15

Erano già quattro giorni che non aveva notizie di Dickon. Stancamente, l’Uomo Nero sgomberò la mente, in attesa che vi si imprimesse un messaggio che non arrivava mai. Quell’operazione che gli costava una fatica inaudita, perché il recente incontro con Fratello Dhomas aveva ridotto il suo cervello in uno stato di semi-caos: quasi fosse un pianeta lacerato da catastrofiche eruzioni vulcaniche, che facevano sorgere nuovi continenti e nuovi arcipelaghi dagli oceani in burrasca e modificavano tutte le linee costiere.

In un certo senso, la seduta che aveva avuto luogo nelle cripte era stata una sorta di caccia, con Fratello Dhomas nella parte del cacciatore e lui, o meglio la sua personalità, in quella della preda. E lui aveva vinto. Il suo stato di generale prostrazione fisica aveva reso necessario il suo ritorno in cella prima che il sacerdote fosse riuscito a raggiungere il suo scopo. Ma sapeva che non appena avesse riacquistato un po’ le forze la caccia sarebbe ripresa.

E se per caso lui fosse riuscito a spuntarla di nuovo, la caccia sarebbe cominciata per la terza volta.

E allora… be’ aveva visto quel che era accaduto a Jarles. A quanto sembrava, adesso il prete rinnegato era ben visto dalla Gerarchia e godeva della massima fiducia di Cugino Deth; lo dimostrava il fatto che per ben due volte era venuto a trovarlo in cella.

Con ostinazione, e con sempre maggior fatica, liberò ancora una volta la mente dai pensieri, per permettere a Dickon di mettersi in contatto con lui. Non si trovava più in una stanza d’ospedale, ma in una cella di metallo e lì il suo fratellino non avrebbe potuto raggiungerlo attraverso i condotti dell’aerazione; in più era sorvegliato ventiquattr’ore su ventiquattro da due guardie: solo la telepatia poteva valicare simili barriere. Ma Dickon non conosceva l’ubicazione della cella e avrebbe dovuto cercarla muovendosi a caso ed esponendosi a gravi pericoli.

Di nuovo, l’Uomo Nero sgomberò la mente, ma nemmeno questa volta gli giunse alcuna risposta. E di nuovo, la schiera dei suoi bizzarri pensieri, distorti dagli effetti delle stimolazioni con le quali lo aveva bombardato Fratello Dhomas, invase la sua mente sconvolta.


Nell’oscurità degli stretti condotti circolari, Dickon proseguiva la sua ricerca, guidato soltanto dalla straordinaria sensibilità tattile delle estremità delle sue zampe (quando gli artigli erano retratti).

Dickon non era preoccupato. La sua mente altamente semplificata non riusciva a concepire un’emozione così complessa. Perfino le sue frequenti manifestazioni di autocommiserazione erano sempre legate a situazioni reali, immediate. Ma lui sapeva che la sua riserva di sangue fresco stava per esaurirsi, mentre quello che circolava nel suo minuscolo organismo era quasi completamente deossigenato, nonostante la scarsa richiesta dei suoi piccoli muscoli nastriformi. Si era rimpinzato al Luogo di Cova, ma neppure quella scorpacciata gli sarebbe bastata per sempre e prima o poi avrebbe dovuto fermarsi.

Ma per ora gli restava ancora sufficiente energia per esplorare alcuni rami di quell’enorme albero rovesciato che era, nella sua mente, il sistema di aerazione delle cripte.

C’era molto vento in quelle gallerie e le raffiche, continue e violentissime, ostacolavano il suo cammino. Se solo gli fosse capitato di staccare contemporaneamente le quattro zampe dotate di ventosa, sarebbe volato all’indietro come un foglio di carta straccia per metri e metri, prima di riuscire a piantare gli artigli e a fermarsi… ammesso che ci fosse riuscito. Perché Dickon, come spesso lui stesso si ripeteva, non era che un abbozzo d’uomo. Le sue ossa erano più leggere di quelle di una scimmia, il suo corpo non possedeva cellule adipose e i suoi organi interni erano ridotti a un’unica cavità, suddivisa in diverse parti, che serviva sia da pompa per la circolazione sanguigna, sia da camera per il deposito del sangue. Tutte le altre sostanze fisiologiche di cui aveva bisogno, e la cui produzione dipendeva da altri organi, le suggeva dal suo compagno di simbiosi attraverso la piccola bocca avvizzita. Non digeriva né evacuava; non respirava, benché fosse in grado di produrre deboli suoni e anche di abbozzare qualche parola introducendo l’aria nella cavità buccale ed espellendola attraverso le labbra tese. Poiché non aveva bisogno di midollo per produrre il sangue, le sue ossa erano cave; non possedeva ghiandole endocrine e non aveva sesso. Il pelo, corto e sottile che lo ricopriva, gli serviva per evitare di disperdere il calore corporeo.

Insomma, Dickon era una minuscola creatura fatta di ossa, muscoli, tendini, pelle, pelo, calore, un semplice sistema circolatorio, un sistema nervoso, un paio di orecchie mobilissime, due occhi vispi… e una personalità straordinariamente semplice, come la sua fisiologia.

Uno degli obiettivi perseguiti dagli scienziati che avevano dato vita a questa specie artificiale era stato quello di creare un organismo estremamente agile e lesto, riducendo al minimo il peso e il numero delle funzioni corporali. E questo scopo lo avevano raggiunto, ma all’inevitabile condizione di rendere le nuove creature totalmente dipendenti dal proprio compagno di simbiosi, o da qualsiasi altra fonte di sangue, e costrette a ridurre al minimo la loro attività ogniqualvolta la loro riserva energetica era prossima all’esaurimento.

Ma queste limitazioni e la generale fragilità del suo essere non turbavano minimamente Dickon. Come i suoi simili, lui aveva una visione fatalistica e vagamente stoica della vita.

Era per quella ragione che si avventurava senza paura in quei tubi battuti dal vento. Se i condotti dell’aerazione fossero stati illuminati e, per assurdo, qualcuno fosse stato lì a vederlo, l’avrebbe scambiato per un grosso ragno rosso, peloso e velocissimo: sì, perché in condizioni ottimali, Dickon riusciva a raggiungere una velocità di spostamento di gran lunga superiore, in proporzione, a quella dell’uomo.

— Devo trovare mio fratello. Devo trovare mio fratello. — Queste parole si ripetevano nella sua mente con insistenza meccanica, quasi calmante. Non solo desiderava ardentemente ritrovare il calore del fianco dell’Uomo Nero, contro il quale aveva trascorso, appallottolato su se stesso, la maggior parte della sua vita; ma desiderava anche metterlo al corrente di alcuni fatti che era sicuro lo avrebbe molto interessato, e che adesso gli affollavano la mente fino a farla quasi scoppiare, come una scatola riempita allo stremo. Perché era questa l’idea che Dickon aveva della propria mente: una minuscola stanza collocata dietro gli occhi con le pareti tappezzate di tante scatoline piene di ricordi e, al centro, un Dickon piccolissimo, che era il suo vero io, che scrutava all’esterno attraverso le finestre degli occhi e ascoltava attraverso le cornette acustiche delle orecchie. Nella stanzetta c’erano due lavagne: sulla prima, in alto al centro, spiccava la parola “regole”, seguita da una lunga lista di annotazioni scritte fitte fitte; la seconda era vuota. Era riservata ai pensieri di suo fratello.

Suo fratello era la pietra angolare della sua esistenza. Era così legato a lui, che a volte aveva l’impressione di non essere nient’altro che un prolungamento della sua personalità. E questa impressione aveva un preciso fondamento. Attraverso gli ormoni presenti nel sangue dello stregone, Dickon faceva proprie anche le sue emozioni (e infatti, quando chiacchieravano fra di loro, i piccoli demoni parlavano di “sangue spaventato”, “sangue arrabbiato”, “sangue innamorato” e così via); anche se, a onor del vero, quelle emozioni erano estremamente fugaci e non turbavano in modo significativo l’uniforme tenore dei suoi pensieri.

Ma il vero motivo dello stretto legame che li univa era che, in ogni sua parte, Dickon era una versione semplificata di suo fratello. In breve era, a tutti gli effetti, gemello vero dell’Uomo Nero, in quanto si era sviluppato da una cellula del suo organismo grazie a una procedura chiamata “spoliazione cromosomica”. Si trattava di una tecnica messa a punto dai microbiologi dell’Età dell’Oro, e poi presumibilmente dimenticata, mediante la quale dai cromosomi di un essere umano venivano eliminati i determinanti del sesso, dell’alimentazione e di molte altre funzioni; ma fatta salva la perdita di questi caratteri, le creature come Dickon erano in tutto e per tutto identici ai loro fratelli o alle loro sorelle; e questo spiegava la loro capacità di comunicazione telepatica.

Quando gli scienziati della Civiltà dell’Alba avevano scoperto l’esistenza delle onde cerebrali, si erano resi conto che se la telepatia esisteva, era assai più probabile che si manifestasse fra gemelli monozigotici; infatti, l’uguaglianza delle strutture cerebrali implicava un’analoga uguaglianza delle onde cerebrali, grazie alla quale le due menti potevano entrare in sintonia. Ma questa ipotesi non aveva trovato alcun riscontro se non verso la fine dell’Età dell’Oro, quando si era scoperto che la comunicazione telepatica poteva avvenire soltanto quando una delle due stazioni era di struttura molto più semplice dell’altra; era, questa, una condizione indispensabile per eliminare interferenze altrimenti insormontabili.

La produzione, attraverso la tecnica della spoliazione cromosomica, di gemelli monozigotici simbiotici aveva permesso di risolvere il problema. In breve, l’Età dell’Oro aveva accarezzato il sogno di prolungare la personalità di ogni singolo individuo fornendogli un compagno simbiotico. Poi, in rapida successione, erano arrivati i tempi bui, la fine della ricerca scientifica, il caos in tutto il mondo e la fondazione della Gerarchia. Fino al giorno in cui, la Nuova Stregoneria era nata da poco, erano giunte dettagliate istruzioni da Asmodeo per l’istituzione di un luogo di cova e la creazione di gemelli monozigotici simbiotici, su imitazione dei demoni inviati da Satana al servizio delle antiche streghe.

Fin dalla nascita, dal momento stesso in cui era stato prelevato dalla gabbia di cova, Dickon era stato proiettato nel mondo di suo fratello, cosicché, in un certo senso non aveva avuto infanzia, ma aveva subito cominciato a pensare come un adulto. Il contatto diretto con la mente di suo fratello gli aveva permesso di raggiungere la piena maturità intellettuale nell’arco di poche ore, e di capire cose che il suo semplice sistema nervoso da solo non gli avrebbe mai consentito di afferrare. Di grande importanza per il suo sviluppo era stata anche la frequentazione degli altri demoni, suoi simili, con i quali, però, aveva contatti telepatici di intensità e portata minori.

Ma a suo fratello era molto più legato che a chiunque di loro. E così, mentre lo cercava, divorando con le agili zampe i rami tenebrosi dei condotti dell’aerazione, Dickon giunse assai vicino, vicino quanto può giùngervi una creatura priva di un sistema ghiandolare, a provare un’emozione tutta sua.

Ancora cinque rami al massimo, disse a se stesso, dopodiché avrebbe dovuto fermarsi. In quell’istante, la vaga traccia di un’immagine apparve sulla lavagna vuota della sua mente.

Si fermò. L’immagine cominciò a svanire. Si spostò in avanti. L’immagine si dileguò. Allora ritornò sui propri passi e attese. Dopo un po’ cominciò a prendere forma un’altra visione, simile a una fotografia in fase di sviluppo… una fotografia che si muoveva e cambiava mentre prendeva vita. Un sentimento che, se Dickon fosse stato capace di provare emozioni, sarebbe stato molto simile alla paura, riempì la piccola stanza dietro i suoi occhi. Non aveva mai visto un simile paesaggio mentale prima di allora. Eppure era certo che si trattasse della mente di suo fratello.

Senza alcun preavviso l’immagine svanì. Lesto, il piccolo Dickon che stava dietro i suoi occhi, corse alla lavagna e vi scrisse sopra un messaggio. — Dickon è qui, fratello. Dickon scrive nella tua mente.

Anche il suo messaggio svanì e subito dopo la lavagna fu invasa da un tale marasma di pensieri che Dickon capì che suo fratello doveva essere profondamente turbato e in preda a una grande agitazione. Quei pensieri avevano una sfumatura che gli era del tutto aliena. Ma scomparvero quasi subito, come se suo fratello si fosse reso conto che erano troppo confusi per essere di qualche utilità e, al loro posto, apparve una domanda semplice e breve.

— Riesci a sentirmi chiaramente Dickon? Il contatto è sufficiente?

— Sì, ma i tuoi pensieri sono strani. E alcuni sembrano feriti. Qualcuno ha ferito i tuoi pensieri, fratello?

— Un po’, ma adesso non ho tempo di spiegarti. — A questo punto Dickon vide un’immagine fuggevole e frammentaria di Fratello Dhomas e del suo laboratorio nelle cripte. — A parte la stranezza, il contatto è sufficiente? — proseguì l’Uomo Nero.

— Sì, ma Dickon vorrebbe venire da te. Aiuterai Dickon a trovare la strada?

— Mi dispiace, Dickon, ma non è possibile. Hanno rinchiuso tuo fratello in una stanza in cui non può entrare nessuno. Hai trasmesso il mio messaggio?

— No. Dickon non ha potuto. Ha trovato le cose molto diverse da come sarebbero dovute essere. Ha molte notizie per te.

— Su, racconta.

A quel punto, il piccolo Dickon che si trovava dietro ai suoi occhi aprì le scatole dei ricordi.

— Dopo che Dickon ti ha lasciato nella stanza della malattia… Hai ancora quello strano cuore esterno, fratello?

— No. Adesso sto meglio. Sono passati quattro giorni da quando ci siamo lasciati. Va’ avanti.

— Dickon ha attraversato le gallerie. Prima quelle piccole, poi, attraverso uno stretto cunicolo quelle grandi, poi di nuovo quelle piccole. Ma non ha trovato Drick, né suo fratello, nel luogo in cui Drick avrebbe dovuto essere. Così Dickon si è diretto verso la Camera del Convegno. Ma nella gallerie sotto la Camera ha trovato molti demoni, fra cui il fratello di Drick, Jock, Meg, Mysie, Jill, Seth e tanti altri. Loro hanno detto a Dickon che non doveva andare nella Camera perché c’erano i preti. C’era stata una riunione, hanno detto, e le Persone Grandi erano state tradite. I diaconi avevano fatto irruzione nella Camera e avevano catturato le Persone Grandi. I demoni stavano male. Avevano perso il contatto con i loro fratelli e non sapevano che cosa fare. Molti avevano bisogno di sangue.

“Allora Dickon si è ricordato che nel Luogo di Cova c’erano riserve di sangue per gli embrioni. Così ha riunito i demoni in gruppo, invitando i più forti ad aiutare i più deboli e li ha condotti giù giù fino al Luogo di Cova. È stato un viaggio tanto faticoso. Verso la fine molti hanno dovuto essere trasportati a braccia. E se non avessero saputo che stavano ritornando al loro luogo di nascita penso che non ce l’avrebbero fatta.

“Quando finalmente Dickon e gli altri sono arrivati al Luogo di Cova non hanno trovato nemmeno lì le Persone Grandi. Era deserto. Gli altri demoni volevano precipitarsi verso le prime ampolle di sangue che capitavano, ma Dickon li ha trattenuti e gli ha impedito di bere fino a quando non ha trovato la cassetta dove c’è il sangue-che-tutti-possono-bere-senza-pericolo.

“Così Dickon ha lasciato che si saziassero e che giocassero nella gabbie di cova per riscaldarsi. Poi è tornato indietro perché sapeva che suo fratello avrebbe voluto essere informato delle cose che erano accadute e perché voleva conoscere la volontà di suo fratello. Ma quando è ritornato sui suoi passi ha scoperto che suo fratello non era più dove l’aveva lasciato. L’ha cercato ma non l’ha trovato, e così, dopo un po’, è ritornato al Luogo di Cova per bere sangue fresco e poi ha ripreso la ricerca. Questo è accaduto molte volte. Fino a quando ha deciso che non sarebbe più ritornato indietro, ma avrebbe trovato suo fratello o si sarebbe fermato. E si è spinto sempre più lontano per cercarlo e adesso è qui.”

A quel punto il piccolo Dickon pulì la lavagna. Ma dall’Uomo Nero non giunse nessuna risposta: solo un insieme di pensieri confusi, un paesaggio mentale convulso e muto, pervaso più che mai da quello strano stato d’animo che Dickon non conosceva. E da questo il demone capì che le notizie che aveva dato a suo fratello dovevano averlo profondamente scoraggiato.

All’improvviso, il piccolo Dickon dietro i suoi occhi vide una scatolina di ricordi che non aveva ancora aperto.

— C’è un’altra cosa che non ti ho detto, fratello. — Dickon ha detto che il Luogo di Cova era deserto quando siamo arrivati. Questo è vero per quanto riguarda le Persone Grandi. Ma abbiamo trovato due demoni appena nati, che dovevano essere stati dimenticati lì. Due demoni strani… non appartenevano né a streghe né a stregoni.

— Che cosa intendi dire?

— Uno tu lo devi conoscere, fratello. È il demone di quel prete che doveva diventare uno di noi, che stava da Madre Jujy e che…

— Che aspetto ha?

Dickon tracciò rapidamente sulla lavagnetta lo schizzo di un demone dal pelo scuro.

— E l’altro?

Sulla lavagna apparve il ritratto di un demone dalla pelle giallastra e dal pelo nero con una strana sfumatura grigio-bluastra.

Per un po’ non giunsero altri messaggi, ma Dickon sentiva che la mente di suo fratello stava lavorando alacremente nel vecchio modo che gli era noto. E alla fine, quando la risposta arrivò, le parole erano chiare e precise.

— Ascolta Dickon. Quei due demoni appena nati. Hai comunicato con loro?

— Sì un po’. Sono molto stupidi perché ancora non sono stati insieme ai loro fratelli grandi. Ma alcuni degli altri demoni sono entrati in contatto con loro, un po’ per gioco un po’ per istruirli. Cominciano a fare qualche progresso.

— Pensi che se adesso fossero qui con te io potrei comunicare con loro attraverso la tua mente?

— Penso di sì, fratello.

— Bene. Adesso ascolta attentamente. Voglio che tu ritorni al Luogo di Cova e che porti qui i due demoni appena nati. Ognuno di voi può portare con sé un’ampolla di sangue, così, in caso di bisogno, avrete una piccola riserva…

— Dickon non ci aveva pensato. Sarebbe stato tutto tanto più semplice! Povero, stupido Dickon!

— No, non è vero. Tu hai fatto molto più di quanto avessi osato sperare. Ma adesso è importante che tu porti gli altri due demoni nel posto in cui ti trovi ora, e che cerchi di entrare di nuovo in contatto con la mia mente. Hai capito bene?

— Sì — rispose Dickon gravemente.

— Pensi di potercela fare? — gli domandò l’Uomo Nero con apprensione. — A ritornare al Luogo di Cova, intendo. Hai abbastanza sangue?

— Non lo so — rispose Dickon semplicemente. — Questa volta ho fatto più strada, sperando di suggere nuovo sangue da mio fratello quando l’avessi trovato.

— Per Satanas! — Dickon percepì tutto lo sgomento dello stregone. — Ascolta, Dickon, è indispensabile che tu esegua i miei ordini. Per cui ti autorizzo a violare la regola che ti impedisce di succhiare sangue da persone diverse da tuo fratello. Prendi tutto il sangue di cui hai bisogno quando e da chi vuoi!

Dickon avvertì la muta preoccupazione di suo fratello e, con molta calma, osservò: — Dickon ha capito il pericolo a cui ti riferisci. È per questo che ha voluto che gli altri demoni bevessero solo il sangue-che-tutti-possono-bere-senza-rischio. Sa che se succhia il sangue di un’altra persona grande, rischia di morire di improvvise convulsioni. Ma la vita è poca cosa, poca cosa come Dickon, e a Dickon non importa.

Non riuscì a comprendere appieno l’emozione che a quel punto pervase la mente di suo fratello, ma ne fu rincuorato.

— Farai meglio a metterti in cammino Dickon — disse infine l’Uomo Nero. — È una piccola speranza quella che porti con te, piccola come te. Ma potrebbe essere la sola che resta per tutto il mondo delle Persone Grandi.

— Dickon farà tutto il possibile. Addio, fratello.

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