Capitolo sesto

Il diario di Zsuzsanna Dracul


17 maggio. Quando andai da sola nella camera di Harker, questa mattina — Elisabeth se ne era andata di nuovo, senza spiegazioni — trovai, con mio diletto, che la mia suggestione ipnotica su di lui aveva funzionato, in un certo senso. Stava ancora scrivendo in stenografia sul suo diario, ma aveva cominciato a trascrivere tutto quanto in inglese su della pergamena che aveva, apparentemente, portato con sé per spedire lettere. Aveva cominciato con la registrazione più recente, quella del 16, e io provai un certo divertimento nel constatare il suo punto di vista su quello che era accaduto la notte del 15 maggio.

Evidentemente si era fissato con Elisabeth, perché non parlava d’altro se non della “ragazza bionda” e della sua massa ondulata di capelli d’oro. Lei aveva preso il posto di Dunya nella sua memoria lacunosa, e aveva impiegato una straordinaria quantità di tempo a descriverla e a sottolineare lo sfogo di rabbia “del conte”. Piuttosto insultante, in realtà, ma da dove aveva preso tutta quella faccenda su «non ami mai»? Tutta fantasia.

Ma il peggiore insulto arrivava dalla registrazione del giorno precedente, una registrazione che doveva stare scrivendo quando Dunya e io lo avevamo sorpreso nel nostro salotto. Mi sono così infuriata che l’ho mandata a memoria:

«Eccomi qui: siedo a un piccolo tavolo di quercia dove, nei tempi antichi, forse qualche bella signora si sedette a scrivere, con molta riflessione e molti rossori, la sua lettera d’amore piena di errori…».

Piena di errori? Piena di errori? Signore, ho evitato di insultare i vostri pietosi tentativi di prosa poetica, né vi ho ripreso nel mio diario per la vostra ortografia scorretta. Mi offendo per l’insinuazione che le donne Tsepesh (o Dracul, o rumene, per quello che importa) non fossero istruite o che perdessero tempo ad arrossire sopra sciocche lettere d’amore. Mia madre, signore, fu una rinomata poetessa, e io da sola posseggo più abilità letteraria di quella che voi e tutti i vostri futuri discendenti insieme possiate mai osare sperare di avere. Non ho mai fatto un errore di ortografia in tutta la mia vita.

Piena d’errori, ma senti!

Riguardo a quello sciocco Mr. Harker, gli diedi un morsetto e bevvi appena il sangue sufficiente ad allontanare la fame; questa volta, evitai ogni rapporto sessuale, poiché avevo ben poco di quel tipo di appetito dopo la lunga e strana notte passata con Elisabeth, Dunya, e il bambino sordo.

Quando ebbi bevuto (molto meno della quantità sufficiente a saziarmi), lasciai Harker e vagabondai nel corridoio. Ero piena di inquietudine, poiché sentivo fortemente la necessità di dire a Elisabeth che non potevo attendere più a lungo di andare a Londra. Ma non riuscii a trovarla in nessun luogo del castello, tranne che nell’unico posto in cui temevo di cercare: le stanze di Vlad.

E se lei avesse ancora rifiutato di lasciare questa prigione, mi ero decisa a tentare quello che, finora, non avevo mai osato nemmeno pensare: uccidere Vlad con il palo. Sì, lui mi aveva detto che i Vampiri non possono uccidersi direttamente l’uno con l’altro, ma lui era riuscito a uccidere mio fratello scagliandogli contro un palo.

Perché non avrei dovuto fare lo stesso con lui? Con la presenza di Elisabeth, ero arrivata a comprendere che ero forte abbastanza da fronteggiare persino l’Impalatore. «Se io sarò distrutto, tu sarai distrutta», mi aveva sempre detto, ma ora io so nel mio cuore che è una menzogna.

Ma prima di poter entrare nel suo inner sanctum, avevo bisogno di rendermi invisibile, di non fare rumore perché, anche nel sonno più profondo, Vlad era capace di sentire il pericolo e di vendicarsi. Così, facendo attenzione, effettuai i necessari procedimenti mentali e le litanie poi, quando mi sentii sicura che non avrebbe potuto scoprirmi, andai.

Salii le scale, muovendomi con tanta rapidità e leggerezza che i miei piedi non toccavano letteralmente il pavimento. Presto arrivai alla grande porta di quercia e ferro e la trovai chiusa a chiave dall’interno; da dentro non proveniva alcun suono. Invece di rompere con la forza il chiavistello e spalancare la porta — cosa che ora potevo fare facilmente ma che avrebbe anche avvertito Vlad della mia accresciuta forza — scelsi piuttosto la circospezione, e restrinsi il mio corpo per passare attraverso la fessura ed entrare nella grande stanza, che era costruita sul modello della sala privata del trono del Principe di Valacchia.

Lì, a ovest, c’era il Teatro di Morte, dove i ferri neri ornavano una parete macchiata di sangue, e le orrende catene della “strappata” (dalle quali una vittima avrebbe potuto dimenarsi, sospesa a mezz’aria) pendevano dal soffitto. Sotto di esse c’era una grande vasca di legno, con l’esterno di quercia ma l’interno del colore del mogano rosso, un’eredità lasciata dal suo precedente contenuto.

Al di là c’era un grande tavolo da macellaio, con la superficie logora e intaccata dai colpi di innumerevoli lame. Questa, a sua volta, era ricoperta da una fila di coltelli di misure e forme diverse e da una di aguzzi pali di legno, alcuni larghi quanto il braccio di un uomo folte e più lunghi di me, altri più corti e sottili, destinati a usi più delicati. Nei giorni felici prima della nascita di Van Helsing, tutto ciò veniva usato per liberarsi degli ospiti morti, in modo da evitare che diventassero dei concorrenti.

Questi strumenti non erano utilizzati da lungo tempo, ma io non ebbi dubbi che rappresentassero il destino che si prospettava per il nostro inglese, senza badare alle false asserzioni di generosità che Vlad aveva pronunciato.

Mi avvicinai ad essi, tentata di armarmi subito e di varcare la piccola porta alla mia sinistra dove mio zio dormiva (questo lo sentivo al di là di ogni dubbio), nella speranza di compiere quell’azione azzardata prima che la mia decisione svanisse completamente, ma un movimento lieve e appena percettibile sulla parete opposta della stanza catturò la mia attenzione.

Doveva essere Elisabeth, ne ero convinta, anche se, quando guardai con attenzione nella direzione del movimento, non vidi e non udii nulla… nulla salvo il trono dell’Impalatore, la predella di legno sul quale esso poggiava, e i tre scalini con, inciso in oro, il motto JUSTUS ET PIUS. Ma sapevo che lei era là, invisibile e impercettibile come me, ma anche la magia più forte non è potente quanto l’amore.

Guardavo con occhi pieni d’amore mentre attraversavo lentamente la grande stanza dell’Impalatore, avvicinandomi centimetro dopo centimetro finché scoprii i confini del suo incantesimo. In un istante fui a parecchi metri di distanza dalla predella e non vidi nulla tranne quello che ho descritto prima. Ma un passo ancora — un solo passo esitante — e l’aria cominciò a vibrare e a offuscarsi come nuvole in una forte tempesta; poi, come un velo, essa si alzò mostrando la mia Elisabeth.

Davanti al grande trono, aveva eretto come altare un doppio cubo di lucida onice. Intorno a questo aveva disegnato un cerchio, sul cui confine mi ero imbattuta, aprendo così gli occhi a quel segreto rituale.

Vestita di un semplice abito nero, come una sacerdotessa, con i capelli dorati che le scendevano sciolti sulla schiena, Elisabeth alzò le braccia in una V davanti all’altare, sul quale si trovavano gli stessi strumenti che avevo visto su quello di Vlad: un pentacolo, un pugnale, una coppa e una candela.

E c’era un bambino morto e coperto di sangue che giaceva accanto a ciocche di capelli color indaco.

Ciocche di capelli miei, compresi con un improvviso brivido di orrore. Ciocche dei miei capelli… e di quelli di Dunya, poiché riconobbi il mio colore scurissimo, dai riflessi blu, e quello di Dunya, dai riflessi rossi. Che tipo di malvagità intendeva compiere contro di noi? E cosa avevamo a che fare con il bambino morto?

Questo non riuscii a capirlo giacché, mentre si voltava verso ovest — ossia verso di me — intonò delle parole in una lingua bizzarra che non suonava come una lingua terrena che potessi riconoscere; ma, a prescindere dalla lingua, ero in grado di riconoscere il mio nome e quello della mia serva. E furono quelli che udii.

Se non fossi stata spaventata dai suoi poteri e dalla sua ira, avrei rotto il cerchio e mi sarei fatta avanti per chiedere subito una spiegazione, invece rimasi sul perimetro e guardai, cercando di accertare lo scopo di quel rito anche se sapevo di non poterlo fare. Ma qualcosa — o forse qualcuno — mi costrinse a rimanere.

E poi vidi Lui.

Elisabeth aveva finito con le sue litanie e ora attendeva, le mani incrociate sul petto come una penitente, e la testa china. A sua insaputa, dietro di lei, torreggiante come un titano…

Come devo descriverLo? Era del tutto scuro, come un’enorme ombra gettata da una lampada, ma che sembrava del tutto solida. Non riuscii a vedere la Sua faccia o i Suoi lineamenti, eppure aveva entrambi, poiché vidi che mi sorrideva. Né aveva gli occhi, ma io guardai ugualmente dentro di essi. Lui mi conosceva. Mi sorrideva e mi conosceva. E allora seppi, in quel momento, che Lo avevo sempre conosciuto, e non provai paura perché, nel guardare nei Suoi occhi, vidi accettazione, compassione e, di fatto, amore. Un tale amore che vi fui risucchiata, tirata come da una corrente in una oscurità infinita, in una luce infinita, nei Suoi occhi. Poiché Lui e io eravamo il Nulla e Ogni Cosa, l’esistenza e l’annichilimento, il pensiero e la spensieratezza tutto insieme, e tutte le cose e nessuna cosa allo stesso tempo. Quella era un’estasi che andava molto oltre ogni soddisfazione e desiderio fisico e mentre, adesso, vi rifletto sopra, posso onestamente dire che se la Morte fosse uno stato del genere, mi ucciderei con gioia.

Poi tutta la consapevolezza svanì, e caddi in uno stato di incoscienza svegliandomi un po’ di tempo dopo per ritrovare Elisabeth, l’altare e… poteva mai essere l’Oscuro Signore? No! Un Arcangelo, invece, capace soltanto della magia più bianca poiché, quando avevo udito dell’Oscuro Signore e di Vlad che era in riunione con Lui, esso portava solo paura. Ma quella creatura… quella oscura e buona creatura… Posso solo fare congetture. Sono fuggita nella mia stanza e ho scritto tutto, per evitare che il tempo faccia svanire dalla mia memoria quel potente incontro. Per adesso, non ho ancora visto Elisabeth, e ho paura; se lei si è accorta di me dopo il mio svenimento, allora, senza dubbio, sarà nuovamente furiosa.

Ma io devo sapere cosa sta per fare. Se mi vuole tradire, allora la mia morte è comunque assicurata, e io potrei anche affrontarla rapidamente piuttosto che indugiare nell’agonia del dubbio.


19 maggio. È morta, è morta! Come può essere? Come può un essere immortale venire ucciso, tranne che per mano di un essere vivente?

La mia mano trema a tal punto che temo di far cadere la penna, poiché capisco che io stessa non sono più al sicuro.

Oggi mi sono recata alla sua bara, piena di preoccupazione perché il giorno dopo la morte del bambino sordo — il sedici — Dunya, ancora sazia e assonnata, era strisciata via dal letto di Elisabeth fino alla sua piccola bara nelle stanze della servitù e aveva chiuso il coperchio con un tonfo sordo e pesante.

Non è insolito per un Vampiro che si sia riempito dopo una lunga privazione dormire per un giorno, una notte e un altro giorno, per poi rialzarsi fresco e rinvigorito; l’ho fatto io stessa molte volte. Così, quando Dunya non si alzò affatto la notte del sedici, non me ne preoccupai, e quando non riemerse il diciassette, mi dissi: «Si sta godendo un lungo e profondo riposo e, quando la vedrò domani, avrà un aspetto più giovane e forte di quello che ha avuto da decenni».

Il diciotto non si alzò.

«Non aver paura», disse Elisabeth, cercando di confortarmi (non ha mai fatto parola della mia apparizione al suo rito; posso solo supporre che il mio incantesimo per rendermi invisibile abbia avuto successo e che io non sia stata scoperta, poiché, da allora, lei è stata sempre gentile con me). «Dunya è immortale. Chi può farle del male?».

Chi poteva, in effetti?

Questa mattina ho lasciato Elisabeth che dormiva, e sono andata un’ora prima dell’alba nelle tranquille stanze di Dunya. Come sembrava scuro e malinconico lì; dall’esterno proveniva il dolce e alto canto di un usignolo solitario, ma quel mattino sembrava particolarmente lugubre.

Rimasi per un momento nel salotto dove avevamo incontrato il signor Jonathan Harker; i miei timori mi impedivano di andare direttamente nella camera da letto. Il divano si trovava ancora dove l’inglese l’aveva messo: davanti a una grande finestra. Stava lì, di fronte alla foresta, alle montagne, e a profondi burroni che lentamente emergevano dall’oscurità nella pallida e grigia luce dell’alba.

Poi mi feci forza ed entrai nella stanza più interna dove Dunya giaceva nella sua bara chiusa. E, nell’istante in cui oltrepassai la soglia, ebbi una spaventosa rivelazione: Dunya non era lì, non c’era affatto! Ero sempre stata in grado di sentire la sua gentile presenza, poiché lei era del tutto ignorante della magia e dei metodi di autoprotezione (questo a causa dell’insistenza di Vlad).

Per un attimo, mi sentii sopraffatta dall’irrazionale speranza che Elisabeth le avesse, finalmente, conferito dei poteri, che fosse riuscita in qualche modo a fuggire dal castello; ciò fu accompagnato da un terrore altrettanto irrazionale ma vago… vago perché la mia mente non avrebbe permesso l’ammissione di ciò che temevo di trovare. Consumata da quelle due incompatibili emozioni, mi avvicinai alla piccola bara e aprii di scatto il coperchio.

Ossa e polvere!

Ossa e polvere: il suo piccolo e delicato teschio era dell’avorio più chiaro, senza più alcun resto di occhi o pelle, sebbene una lunga e sciolta ciocca di capelli rossicci risaltasse contro il raso bianco sottostante, dal collo alla vita. Era come se fosse veramente morta — come un essere mortale — venti anni prima, e il suo cadavere fosse stato lasciato esposto agli elementi sotto un sole spietato. Il teschio si era staccato dalle ossa del collo e posava sulle ossa della mascella superiore (l’inferiore si era disintegrata), quasi perpendicolare alle secche ossa ingiallite degli arti e del busto. Le braccia erano incrociate sopra le ossa del petto e le costole apparivano in modo ordinato, come se fosse stata sistemata per un funerale, ma le ossa delle gambe si erano staccate e giacevano scomposte.

Penso che gridai; devo aver gridato, sebbene quanto forte e per quanto tempo non so dirlo, poiché tutta la paura scomparve e conobbi soltanto un dolore isterico. E, mentre gridavo, il mio respiro mosse la polvere nella bara — adesso veramente diventava il luogo dell’eterno riposo — facendo sì che si alzasse nell’aria e volasse come la cenere incandescente della pergamena bruciata.

Respirai quelle ceneri, tossii, e piansi a causa loro; per la verità, m’infilai nella bara e strinsi quelle ossa, le baciai, le battezzai con le mie lacrime.

Dolce serva e amica! Leale e discreta compagna! Ricordo con dolore ogni azione che ho commesso contro di te, e so che, adesso, ho mancato al mio obbligo di proteggerti…

Non mi disperai a lungo da sola; nel mezzo dei miei singhiozzi, sentii una calda mano toccarmi la spalla. Sopra di me c’era Elisabeth, con gli occhi che le brillavano per le lacrime, e un’espressione di terrore, shock e pietà. Era nuda, e i suoi capelli aggrovigliati le ricadevano sciolti sulle spalle; sembrava che avesse udito i miei lamenti e si fosse alzata di furia dal letto.

«Zsuzsanna, mia cara!». La sua voce era bassa, più delicata e tenera di quanto l’avessi mai udita, ma io ero troppo piena di dolore e ira per crederle. «Mia cara, cosa è accaduto? Oh, ma questa non può essere… È la povera Dunya?». Immediatamente cadde in ginocchio accanto alla bara e imprecò: «Che sia dannato! Che sia dannato.

Mi voltai e mi misi seduta di scatto, piena di una rabbia abbastanza intensa, forte abbastanza da distruggere l’intero mondo. Non mi importava se offendevo lei, o Vlad, o l’Oscuro Signore, anche se Lui era il Demonio in persona; non mi importava se l’istante seguente anch’io sarei stata ridotta a un mucchio di ossa e polvere. Inveii, volendo soltanto che lei soffrisse come soffrivo io in quel momento.

«Tu lo sai! Sei tu quella che l’ha uccisa! Io ti ho dato fiducia… ti ho dato fiducia, ma ora…».

Un lampo di rabbia passò sul suo viso, ma fu solo un lampo; si controllò immediatamente e rispose, con un’espressione di infinito dolore e tristezza:

«Zsuzsa, dolce Zsuzsa, come puoi dirmi questo? Come puoi pensare che io abbia voluto fare del male alla tua amica e causarti una tale sofferenza? Tu sei la prima nel mio cuore, e io non ti tradirei mai… Tutto questo è opera di Vlad!».

Non volevo accettarlo; era tutta una recita, una recita a cui io ero stata tanto sciocca da credere.

«Tu l’hai uccisa, allo stesso modo in cui intendi uccidere me! Ti ho visto celebrare il rito; ho visto i capelli di Dunya e i miei sul tuo altare. Ho visto l’Oscuro Signore…».

A queste due ultime parole, le sue sopracciglia si sollevarono bruscamente e il suo sguardo divenne intenso, feroce, chiaro come il diamante: non lo sapeva. Poi, lentamente, le sue sopracciglia dorate si abbassarono; la sua fronte ritornò liscia, e la sua intera espressione tornò a essere composta. Quando infine parlò, le sue parole erano misurate e attente.

«Se tu hai visto, allora sicuramente hai capito il fine del rito: ossia proteggere te e Dunya dal male. Mia cara, ci sono molte cose che non ti ho rivelato per paura di spaventarti. Vlad intende distruggerci tutte, e ci è voluta l’intera mia riserva di forza e di intelligenza per proteggere te. Lo ammetto, ti ho privilegiata rispetto a Dunya, la tua buona serva, la cui morte ti ha chiaramente spezzato il cuore. Il mio errore è stato quello di mettere intorno a colei che amo di più una speciale protezione», e a questo punto mi baciò la mano, chinandosi così che le sue calde lacrime mi caddero sulla carne, «e lasciarne solo una piccola parte per me stessa e per Dunya».

Cosa potevo dire davanti a una tale confessione? Mi misi in ginocchio a fatica, schiacciando inavvertitamente ossa secche e ruvide, e allungai le braccia verso di lei. Singhiozzando, ci abbracciammo.

«Ah, Zsuzsanna mia, mia Zsuzsa, mi dispiace di averti ingannata, ma l’ho fatto preoccupandomi che tu non avessi paura. Vlad è debole, sì, e io sono più potente… tranne per il fatto che lui ha studiato la magia due secoli più di me. Sia suo padre che suo nonno ascesero al trono con l’aiuto dell’Oscuro Signore, e io credo che lui abbia invocato quella potente entità di nuovo, sperando di sconfiggerci. Poiché lui ci teme e, qualunque cosa, o chiunque sia più forte di lui… e che lui teme, è costretto a distruggerla. Ecco come lui ripaga me, dopo che sono venuta a offrirgli aiuto… e te, che sei rimasta la sua leale compagna per cinquant’anni, nonostante ti abbia trattato in modo meschino».

Il suo sguardo era così gentile, così afflitto, e pieno di partecipe dolore, che il mio cuore fu trafitto da una nuova angoscia, quella della consapevolezza di averla ferita ingiustamente.

«Mi dispiace, mi dispiace», mormorai, rinnovando il pianto, e mi strinsi con più forza contro la sua calda pelle d’avorio, contro i morbidi capelli profumati che le cadevano come Godiva sulle spalle, sul seno e sul ventre. «Capisco… hai invocato l’Oscuro Signore per la protezione di noi tutte, ma tu devi avere la stessa protezione che ho io perché, se mi alzo e ti trovo distrutta», a questo punto feci un gesto verso il pietoso mucchio di ossa dietro di me, «morirò veramente di infelicità. Cosa devo fare per salvarti? Insegnamelo, e io verrò a patti con lo stesso Demonio!».

L’accenno di una smorfia si fece strada sul suo viso, e lei mi rimproverò con rapidità a bassa voce.

«Non Lo chiamare Demonio, Zsuzsanna; è così superstizioso e medievale». Immediatamente dopo, si raddrizzò e disse a voce più alta: «Non ti farò scendere a patti con Lui, cara. È troppo pericoloso, anche per quelli di noi che hanno una lunga pratica delle Arti Nere. È un negoziatore scaltro, e mercanteggia soltanto le vite e le vite dopo la morte; fin troppo rapidamente si impossesserebbe della tua anima».

«La mia anima? Che cosa ne deve fare, se non è il Diavolo?».

Lei abbassò gli occhi e, in un ovvio sforzo di distrarmi, disse:

«Vieni via da quelle ossa, cara: sono troppo lugubri!».

Quindi mi sollevò prendendomi per la vita con tanta facilità quasi fossi una bambina, e mi mise giù accanto a lei per spazzolarmi via dal vestito la polvere e i pezzetti di ossa. Distratta, spaventata, mi afferrai a lei che mi portò nel corridoio, e ritornammo verso la stanza che dividevamo.

Ma io ancora riflettevo sulla strana frase circa il suo Maestro; se Lui non era il Demonio, allora era Dio? Sicuramente Dio non si sarebbe abbassato a fare commercio di anime! Poiché il dolore aveva vanificato tutto il mio controllo della cortesia, domandai di nuovo:

«Perché la mia anima?»

«Una questione di parole», mi rispose, ma il suo sguardo era fisso in avanti, sulla sua destinazione, piuttosto che su di me; non potei fare a meno di sentire che desiderava disperatamente evitare del tutto l’argomento, come se fosse troppo spiacevole anche da prendere in considerazione. «Saresti assorbita. Annichilita. Divorata!».

È questo quello che Vlad ha fatto a Dunya? La sua anima è stata mangiata dall’Oscuro con gli occhi pieni d’amore?

Ma se ciò è quello che io sentii in Sua presenza — quel senso estatico del Nulla e del Tutto — allora non posso, come fa Elisabeth, temerLo. Se è lì che Dunya si trova, allora asciugherò le mie lacrime che ancora scorrono…

E desidererò con ardore raggiungerla.

Elisabeth non mi insegnerà nulla della conoscenza necessaria per contattarLo direttamente onde cercare la vendetta nei confronti di Vlad e un’uscita sicura per noi da questo castello. Ma io Lo troverò.

Lo troverò…


29 giugno. Niente da registrare per tutto questo tempo; il dolore ha fatto svanire la mia forza e la mia determinazione. Penso spesso ai defunti: i miei buoni madre e padre, i miei fratelli — Arkady e il piccolo Stefan — e la cara Dunya. Talvolta penso anche a tutte quelle povere anime i cui corpi e ossa giacciono a corrompersi in questo castello e nella vasta foresta circostante. Quanta morte e sofferenza da qualunque parte mi volti! La quantità mi sopraffa, permea la mia mente e il mio cuore…

Ma sono accadute così tante cose che le devo registrare prima che i dettagli sbiadiscano dalla mia memoria. Stanotte, per la prima volta in tanti mesi, la mia mente è diretta verso qualcosa di diverso dalla mortalità, verso un paese lontano che ho sempre desiderato vedere ma che sono arrivata a pensare non potrò mai farlo.

Circa un mese fa, degli tzigani arrivarono con i loro carri all’interno del cortile del castello e si accamparono lì. Era una giornata calda, e ancora più calda per gli zingari, dato che avevano deciso di cuocere il loro pasto di mezzogiorno: un capretto.

Così apprestarono un grande fuoco, vi misero sopra uno spiedo, e si sedettero intorno mezzi nudi, con i petti scoperti e le schiene all’aria che brillavano per il sudore.

La loro presenza era una prova lampante (sebbene io non ne avessi mai dubitato) che Vlad intendeva veramente lasciarmi qui poiché, quando Elisabeth e io cercammo di fare dei segni da una finestra a colui che sembrava il capo del gruppo, gli uomini risero in segno di disprezzo e ci ignorarono… proprio come ignorarono Mr. Harker, che gridava anche lui dalla sua finestra (ovviamente, lui è prigioniero come noi, sebbene fosse del tutto ignaro di aver a che fare con degli zingari. Lo sciocco gettò loro del denaro… che naturalmente quelli intascarono prima di andarsene).

«Fallo stare zitto!», ordinò Elisabeth, con gli occhi socchiusi per la frustrazione a causa degli ammiccanti ruffiani sotto di noi.

Come una schiava obbediente, corsi subito nella stanza di Harker e lo feci cadere in trance. Quando ritornai, trovai Elisabeth che si comportava come una parodia femminile di quegli uomini; appoggiandosi in modo seducente alla finestra aperta, con il vestito e la camicia entrambi aperti e tirati giù fino alla vita, scoperti i seni, cantava una canzone indecente nel dialetto degli zingari agli ammaliati osservatori sottostanti.

La mia prima reazione fu quella di essere un po’ gelosa del suo sfacciato mettersi in mostra davanti a quelle meschine e inaffidabili creature, ma la gelosia fu rapidamente sostituita dal divertimento per l’audacia di Elisabeth e le espressioni comiche sul volto degli zingari maschi.

Quella era la prima volta dalla morte di Dunya che venivo presa dal riso, e questo lo rese ancor più potente; chiudevo la bocca e mi mordevo la lingua nello sforzo di spegnere quella risata che mi montava dentro, ma tutto invano. La risata veniva, nonostante tutto; così rimasi un po’ arretrata rispetto alla finestra in modo da non essere vista, ma se da poter vedere sia Elisabeth che il suo pubblico adorante.

Il suo piccolo spettacolo raggiunse il suo intento; il capo degli tzigani si allontanò immediatamente dal suo posto davanti al fuoco — ordinando agli altri uomini di restare — e arrivò all’entrata del castello. Questa era, in apparenza, chiusa con il chiavistello dall’esterno perché, quando accorremmo per farlo entrare, udii lo strusciare del legno contro il metallo, e poi il risuonare di una spranga di legno che colpiva la pietra.

Sebbene fossimo costrette a restare all’interno, lui non ebbe difficoltà nel varcare la soglia; come un toro innamorato, gettò di lato la pesante porta e corse dritto verso Elisabeth e il suo seno nudo. Le afferrò i seni, uno con ogni mano e, con un allarmante disprezzo per la civiltà, la rovesciò all’indietro sul pavimento freddo.

Con mio stupore, lei non fece resistenza (sebbene avrebbe potuto facilmente resistere, facendolo cadere all’indietro come se avesse sbattuto contro una montagna). Invece si lasciò andare all’indietro ridendo e, quando lui le tirò su le gonne e la sottogonna, rise ancora di più, come se provasse il più grande divertimento, e si lasciò allargare le gambe nude.

Non era un uomo brutto — di fatto i suoi luccicanti capelli dal colore del carbone e il naso aquilino mi ricordarono un po’ mio fratello — ma c’era una volgarità nella sua faccia larga, nel corpo grassoccio e dal petto prominente, nella sua pelle olivastra e lucida e nei suoi baffi incerati ridicolmente lunghi, che trovai estremamente ripugnante.

Quando si aprì velocemente i pantaloni e cadde su di lei, penetrandola, gridando, e stringendo sempre i suoi morbidi seni con le sue grosse e rozze dita, l’intera scena mi colpì come se fosse nauseabonda, e distolsi lo sguardo, pensando di andarmene prima che mi chiamassero per essere la prossima.

Ma, in quel momento, Elisabeth circondò la faccia dello tzigano con le sue mani (così bianche e delicate in contrasto con le guance scurite dal sole) e con forza lo tirò a sé per un bacio. Dapprima lui fece resistenza: quegli sciocchi desideri femminili non dovevano essere soddisfatti, soprattutto non quelli di una puttana che lo aveva tanto sfacciatamente adescato lì per una e solo una cosa! Ma io vidi, di profilo, Elisabeth aprire gli occhi mentre premeva appassionatamente le labbra su quelle di lui, e vidi l’eccitazione dell’uomo diventare sorpresa, poi lentamente farsi vacua e sognante, mentre la sua volontà svaniva.

Nel frattempo, il suo disperato spingere non cessò mai, poiché tutto questo accadde nello spazio di alcuni secondi.

«Zsuzsanna!», ansimò Elisabeth, con il tono chiaro e deciso che segnalava che non avrebbe accettato un rifiuto.

Allora tornai da lei e guardai giù: i suoi superbi capelli erano stati tirati su, ed erano sparsi sopra di lei sul pavimento, circondandola come un alone… o come la pallida falce dorata della mezzaluna. Il grosso tzigano si agitava ancora convulsamente, con il viso ora premuto sul cuscino dolcemente profumato dei capelli di lei, a una lunghezza di mezzo braccio sopra la sua testa. Nel frattempo, lei premeva i suoi palmi contro il petto di lui, tenendolo su con facilità, mentre avrebbe schiacciato e soffocato una donna mortale.

«Non posso, Elisabeth. Io… io non ho cuore per questo».

«Non mi interessa se lo prendi dentro o no, cara, ma mordilo! Per me, per favore!».

«Non ho fame».

«Non c’è bisogno che tu beva! Mordilo soltanto — non lo uccidere — e lascia che il suo sangue mi scorra sul viso…».

Obbedii con un sospiro, muovendomi dietro la schiena madida di sudore del suo impalatore e chinandomi per colpirlo alle spalle. A ciò, lui si irrigidì, ed emise un grido soffocato di terrore ed estasi.

Il sangue era dolce, ma io ero troppo addolorata, troppo confusa, troppo annoiata dalla vita in quel castello, per apprezzarlo. Mi ritrassi, infelicemente compiaciuta di negarmi, infelicemente compiaciuta di soffrire per i crampi della fame, e quindi tornai ad accucciarmi e a guardare mentre Elisabeth leccava la piccola e sanguinante ferita dello zingaro e vi strofinava sopra le guance così come un gatto strofina il naso contro le gambe della sua padrona.

«Tu sei mio», bisbigliò Elisabeth nel suo orecchio. «Tu obbedirai agli ordini di Vlad fino a che non ci danneggino, ma tu sei mio. E così, dopo che avrai portato via il Principe dal castello, tu ritornerai per noi… e dirai segretamente al tuo più fedele amico — facendolo giurare — che, se tu dovessi morire misteriosamente, lui dovrà venire a salvare noi, povere donne indifese. Tutto entro un giorno…».

Entro un giorno… E ora che il tempo è quasi arrivato, penso: verranno veramente?

Ma ci furono altri segni a convincermi che Vlad se ne sarebbe ben presto andato. Infatti, dopo pochi giorni, aveva rubato tutte le carte e i vestiti di Harker: lo capimmo quando facemmo la nostra rituale visita mattutina alle stanze dell’ospite. Queste incursioni sono diventate estremamente illuminanti ora che Harker trascrive attentamente i bizzarri scribacchiamenti del suo diario in inglese su una pergamena separata. Ha scritto l’intero diario per noi, e io so che ci servirà in Inghilterra, poiché è pieno di astuti dettagli degni del diario di un avvocato.

«Sarà la nostra spia a Londra», mi disse Elisabeth quel giorno, «e, prima che Vlad si alzi, celebrerò un rito privato per essere sicura che Mr. Harker sopravviva abbastanza a lungo da esserci di aiuto. Ma, prima, un po’ di protezione più pragmatica…».

Mentre parlava, si mosse verso il tavolino da notte e prese un crocifisso che vi si trovava, o piuttosto la catena d’oro che vi era attaccata e se lo lasciò ciondolare davanti al viso.

Confesso che ansimai forte, poiché ero stata ben consapevole della sua presenza per tutto quel tempo e mi ero sentita a disagio. Lei vide il mio imbarazzo (o, piuttosto, francamente, il terrore) e rise, gettando la testa all’indietro mentre portava il piccolo Cristo impalato in alto finché esso sovrastò i suoi lineamenti perfetti, di porcellana.

«Non essere crudele», la supplicai con voce tremante, poiché mi sentivo improvvisamente sul punto di piangere. «Non giocare con me in questo modo, perché non lo sopporto… Ti taglierai la tua pelle preziosa!».

Lei continuò a ignorarmi, ridendo, come se tenere un attizzatoio incandescente sopra un viso tanto perfetto e bello fosse un piacevole divertimento. Allora mi arresi alle lacrime e mi coprii gli occhi.

Quando guardai di nuovo, lei si premette la cioce dorata sulle labbra e la baciò.

Gridai e stetti per svenire; all’improvviso, lei corse verso di me e mi prese tra le braccia, dicendo:

«Mia cara, mia cara, non volevo allarmarti così! Volevo soltanto provarti una cosa. Ecco…»

Mi portò immediatamente sul divano e si sedette vicino a me, dandomi gentilmente dei colpettini sulle guance finché osai aprire gli occhi.

Teneva un pugno chiuso sul mio viso, poi lentamente lo aprì per mostrare un crocifisso che teneva sul palmo bianco. Di nuovo indietreggiai e cominciai a coprirmi il viso, ma lei mi ordinò bruscamente:

«Guardami Zsuzsanna. Guarda…».

Guardai. E vidi che la carne sotto il luccicante oggetto dorato era perfetta, intatta. Spaventata, alzai le mie dita tremanti fino alla sua bocca di rubino e la trovai completamente perfetta e bella.

Ma quando mi afferrò il polso e voltò il palmo della mia mano verso l’alto, con l’intenzione di porgermi la croce, gridai nuovamente.

«Non posso! Mi brucerà… Lo so, perché è già accaduto».

«Zsuzsanna!». Il suo tono divenne severo. «È come la luce del sole. Ti può fare del male solo se ne hai paura. Queste sono le paure di Vlad, non le tue; perché le hai portate tanto a lungo?».

E, troppo rapidamente perché potessi resistere, mi spinse l’oggetto nel palmo teso e vi chiuse strettamente le dita intorno.

Io ero troppo spaventata per gridare, per reagire… per fare qualsiasi cosa veramente, tranne che restare a bocca aperta di fronte all’immagine luccicante della mia mano. Alcuni secondi dopo, venne la rivelazione: la croce era fredda e tagliente nel mio palmo ma non mi bruciava la pelle, né la sua presenza risvegliava l’atteso dolore.

«Vedi?», disse Elisabeth, sorridendo ancora. «È un pezzo di metallo, nient’altro, ma Vlad non lo crede, e quindi usiamo le sue superstizioni contro di lui. Avanti, Zsuzsanna… mettilo intorno alla testolina addormentata di Mr. Harker».

Così feci, meravigliandomi della mia stessa impenetrabilità, del mio potere.

«E ora, caro Jonathan», disse Elisabeth piano, rivolta all’avvocato che russava, «devi indossare questa collana dovunque tu vada e, se la catena si dovesse rompere, devi sempre portare la croce sulla tua persona. Se Vlad… il conte», e qui mi lancio un’occhiata, sorridendo alla intenzionale ripetizione dell’informazione sbagliata di Harker, «dovesse minacciarti, sbattigli questo ciondolo in faccia».

Fu così che Mr. Harker divenne il nostro agente.

Quindici giorni dopo, il grappo degli tzigani ritornò con dei grandi cani, e la trama del piano di Vlad si precisò più chiaramente. Non ci sono dubbi: egli sta veramente abbandonando questo luogo, se non per sempre, per un periodo molto lungo. Quella volta, l’amante tzigano di Elisabeth ritornò, ma il loro secondo incontro si limitò agli accordi per il viaggio: il nostro e quello di Vlad. Lui prenderà la via per lui più sicura — una nave — ma noi non siamo così vincolate e lo attenderemo quando, alla fine, arriverà.

Quando vidi i grossi carri scoperti, ognuno abbastanza grande per contenere parecchi bauli colmi di terra (un’altra delle ridicole superstizioni di Vlad, credere che non possa lasciare la Transilvama senza portarne un po’ con sé), la mia rabbia per essere abbandonata scoppiò nuovamente, e supplicai Elisabeth di fare qualsiasi cosa fosse in suo potere per distruggerlo in quel momento. Lei insistette che un tale sforzo allora sarebbe con molta probabilità fallito (cosa non mi sta dicendo adesso per evitare di preoccuparmi?), ma che nondimeno avrebbe provato, utilizzando il nostro inglese per tentare l’azione.

E così fece, spedendo Mr. Harker in una missione diurna per uccidere Vlad (cosa che lui quasi riuscì a fare), ma quello sciocco si fece prendere dalla paura.

E così ora sono seduta, sopraffatta allo stesso modo dall’eccitazione e dalla paura. Stanotte, Vlad è finalmente venuto da me: non l’ho visto per quasi un mese, ma non sono stata sorpresa di vederlo ulteriormente ringiovanito, con i capelli non più bianchi ma scuri, e la carnagione leggermente rosata. La sua espressione era di esultanza mescolata a condiscendente generosità.

«Domani sera», disse, sorridendo, «lui sarà tuo».

Finsi un’espressione di disperazione e dissi risentita:

«Mi stai abbandonando qui a morire di fame. Non pensare che non lo sappia».

Con le sopracciglia arcuate in un gesto di finta innocenza, si mise il palmo aperto sul suo cuore senza vita.

«Io? Zsuzsanna, sei arrivata a comprendere, nella tua infatuazione per Elisabeth, che io, non lei, sono stato il tuo benefattore per tutti questi anni? No, mia cara, devo andare a curare i dettagli di una specialissima proprietà… in Inghilterra. Infine, ho trovato un modo per liberarci entrambi. E non lo farò senza prima pensare a te: lascerò l’ospite inglese solo per te! Quando sarà tutto pronto, prima che tu sia di nuovo affamata, io ritornerò a prenderti».

Non volli incontrare il suo sguardo, ma tenni il mio fisso sulla finestra… e sulla libertà che c’era oltre di essa. Con voce bassa, ostile, lentamente proclamai:

«Arkady non c’è più».

La sua abilità di ingannare era così raffinata che la sua espressione di abbietta sorpresa, contaminata dalla paura, era del tutto convincente. Ma io non ne fui ingannata.

«Cosa?»

«È vero?».

Troppo terribilmente vero. Sapendo che sarebbe ben presto venuto il momento in cui avrei lasciato per sempre quel castello — o mediante la morte o mediante il carro che mi avrebbe portato attraverso il continente — ero scesa quel mattino nella volta sotterranea, per dire addio al corpo del mio caro fratello.

Andato, svanito (sono troppo addolorata anche per piangerci sopra adesso). Nessuna traccia del cadavere, sebbene il palo senza sangue fosse sopra al nudo catafalco di terra dove lui si trovava. A quella scoperta, ero caduta sull’umido terreno polveroso, e singhiozzai al pensiero dei resti del mio dolce Kasha sottratti per qualche malvagio tentativo di magia da quel mostro. E come le Marie davanti alla tomba dissuggellata del Cristo, domandai in quel momento a Vlad:

«Dove lo hai portato?».

Le sue grige sopracciglia si unirono insieme come impetuose nuvole temporalesche, e il suo colorito divenne livido mentre gridava:

«Questo è un altro tradimento, non è vero? Qualche nuova trama per un’incauta vendetta! Sei stata ad ascoltare le bugie di Elisabeth… e io non ti darò altri avvertimenti, dato che non hai creduto al primo. La mia sola soddisfazione deriva dal sapere che presto ti accorgerai della tua stupidità nell’aver creduto in lei e aver abbandonato me… Ma allora tutte le tue suppliche di aiuto saranno tardive!».

Si voltò quindi sui taccili e se ne andò con furia, sbattendo la porta dietro di sé con tale forza che, con il rumore assordante di un colpo di pistola, il legno si fendette in diagonale, come fosse stato colpito da un fulmine.

Durante tutto questo dialogo, rimasi in silenzio. La mia vendetta non consisterà di parole o argomenti, ma di azioni che lo faranno precipitare all’Inferno, nel dolore.

Così, finalmente, ci siamo separati… per sempre. Non provo tristezza, nessuna melanconica gratitudine per colui che mi diede il bacio immortale. Lui mi ha tolto mia madre, mio padre, mio fratello, la mia amica, la mia dignità; ha trasformato tutto il mio amore in ira vendicativa.

Bastardo! Ci incontreremo ancora in Inghilterra… in Inghilterra! Sembra un sogno irraggiungibile, un miraggio che chiama da lontano, ma io temo che quando, finalmente, si avvicinerà, fluttuerà e si dissolverà nella polvere.

No. Nessuna paura, nessun dubbio. Ti troverò a Londra. E lì ti annienterò…

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