastanza grande da poterci stare in piedi; ma per lo più mostrava crepe profonde e il pavimento era ricoperto di sudiciume. In un paio di tratti le pareti erano state puntellate di recente.

Il tragitto gli parve infinito e prima di arrivare a destinazione, Jarles stava già molto male. La febbre gli era salita, in parte per lo sforzo, in parte, forse, per il nettare che aveva bevuto e che gli aveva infiammato la gola e lo stomaco.

Cominciò a barcollare e fu nuovamente assalito da oscure visioni. Ma adesso era Sharlson Naurya a camminare al suo fianco; mordicchiava una melagrana. Erano il Re e la Regina degli Inferi e stavano visitando l’Ade, preceduti dal loro primo ministro, Madre Jujy, il cui bastone era diventato una verga intorno alla quale si attorcigliavano serpenti vivi. Li seguiva un uomo che era tutta tenebra. E attorno ai loro piedi sgambettavano piccole scimmie semi-umane.

Un’altra scala. Madre Jujy che lo spingeva su. Un letto stretto, che assomigliava a una scatola con un lato aperto. Corto per lui, ma straordinariamente morbido. Sulla sua spalla straziata il gaudioso refrigerio di una benda imbevuta di un liquido scuro e aromatico. Un momentaneo brivido di paura, perché fino ad allora era stato curato soltanto dai sacerdoti. I preti curavano tutti. Poi un liquido caldo che gli scivolava in gola. Quiete. Sonno.

La prima cosa che vide, quando riacquistò lucidità, dopo i deliri della febbre, in cui forse si erano mescolati frammenti di realtà, fu una creatura nera, dai tratti indistinti, che stava acquattata sulle coperte sopra i suoi piedi. Aguzzò pazientemente la vista, fino a quando riuscì a metterla a fuoco.

Era un’enorme gatta nera, intenta a leccarsi le zampe: lo osservava freddamente, come se lo stesse studiando.

C’era qualcosa che non andava. Non avrebbe dovuto essere una gatta. Madre Jujy doveva avere qualcosa di piccolo, peloso e vivo… ma non poteva trattarsi di una gatta.

Per un lasso di tempo interminabile, Jarles ponderò vagamente il problema, senza mai distogliere gli occhi dall’animale. Era convinto che da un momento all’altro gli avrebbe rivolto la parola, ma il felino continuò a osservarlo con grande calma.

A poco a poco, Jarles cominciò a discernere l’ambiente che lo circondava. La sua prima impressione era stata esatta: il letto era davvero una scatola. Una scatola costruita nella parete di una stanza. Un lato della scatola, che serviva a trattenere le coperte, gli impediva di vedere la parte inferiore del vano.

Il soffitto era basso e dalle travi pendevano oggetti della più svariata natura. Da qualche parte sotto di lui, proveniva il debole scoppiettio di un fuoco e il borbottio di una pentola. Il profumo era buono.

Si sforzò di guardare oltre la barriera solida del letto. Quel movimento gli provocò alcune fitte di dolore, non foltissime, ma lui non riuscì a trattenere un gemito soffocato.

Zoppicando, la vecchia strega lo raggiunse.

— E così sei ritornato fra di noi, eh? Per un po’ Madre Jujy ha temuto di perdere il suo bambino.

Ma Jarles pensava ancora al problema che lo ossessionava da quando si era risvegliato.

— Ma è una gatta e basta? — domandò con un filo di voce.

Gli occhi della strega, pieni di luce sotto le palpebre incartapecorite, lo fissarono attentamente: — Naturale! Anche se si dà sempre un sacco d’arie!

— E non succhia il tuo sangue?

Con una smorfia di disprezzo, Madre Jujy fece schioccare la lingua contro le gengive sdentate. — Forse le piacerebbe. Ma di’ che ci provi soltanto!

— Ma… allora… tu… tu sei davvero una strega, Madre Jujy?

— Che cosa credevi, che mi rendessi impopolare così, tanto per divertirmi?

— Ma… io pensavo… intendo dire, le altre streghe che ho conosciuto…

— Ah, quelle! Allora ne hai conosciuta qualcuna, eh?

Jarles annuì debolmente. — Chi sono?

Lei lo incenerì con lo sguardo. — Hai già fatto fin troppe domande. In più, adesso è ora di mangiare.

Mentre lo imboccava, con la gatta che era venuta ad annusare il brodo bollente e seguiva con attenzione i movimenti del cucchiaio, qualcuno bussò alla porta. — Tu non sbirciare — sibilò Madre Jujy. Fece scivolare una porzione della parete lungo il lato aperto della scatola, lasciandolo immerso nella completa oscurità. Poi Jarles udì un fruscio smorzato, come se fosse stata abbassata una specie di tenda.

La gatta si drizzò sul suo petto e lui sentì la pressione delle quattro zampe sulla sua cassa toracica, rigide e immobili come le gambe di un piccolo tavolino.

Dalla stanza gli giunse l’eco di una conversazione, ma il suono era troppo debole perché lui riuscisse a capirne le parole.

Poco dopo, la gatta gli si accovacciò sulla spalla sana e cominciò a fare le fusa. Jarles si addormentò.

Nei giorni che seguirono, la porzione di parete fu fatta scivolare più volte davanti al suo letto, ma dopo un po’ Madre Jujy smise di abbassare la tenda, in modo che lui potesse sentire quello che accadeva nella stanza. Udiva la vecchia strega dispensare ambigui sortilegi e consigli pratici a cittadini comuni di ogni genere, ma soprattutto alle Sorelle Perdute, che non si stancavano mai di farsi predire il futuro. In quel modo, Jarles ebbe l’opportunità, anche se indirettamente, di fare conoscenza con la classe criminale, esigua e indigente, di Megateopoli, con cui Madre Jujy sembrava essere in buoni rapporti. La cosa lo insospettiva. Apparentemente, la vecchia strega fungeva da ricettatrice.

Ma non erano solo i cittadini comuni a farle visita. In un paio di occasioni, bussarono alla sua porta anche alcuni diaconi. La prima volta, Jarles si irrigidì per lo spavento. Ma dopo un po’, con sua grande sorpresa, si accorse che la tonaca nera era venuta lì solo per implorare l’aiuto di Madre Jujy, per riconquistare una ragazza che gli era stata sottratta da un prete. La seconda volta andò peggio. Il diacono cominciò ad annusare l’aria con sospetto, ricordò a Madre Jujy le severe pene previste per chi distillasse alcolici o praticasse altre attività illecite, e percuoté il muro in uno o due punti. Ma apparentemente, quella messinscena era mirata soltanto a ottenere un servizio gratuito, perché dopo un po’ finì per esporre alla strega un problema simile a quello del primo diacono. E Jarles provò un intimo piacere quando Madre Jujy gli vendette un sortilegio che, per compiersi, richiedeva l’esecuzione di azioni faticosissime e umilianti.

Ogni tanto ripensava all’Uomo Nero e a Sharlson Naurya, anche se a volte il ricordo del convegno di streghe, al quale aveva assistito, gli sembrava soltanto una delle tante allucinazioni provocate dalla febbre e non un fatto realmente accaduto. Ma vi rimuginava sopra a lungo e assillò Madre Jujy con domande ostinate fino a quando riuscì a estorcerle parecchie informazioni, benché avesse l’impressione che lei ne sapesse un po’ di più di quanto volesse ammettere.

Stando a quanto sosteneva Madre Jujy le “nuove streghe” erano saltate fuori soltanto da pochi anni. Sulle prime, lei aveva pensato che fossero una creazione della Gerarchia e che i preti avessero deciso di “disfarsi di noi altre vecchie”. Dopo un po’, però, aveva cambiato parere nei loro confronti e adesso non le considerava più delle pericolose rivali; anzi intratteneva con loro sporadici rapporti, della cui natura, tuttavia, si rifiutava categoricamente di parlare.

A mano a mano che la ferita si rimarginava, lasciando il posto a una cicatrice profonda e orlata di bianco, e la febbre diminuiva — lentamente, data la mancanza dei meravigliosi corroboranti somministrati dai medici della Gerarchia — Jarles rimuginava le informazioni raccolte, finché un giorno, all’improvviso, chiese a Madre Jujy: — Perché mi hai salvato?

Lei parve perplessa. Poi lo guardò con occhi lascivi e disse: — Chi lo sa, forse mi sono innamorata di te! Sono stati molti i bei giovanotti che Jujy ha tolto dai guai e ha nascosto in casa sua, ai tempi in cui era la più avvenente tentatrice di tutto il monacato.

Poi, dopo un attimo aggiunse bruscamente: — In più, tu mi hai sempre trattato abbastanza bene, quando eri prete.

— Ma come hai fatto a trovarmi? Come mai eri lì in mezzo alle rovine, mentre mi stavano dando la caccia?

Era stato solo un caso, gli rispose Madre Jujy. Era uscita poco prima dal passaggio sotterraneo. Più tardi, rettificò questa versione, dichiarando di aver appreso attraverso una “visione” che lui era nei guai. Ma lui sapeva che non le stava dicendo tutta la verità.

Una sera in cui si sentiva inquieto, Jarles insistette per scendere dal letto e fare quattro passi per la stanza, dribblando fra i mille oggetti che pendevano dal soffitto. Era impaziente di riprendere i contatti con il mondo. A un tratto, qualcuno bussò alla porta; ma in quel suono, un ticchettio ritmato di dita leggere, non gli sembrò di riconoscere nessuna delle bussate che aveva imparato a distinguere. Grimalkin, la gatta, scoprì i denti con fare minaccioso. Madre Jujy spinse Jarles nel letto a muro e si diresse verso la porta. Levò la spranga, scivolò fuori e chiuse il battente dietro di sé.

Era molto buio, ma di fronte a lei si stagliava un’ombra ancora più scura, una figura d’uomo.

— Ti vedo — disse la strega aspramente, stringendosi lo scialle sdrucito intorno alle spalle per proteggersi dal freddo. Ma la sua voce tradiva un certo nervosismo. — E con me non hai bisogno di fare certi giochetti per metterti in mostra. Non penserai mica di farmi paura!

— Appena mi ha sentito bussare Grimalkin mi ha riconosciuto — rispose una voce ridente. — Posso mandare Dickon a giocare un po’ con lei?

— Se lo vede gli cava gli occhi! Quel piccolo bruto, strisciante, raccapricciante e sporcaccione! Che cosa vuoi?

— Come sta il nostro malato?

— Vuole alzarsi e dar fuoco al mondo intero! Devo tenerlo legato al letto!

— E la sua… educazione?

— Oh, mi sembra che gli stia entrando un po’ di sale in zucca. I tipi come lui capiscono le cose solo dopo averci sbattuto la testa. Comunque è un duro. Per essere un giovanotto gentile com’è ha uno spirito impetuoso e contorto. In ogni caso, penso che si stia ammorbidendo nei vostri confronti… per sua disgrazia!

— Ottimo! Però penso che tu sia troppo modesta. Tu sottovaluti l’influenza che la tua compagnia ha su di lui. Noi ti siamo molto grati, Madre Jujy.

— Grati un corno! — La vecchia strega si raddrizzò e sporse il mento avvizzito. — Ascolta, io sono disposta ad aiutarvi di tanto in tanto perché so che combattete i preti. Ma c’è una cosa che voglio che vi entri bene in testa: io l’ho capito fin dall’inizio. Nonostante tutti i vostri trucchi, le vostre acrobazie e le vostre scimmiette farfuglianti, voi non siete delle vere streghe!

Dalla tenebra provenne uno sghignazzo compiaciuto.

— Speriamo che i preti non arrivino mai a possedere un intuito come il tuo, Madre Jujy.

Lei ignorò il complimento. — Voi siete soltanto degli impostori — continuò. — Io sono la sola vera strega!

La tenebra si inchinò. — E noi non ti contenderemo questo onore.

— Così va bene! — decretò Madre Jujy.

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