18

Lentamente, e trascinando i piedi, che gli sembravano diventati di piombo, come se l’aria stessa si fosse ispessita per intralciargli il cammino, Jarles fece ritorno al proprio appartamento, nelle cripte del Santuario. La sua mente era offuscata da un oscuro senso di colpa, che trovava ancor più odioso in quanto si detestava e si disprezzava per il fatto di provarlo.

In ogni corridoio si imbatteva o veniva raggiunto alle spalle da sacerdoti che correvano in entrambe le direzioni, gli occhi stralunati dal panico. Uno di questi, un prete grasso e insignificante del Secondo Circolo, lo fermò e cercò di attaccare discorso.

— Desidero congratularmi per la sua elevazione al Quarto Circolo — disse, senza quasi prender fiato fra una parola e l’altra. — Lei si ricorderà senz’altro di me, eminenza. Io sono Fratello Chulian… la sua vecchia guida…

Dalla sua aria di scusa e dal modo in cui si torceva nervosamente le mani, sembrava che stesse cercando il coraggio per chiedergli un favore; o, forse, nel generale clima di paura e di incertezza che si era creato, stava semplicemente cercando il maggior numero possibile di appigli a cui aggrapparsi.

Jarles lo fissò con disprezzo e proseguì senza rispondergli.

Le cripte erano quasi deserte. Le squadre d’assalto avevano setacciato l’intero Santuario alla ricerca dei Fanatici e adesso se ne erano andate per condurre i prigionieri al carcere generale del palazzo, che era separato da quella secondario in cui, prima di venire nominato Sommo Gerarca, Goniface rinchiudeva i suoi personali nemici.

Più Jarles si avvicinava al suo appartamento e più il suo disagio diventava acuto, insopportabile. Finché a un tratto, con suo grande orrore, il velo nero della colpa che opprimeva i suoi pensieri prese vita e gli sussurrò all’orecchio: — Mi senti, Armon Jarles? Mi senti? Sono la tua coscienza. Puoi scappare e tapparti le orecchie, ma non servirà a nulla. Non puoi chiudermi fuori. Non puoi fare a meno di ascoltare la mia voce. Perché questa è la tua voce. Io sono l’Armon Jarles che tu hai mutilato e rinchiuso in prigione, l’Armon Jarles che hai calpestato e negato. Ma, nonostante tutto, alla fine, io sono più forte di te.

Ma… orrore supremo! Quella non era la sua vera voce, ma soltanto una che le assomigliava moltissimo! Non poteva neppure appellarsi alla possibilità, terribile essa stessa, di spiegare quel fenomeno come un’allucinazione, una proiezione del suo inconscio. Era troppo reale, troppo viva. Sembrava la voce di un suo parente stretto, di un fratello mai nato.

Si fiondò all’interno del suo appartamento, come se avesse avuto tutti i demoni dell’Inferno alle calcagna. Con le mani che gli tremavano, si affrettò a riattivare la serratura della porta.

Ma dentro era ancora peggio.

— Non puoi sfuggirmi, Armon Jarles, perché dove sei tu sono anch’io. Sentirai la mia voce fino al giorno della tua morte e nemmeno nelle fiamme del crematorio ti libererai di me.

Non aveva mai odiato niente in vita sua quanto odiava quella voce nata dal nulla. Né aveva mai desiderato così intensamente rompere, squarciare, distruggere qualcosa. E mai si era sentito così disperatamente impotente.

Alcune immagini presero forma nella sua mente. Stava inciampando in mezzo ad antiche rovine, con la mano ossuta di Madre Jujy che gli stringeva il polso. Voleva urlare per richiamare l’attenzione dei suoi inseguitori, strangolare la vecchia strega, sfondarle il cranio con il suo stesso bastone. Ma non poteva.

Era seduto a un tavolo sommariamente sgrossato, intento a dividere una misera cena con i suoi genitori e i suoi fratelli. Aveva messo del veleno nei loro piatti e attendeva con impazienza che si decidessero a mandare giù il primo boccone, ma loro continuavano a gingillarsi senza ragione.

Si trovava nel laboratorio di Fratello Dhomas, ma adesso la situazione era completamente mutata. Una tenebra antropomorfa sedeva al posto del sacerdote, e streghe e stregoni dal sorriso perfido e demonietti chiacchierini azionavano i vari strumenti.

All’improvviso si ritrovò davanti a uno specchio, ma anziché rimirarvi la propria immagine riflessa, vide il cadavere rianimato di Asmodeo. E Asmodeo stava spiegando qualcosa a gesti: prima indicava Jarles, quindi il foro annerito sulla propria veste e poi ricominciava daccapo. E quando Jarles sentì che non avrebbe potuto sopportar oltre quella visione, Asmodeo si fermò… Ma subito dopo la minuscola testa del suo demonietto, sparuto, grigio e coperto di sangue, fece capolino dal foro annerito e cominciò a ripetere i gesti del suo padrone.

L’odio di Jarles per la vita, per tutto quanto lo circondava, crebbe a dismisura. Si rese conto che, se agiva con determinazione e sufficiente astuzia, un uomo da solo era in grado di annientare l’intera razza umana, salvando soltanto se stesso. Si poteva fare. I modi erano molti.

Con uno sforzo supremo, si guardò attorno. Per un attimo la stanza gli sembrò deserta. Poi, acquattato sul piano lucido della scrivania, fra il proiettore e le bobine sparpagliate dei nastri di lettura, vide una bestia schifosa, un demonietto dal pelo scuro che lo fissava intensamente, il muso affilato e senza naso una copia miniaturizzata del suo volto.

Jarles si rese subito conto che era quella creatura la causa del suo strazio, i suoi pensieri quelli che, per via telepatica, martellavano nella sua testa e torturavano la sua mente.

E, con altrettanta prontezza, decise di ucciderla. Non con il raggio dell’ira, perché le sue capacità intellettive si erano ormai ridotte a uno stadio troppo primordiale: l’avrebbe strangolata con le sue mani.

Jarles si diresse verso il tavolo; pur vedendolo avvicinarsi, la creatura non si mosse. Ma disubbidendo ai suoi comandi, le sue gambe si muovevano a una lentezza esasperante, come se, all’improvviso, l’aria fosse diventata di gelatina. E mentre avanzava, trascinando faticosamente i piedi, un’ultima immagine prese forma nella sua mente.

Era completamente solo, in cima a una piccola collina, in mezzo a una valle piatta, desolata e grigia. Lui era l’unica creatura vivente e fra le mani stringeva un fulmine di guerra. Tutt’intorno, a perdita d’occhio, la terra era ricoperta dalle tombe delle specie che lui aveva annientato, o forse dalle tombe degli uomini e delle donne di ogni età, che avevano sofferto e combattuto ed erano morte invocando la libertà, cercando qualcosa di più di quello che offriva loro una società invidiosa, conservatrice e stolta.

E lui aveva molta paura, benché ormai non ci fosse più nulla in grado di minacciarlo. E continuava a domandarsi se l’arma su cui poggiava le dita sarebbe stata abbastanza potente.

Solo pochi passi lo separavano ormai dalla scrivania. Le sue mani erano protese in avanti come grinfie di marmo. L’odiosa creatura continuava a scrutarlo. Ma fra di loro si intromise ancora una volta quell’oscura visione.

All’improvviso, la distesa desolata che circondava la collina cominciò a tremare e a sussultare, come se fosse stata squassata da un terremoto, con la sola differenza che il movimento era più generale e meno violento; come se milioni di talpe stessero scavando il terreno contemporaneamente. Poi, qua e là, la terra grigia si spaccò e dalle crepe, profonde e buie, emersero forme scheletriche ricoperte di carne putrescente e di brandelli sudici di sudario. Il loro numero aumentava, aumentava sempre di più, fino a quando, schierate come soldati, presero a marciare da ogni lato verso la piccola collina, scrollandosi di dosso la terra grigia.

E lui ruotava freneticamente il suo fulmine di guerra da ogni lato. I soldati crollavano al suolo a decine, a centinaia, come grano marcito, cedendo a una seconda morte. Ma sopra di loro, attraverso il fumo dei loro cadaveri in fiamme, centinaia di altri continuavano ad avanzare. E lui sapeva che a migliaia di chilometri di distanza, molti di più stavano uscendo dalle tombe per marciare su di lui, fino dagli estremi confini della terra.

Ancora un passo soltanto e le sue mani avrebbero potuto finalmente serrarsi attorno alla gola scarna. Un passo soltanto.

Ma i soldati continuavano ad avanzare, marciando in ordine perfetto, e il fetore delle loro ossa bruciate oscurava il cielo plumbeo e lo soffocava. Adesso i caduti formavano un grande cerchio, più alto della piccola collina e lui doveva puntare il fulmine di guerra verso l’alto per abbattere le sagome che con passo leggero facevano capolino sulla cresta… tranne quando doveva abbassarlo rapidamente per finire uno scheletro mezzo carbonizzato che, sopra il mucchio di ossa, cercava ancora di trascinarsi verso di lui.

Era arrivato alla scrivania. Le sue mani di marmo stavano per stringersi attorno alla sua nera caricatura.

Ma anche l’esercito degli scheletri si stava stringendo attorno a lui. In ondate continue, incessanti. E lui sudava, ansimava e soffocava.

Ogni volta che girava il fulmine di guerra, le schiere dei soldati che falciava erano sempre più vicine. E alle sue spalle, uno scheletro annerito era riuscito a trascinarsi fino a lui e a ghermirgli debolmente la caviglia con le falangi carbonizzate.

Le sue mani si chiusero intorno alla gola dell’obbrobrio peloso. Ma era come se portasse un collare di plastica trasparente… le sue dita non riuscivano a toccare il suo pelo nero. Ancora un ultimo sforzo…

Ma mentre l’ennesima falange di scheletri si disintegrava davanti alla bocca della sua potente arma, mani fatte di ossa lo afferrarono alle spalle e, in un parossismo di terrore e di supremo rimorso, Jarles urlò: — Mi arrendo! Mi arrendo!

In quello stesso istante, una scossa più forte di qualsiasi scarica elettrica straziò i suoi nervi. Il suo cervello rimbombò, si contorse e vibrò. La nausea gli serrò la gola.

La sua mente prese a vorticare come una trottola impazzita per poi arrestarsi all’improvviso, come se qualcuno gli avesse sferrato una violento colpo alla testa, stordendolo.

Fu sul punto di perdere conoscenza, ma non svenne. I fili sottili della memoria si tesero fino al punto di rottura, ma non si spezzarono. I suoi occhi, che si erano serrati nel momento supremo, si riaprirono.

Era Jarles. Il vecchio Jarles. L’Armon Jarles che da solo aveva sfidato la Gerarchia.

Ma quella scoperta non gli procurò alcun sollievo. Anzi, segnò l’inizio di un nuovo tormento, ancor più straziante di quello che aveva appena sopportato. Perché la sua memoria era intatta. Ricordava perfettamente ogni azione compiuta dalla sua seconda personalità: il tradimento della Stregoneria, il rapimento di Sharlson Naurya, lo scherno con cui aveva umiliato l’Uomo Nero e, sopra ogni altra, l’uccisione di Asmodeo. Lui aveva compiuto quelle azioni. Lui ne era responsabile.

Con il respiro strozzato dall’incredulità e dall’orrore, allontanò immediatamente le mani dalla gola del piccolo demone e si aprì la veste, pronto a dirigere contro se stesso il Dito dell’Ira.

Ma nemmeno quella liberazione gli fu concessa.

— Prima devi espiare, Armon Jarles! Devi espiare! — lo riprese severamente la voce. — Devi prima riparare alla tua colpa.

In quello stesso istante, un secondo demonietto si arrampicò agilmente sulla scrivania. Aveva il pelo ramato e i tratti distorti del suo musetto affilato ricordavano quelli dell’Uomo Nero. Anche la sua voce era un’eco stridula di quella del suo gemello.

— Sono Dickon, Armon Jarles. Sono io che ti ho parlato attraverso la mente del tuo fratellino, seguendo le istruzioni di mio fratello grande. Le nostre tre menti sono state in contatto.

“Ma non c’è tempo da perdere. Devi salvare mio fratello. Devi farlo uscire subito dalla sua cella!

Un terzo demone balzò sulla scrivania e, a quel punto, la sconcerto di Jarles fu totale. La terza creatura, color della pece, assomigliava in modo inequivocabile a Goniface.

Per un attimo, nella sua mente balenò il pensiero che, per qualche incredibile sortilegio, tutte le creature viventi fossero state trasformate in minuscoli fantocci pelosi e che lui, l’unico uomo rimasto, fosse loro prigioniero e loro schiavo, un gigante costretto a eseguire i loro ordini.

— Svelto! Svelto! — lo sollecitò Dickon, tirandogli la veste. Jarles obbedì e, dopo pochi istanti, stava già divorando a lunghi passi i corridoi grigi e tetri delle cripte. Qualche persona superstiziosa delle epoche passate l’avrebbe facilmente scambiato per uno zombie, tanto cereo era il suo volto, tanto risoluto il suo sguardo e rigidi e meccanici i suoi movimenti.

Oltre le spesse sbarre metalliche dell’imponente porta che dava accesso alla prigione secondaria, il capo-carceriere lo scrutò e, quando riconobbe in lui uno dei principali agenti di Goniface, lo fece entrare. La porta scivolò di lato, e appena Jarles ebbe varcato la soglia, si richiuse rapidamente alle sue spalle. Jarles si voltò verso il gabbiotto. Il secondino aprì la bocca per chiedergli che cosa desiderasse, ma prima che riuscisse a finire la frase, Jarles aveva già puntato contro di lui e il suo aiutante il raggio paralizzante.

Quindi si protese in avanti e da una minuscola scatola quadrata, che il secondino portava legata alla cintura, estrasse l’attivatore delle serrature.

Il secondino rimase immobile, come una statua di cera, le labbra dischiuse a formulare una domanda che restò muta. Dietro di lui, il suo aiutante rimase seduto a fissare il vuoto, un sopracciglio inarcato in un’espressione di spontanea curiosità.

In fondo al corridoio, Jarles si diresse verso l’unica cella visibile dal gabbiotto. I due diaconi che la piantonavano avevano assistito alla scena, ma ne avevano male interpretato il significato. Riconobbero il sacerdote del Quarto Circolo che si stava avvicinando; era già venuto parecchie volte a sostenere sarcastiche conversazioni con il loro prigioniero. Così, finsero un’espressione di ossequioso rispetto, e in quell’atteggiamento furono raggelati dal raggio paralizzante.

Quindi Jarles azionò l’attivatore e, sbloccata dalle emanazioni elettriche, la serratura si aprì.

La porta della cella scivolò lentamente di lato. Dapprima si vide solo una mano: una mano che si appoggiava incerta la parete metallica, come se la persona a cui apparteneva stesse cercando di farsi forza per affrontare una terribile delusione. Poi, a poco a poco, si palesò l’intera figura.

Le ferite fisiche e la tortura psicologica avevano duramente provato l’Uomo Nero. Era molto pallido e il suo corpo smagrito si perdeva nella sua tunica grigia di prigioniero. Aveva la mente annebbiata e la sua capacità intellettiva era ridotta ai lumicino. Quando vide Jarles pensò che fosse venuto per farsi beffe di lui, una volta di più; e lo sguardo freddo e spento del sacerdote sembrava confermarlo. Inoltre, le guardie erano sedute fuori al loro posto, come al solito.

— Ho ucciso Asmodeo — disse Jarles e per l’Uomo Nero quelle parole suonarono come una sentenza di morte. Con la forza della disperazione, fece appello alle poche energie che gli restavano per tuffarsi verso il corridoio. La sua mente vacillò… Doveva mettere fuori gioco Jarles… doveva impadronirsi di una verga dell’ira…

Poi, un’ombra color del rame che correva verso di lui e, prima ancora di rendersi conto di quel che stava accadendo, Dickon gli stava pizzicando gentilmente il viso, appeso alla sua tunica.

— Fratello, oh fratello — cinguettava la vocina sottile. — Dickon ha eseguito i tuoi ordini. E adesso il fratello di Dickon è libero, libero!

E mentre lui cercava di afferrare il significato di quelle parole, udì Jarles ripetere, con lo stesso tono formale di poco prima, come se stesse rendendo testimonianza di fronte a un tribunale della Gerarchia: — Ho ucciso Asmodeo…

L’Uomo Nero non riusciva a capire. Per un attimo si domandò se non si trattasse di uno stratagemma di Fratello Dhomas per farlo uscire definitivamente di senno. Ma poi Jarles aggiunse: — …che, come tu sai, era l’arciprete Sercival, il capo dei Fanatici.

L’Uomo Nero scoppiò a ridere, come gli avessero appena raccontato una barzelletta stupida, ma divertentissima. Poi, all’improvviso, si portò una mano alla bocca, senza quasi accorgersi che già Dickon gli aveva appoggiato una zampa sulle labbra, per farlo tacere. L’Uomo Nero lanciò a Jarles un’occhiata incredula.

— E le altre streghe catturate… — chiese.

— Sono ancora qui in prigione.

Pochi attimi dopo, Jarles stava di nuovo percorrendo a grandi passi il corridoio del carcere. Accanto a lui camminava una figura vestita da diacono, il volto nascosto da un cappuccio nero, fra le mani una verga dell’ira.

A un certo punto, il corridoio piegava ad angolo retto. Si trovarono davanti a una linda fila di celle, ciascuna piantonata da una coppia di diaconi. Jarles e l’Uomo Nero percorsero lentamente tutto il corridoio, camuffando con il rumore dei passi il debole sibilo del raggio paralizzate. Le ultime tre coppie di guardie si resero conto del pericolo quando ormai era troppo tardi: rimasero pietrificate nell’atto di allungare la mano verso il muro, al quale avevano appoggiato le verghe dell’ira. In realtà, gli ultimi due diaconi erano riusciti ad afferrarle e stavano prendendo la mira per colpirli, ma in quella posizione furono raggelati.

L’Uomo Nero si tolse il cappuccio.

Dalla parte opposta del corridoio si aprì una porta. Ne uscì Cugino Deth. Con una rapidità quasi impensabile per un essere umano, diresse la sua verga dell’ira contro l’Uomo Nero e Jarles.

Ma la velocità di reazione di un demone era di gran lunga superiore a quella di un uomo e, con uno scatto fulmineo, Dickon si precipitò verso di lui.

La faccia giallastra di Cugino Deth si contorse in una smorfia di paura, come soltanto un’altra volta gli era accaduto prima di quel giorno: quando era fuggito in preda al panico dalla casa stregata. — La cosa nel buco! — urlò. — Il ragno! il ragno!

Ma subito dopo si rese conto che la sua paura era infondata e diresse il raggio viola contro Dickon.

La sua momentanea incertezza, però, aveva permesso all’Uomo Nero di passare al contrattacco. Azionò il proprio raggio dell’ira, riuscendo a intercettare quello di Cugino Deth, e poiché i due raggi si annullavano a vicenda, Dickon riuscì a dileguarsi indisturbato.

Quindi, come due antichi spadaccini, lo stregone e il diacono si batterono a duello. Le loro armi erano due lame infinite di violenta incandescenza, ma la loro tecnica quella di due schermitori: finta, fendente, parata, risposta rapida. Lingue di fuoco devastarono il soffitto, i muri e il pavimento. Alcuni dei diaconi paralizzati, simili a spettatori ammutoliti dallo stupore, morirono avvolti dalle fiamme nella posizione in cui il raggio di Jarles li aveva sorpresi: chi seduto, chi in piedi, chi chinato.

Lo scontro fu breve. Al termine di un abile disimpegno, la lama di Cugino Deth fendette la tunica dell’Uomo Nero, sotto il braccio. Ma lo stregone parò il colpo in tempo, e subito dopo, fece una finta e poi un’altra e la faccia giallastra e la fronte pronunciata di Cugino Deth cessarono di esistere.

Schivando i raggi della verga che era scivolata dalla mano del diacono, l’Uomo Nero si precipitò in avanti, spegnendo entrambe le armi.

Quindi, si rivolse a Jarles, che per tutta la durata del combattimento era rimasto immobile, contro il muro, invocando la morte, e gli ordinò di aprire le celle.

Ma l’Uomo Nero non perse tempo a parlare con le streghe e gli stregoni che uno dopo l’altro si affacciarono straniti sul corridoio, come fantasmi richiamati dall’aldilà. Non rivolse la parola nemmeno a Drick, che si limitò a salutare con un rapido cenno del capo. La sua principale preoccupazione in quel momento era quella di ottenere da Jarles, che sembrava ipnotizzato, un rapido resoconto degli ultimi avvenimenti che avevano sconvolto Megateopoli.

Jarles stava aprendo l’ultima cella. Lo stregone notò che lo sguardo fisso del prete due volte rinnegato si stava progressivamente rannuvolando, come se si stesse riprendendo dagli effetti di un potente narcotico.

Esitando, con la dolorosa fatica di un uomo che si rende conto delle gravi colpe alle quali deve riparare, Jarles disse: — Posso condurti al luogo in cui sono tenuti prigionieri i Fanatici. Possiamo cercare di liberarli e di espugnare il Santuario.

L’Uomo Nero fu tentato di accettare: il duello con Deth l’aveva messo nello stato d’animo giusto per lanciarsi in una simile avventura.

Ma le verghe dell’ira non erano le armi delle streghe, disse a se stesso. Asmodeo aveva puntato tutto sulla paura, ed era unicamente attraverso la paura che la Stregoneria avrebbe vinto anche quella battaglia.

Jarles parlò di nuovo. L’Uomo Nero ebbe l’impressione che stesse dolorosamente cercando di risolvere un profondo dilemma interiore. — Se lo desideri — disse — tenterò di assassinare il Sommo Gerarca Goniface.

— Assolutamente no! — gli rispose lo stregone, chiedendosi se l’uomo che aveva dinanzi fosse nel pieno delle sue facoltà mentali. — Sono previste azioni di tutt’altra natura contro di lui. Se solo sapessi che ne è stato di Sharlson Naurya…

— È rinchiusa nel mio appartamento, sotto l’effetto del raggio paralizzante. — disse Jarles cupamente.

L’Uomo Nero lo fissò. Solo in quel momento cominciò a capire quale incredibile alleato avesse trovato in Jarles. Poi rise, la breve risata di un uomo che d’un tratto si rende conto come, a volte, l’incredibile e l’inevitabile coincidano. Doveva fidarsi di lui: quella notte Jarles sarebbe stato la personificazione del cieco destino.

— Ritorna al tuo appartamento — gli ordinò. — Sveglia Sharlson Naurya. Dille che procediamo con l’operazione contro Goniface come stabilito. Aiutala a raggiungere le stanze del Sommo Gerarca senza che nessuno la scopra. Porta con te il tuo demone e quello di Goniface.

Detto questo si voltò e con un cenno della mano fece segno alle streghe e agli stregoni di seguirlo.

Загрузка...