Capitolo tredicesimo

Il diario del dottor Seward


29 settembre. Che strano scrivere con la penna e nella mia camera da letto invece che nell’ufficio. A malincuore acconsento all’inganno, specialmente a quello che può avere come oggetto i miei due più cari amici, Art e Quincey, ma ne capisco la ragione e devo trarre conforto dal fatto che, così facendo, li proteggo.

Così, ecco la verità: devo registrarla in qualche modo, affinché non dimentichi tutto e non cominci a credere alle mie stesse menzogne.

Oggi, poco dopo mezzogiorno, il professore mi ha riportato alla tomba di Lucy. Il nostro piano per entrare nel cimitero era molto semplice: avremmo atteso un funerale, che si pensava avesse luogo a mezzogiorno, poi ci saremmo nascosti quando i partecipanti se ne fossero andati (sembrava non esserci ragione di suscitare sospetti scavalcando il muro nella piena luce del giorno). Il becchino, pensando che tutti se ne fossero andati, avrebbe chiuso a chiave il cancello di ferro dietro di sé, poi saremmo stati liberi di fare come desideravamo, poiché Van Helsing mi aveva confidato di aver tenuto con sé la chiave della tomba delle Westenra, che il becchino gli aveva consegnato per darla ad Arthur.

Lo ammetto: accompagnai Van Helsing con molta trepidazione. Il mio dolore per la morte di Lucy, sebbene non più vivissimo, era ancora fresco, ed essere finalmente testimone della realtà del vampirismo con lei come esempio, sembrava troppo doloroso. Penso che acconsentii in una sorta di intontimento poiché a stento potevo crederla morta, e ancora meno trasformata in un mostro. Parte di me sperava che il professore fosse un pazzo con le allucinazioni e che tutto quel parlare di succhiare sangue e di Vlad Dracula non fosse che un sogno da cui mi sarei presto svegliato. Così andai, credendo solo a metà che avrei visto la prova delle pretese di Van Helsing.

Il nostro piano funzionò come un orologio. Andammo al cimitero e attendemmo finché il cancello fu aperto e i partecipanti al funerale furono arrivati. Poi anche noi entrammo: vestiti di nero, per adeguarci. Il professore aveva portato la sua borsa da medico, cosa che mi provocò un po’ di paura, poiché sentivo che avrebbe attirato l’attenzione su di noi; fortunatamente, aveva ragione riguardo al fatto che nessuno l’avrebbe notata o, se questo fosse accaduto, che ne avrebbe pensato qualcosa.

Era un giorno gelido, grigio, desolato e umido per la nebbia; un giorno appropriato per il nostro compito. Per tutto il funerale, restammo tranquilli ai margini del gruppo di persone. E, quando fu finito e la gente cominciò a sparpagliarsi, andammo dietro la tomba più lontana e aspettammo finché udimmo il rumore del becchino che chiudeva il cancello.

Infine, quando non ci fu più nessuno, Van Helsing mi condusse al piccolo edificio quadrato, di pietra, sulla cui entrata era incisa la parola:


WESTENRA

Ero stato troppo sconvolto durante il funerale di Lucy per ricordare dove si trovasse la tomba; il mio sguardo era concentrato sulla bara, coperta di lino e cosparsa di fiori bianchi, mentre cercavo di immaginarmi come sarebbe apparsa da Morta Vivente. Sarebbe stata ancora più bella o anche riconoscibile come la dolce ragazza che era stata? Avrebbe avuto lunghe zanne piene di saliva e una forza inumana, mentre usciva dalla lastra di piombo che doveva contenere il puzzo dei suoi resti in putrefazione?

Il professore sentì chiaramente la mia crescente riluttanza, poiché pose brevemente una calda mano sulla mia spalla per infondermi conforto e incoraggiamento. Poi si mise, con la chiave, a lavorare alla serratura. La prima era antica e un po’ arrugginita e gli richiese un lavoro di parecchi secondi prima che, finalmente, la grossa porta di metallo emettesse un lugubre cigolio e si aprisse.

Ci volle un po’ di sforzo da parte di entrambi, mentre io mi chiedevo, in continuazione, in che modo Lucy avrebbe mai potuto farcela. Il professore mi fece cenno di entrare; un gesto oscuramente cavalleresco, se mai ci fu. Così feci, e sobbalzai quando un topo nero squittì passandomi sopra un piede.

All’interno, l’aria era fredda, ma stantia e pesante per l’odore di fiori in putrefazione. Era, penso, il luogo più disperato in cui mi fossi mai trovato poiché, nel corso di una settimana, le ragnatele si erano infittite, e numerosi scarafaggi dal dorso lucido strisciavano davanti ai miei piedi. Tutto quanto — le alte finestre ottagonali, le mura vuote, le ombre striscianti — era ricoperto da un sottile strato di polvere che sembrava assorbire tutta la luce. Suppongo che l’aspetto sinistro mi turbò, poiché il professore mi toccò una spalla per farmi ritornare in me.

Sobbalzai di nuovo, con grande imbarazzo, poi cominciai a seguire Van Helsing, che mi aveva sorpassato sapendo dove andare, uscendo dalla stretta entrata per passare in una stanza più ampia dove una ventina di bare erano adagiate su catafalchi di marmo. Era facile indovinare quali fossero quelle di Mrs. Westenra e di Lucy, poiché le altre erano tutte ricoperte da uno strato talmente fitto di polvere (che dimostrava quanto tempo era passato da quando qualcuno era venuto lì) che non si riuscivano a vedere né il colore della bara né la targhetta del nome.

Il professore andò immediatamente, con la borsa in mano, verso le bare più pulite, e diede un’occhiata in basso alle targhette d’argento per accertarsi quale fosse quella di Lucy. Una volta deciso, posò la borsa e ne tirò fuori un cacciavite e un seghetto, che poggiò, con una certa insensibilità, sulla vicina bara di Mrs. Westenra.

Devo dire che ero completamente stupefatto dalla sua incredibile calma e concretezza. Essendo un medico esperto, da lungo tempo avevo perduto la mia schizzinosità circa i morti, ma quello al quale ci avvicinavamo ora non era un cadavere ordinario, né le circostanze erano ordinarie. Van Helsing però si comportava come se si trattasse di qualcosa che aveva fatto per tutta la sua vita.

Senza fanfara e neanche un accenno di rispetto, alzò il coperchio della bara, con una tale rapidità che io riuscii a malapena ad evitare di tirarmi indietro. Era sciocco farlo da parte mia, poiché il mio cervello sapeva bene che avremmo visto soltanto il rivestimento di piombo, ma il mio cuore aveva evidentemente fatto sì che me lo dimenticassi per un istante. I fiori morti posti sulla bara di Lucy — uno dei quali io stesso avevo poggiato lì una settimana prima — si sparsero a terra con un fruscio, un crudele ricordo che persino lo stesso dolore non durava in eterno.

Il professore non li degnò di attenzione ma, con il freddo distacco che gli ho visto assumere in chirurgia, prese il cacciavite. Con un improvviso movimento violento, fece del suo pugno un martello e colpì il manico del cacciavite così che la sua punta aprì il sottile rivestimento di piombo.

Questa volta indietreggiai davvero e tirai fuori il mio fazzoletto, del tutto pronto a proteggermi dalla conseguente fuga di gas nocivo che sarebbe venuta dal cadavere vecchio di una settimana. Ma non arrivò nessuna puzza. Mi permisi di tirare un respiro e rimasi affascinato da ciò che seguì.

Van Helsing posò il cacciavite e prese il piccolo seghetto. Dopo averlo infilato nello spazio lasciato dalla perforazione, segò alcuni pezzi da un lato della bara, poi nella parte superiore, quindi dall’altra. Poi afferrò la lingua di metallo in cima e la tirò giù fino alla fine, come una madre potrebbe tirare giù una coperta troppo calda per non svegliare un bambino che dorme.

Ma non c’era niente di tenero nei movimenti del professore; quando tirò indietro il rivestimento di piombo lasciando vedere il cadavere al di sotto, la sua espressione era più fredda e più dura di quanto avessi mai visto.

«Amico John», gridò, con una voce così profonda e severa che nessuno avrebbe osato disobbedire. «Non guardarla! Non guardarla!».

In realtà, non mi ero fatto forza a sufficienza per fissarla, così il suo ammonimento arrivò in tempo. Si mise tra me e la bara e disse con foga:

«Ho fatto male a non avvertirti prima. No, guarda me, non lei… sì! E ora ascolta: senti la tua aura e attirala dentro di te, verso il tuo cuore. Rafforzati lì. Questo ti proteggerà dalla sua forza di attrazione, adesso e in futuro. Sì, sì!», gridò approvando.

In apparenza il mio viso era cambiato mentre mettevo in pratica la sua lezione. In effetti, scoprii che la conseguenza era che avevo “indurito il mio cuore”. Lo sforzo emotivo del doloroso incontro fu all’improvviso più facile, e io mi trovai posseduto in una certa misura dalla calma concentrazione del professore.

Mentre il mio equilibrio ritornava, emisi un sospiro.

«Benissimo!», disse il professore. «Benissimo! Se ora desideri guardarla, puoi farlo; se vedrò che hai dei problemi, ti aiuterò. Mi scuso per non averti insegnato prima questa tecnica. Sono stato abbastanza sciocco da credere che i talismani che avevo lasciato con lei sarebbero rimasti e che l’avrebbero tenuta nella tomba finché non fossimo riusciti a mandarla in un riposo più onorevole. Prima che fosse posta nella bara, li avevo posti sulle sue labbra e sul suo seno ma, vedi? Qualcuno li ha tolti». Sospirò. «Li avevo messi su di lei durante la veglia ma qualcuno, in casa, li tolse allora: due crocifissi d’oro. Così, prima del funerale, pagai il becchino e ne misi altri due sopra di lei prima di vedere che la chiudevano sotto il piombo. Ora qualcuno ci ha ingannato di nuovo, ma non un mortale, temo, o il piombo sarebbe già stato tolto».

Lo ascoltai soltanto a metà poiché, quando mi aveva dato il permesso, avevo subito guardato Lucy. Dire che era bella sarebbe stato un insulto; nella morte vivente, lei andava oltre la bellezza, oltre la radiosità. Di fatto, era come se lo stesso sole fosse stato avvolto in un sudario bianco, lasciando vedere soltanto in alcune parti — testa e mani — la sua piena gloria lucente. I suoi capelli, che erano stati color cenere e biondi dove il sole estivo li rendeva più chiari, erano adesso di un glorioso e scintillante bronzo con striature di oro fuso. Le sue labbra erano del rosa delicato, iridescente, della madreperla, proprio come i suoi occhi — occhi aperti, che guardavano senza vedere un punto oltre il soffitto — erano del verde mare della madreperla lucidata. E il suo viso era quello della luna, pieno di una radiosità interna.

Un pensiero, un piccolo pensiero — Mio Dio, com’è bella! — e un momentaneo e sottile desiderio di rinunciare a tutto ciò che era morale e giusto, e di raggiungerla nell’estasi eterna. Sentii il mio cuore che andava verso di lei come la marea cerca la luna. Ero perduto, vinto.

Ancora una volta, il tocco della mano del professore mi riportò indietro dalla mia pericolosa fantasticheria. Alzai lo sguardo e inghiottii aria; fissando i profondi occhi blu di Van Helsing, mi concentrai, e di nuovo ripresi il controllp del mio cuore e delle mie emozioni.

«Sto bene», dissi. «Non la guarderò più».

E, per mostrare la mia determinazione, mi allontanai dal cadavere e mi voltai verso l’entrata.

Rimase lì soltanto pochi secondi in più per lasciare altri talismani e rimettere a posto il piombo, poi richiuse il coperchio della bara.

«Per il bene di Arthur», disse con aria cupa mentre ce ne andavamo, «e per il fatto che sono stato troppo arrogante nel portare con me il palo e il coltello, pensando che la mia debole magia l’avrebbe tenuta qui — non l’uccido adesso ma, se stanotte non riusciremo a farlo, quando Arthur e Quincey verranno, allora ci sarà molto sangue sulla mia testa: molto sangue!».

Ora è sera e Arthur e Quincey arriveranno tra poche ore in risposta alle lettere del professore. Il pensiero di ciò che sta per accadere mi lascia troppo inquieto per cenare.


Il diario del dottor Van Helsing


29 settembre. Arthur e Quincey sono arrivati la notte scorsa alle dieci, entrambi con un’espressione confusa. Come concordato, John ci condusse tutti dentro al suo studio e chiuse la porta a chiave, cosa che non fece che sottolineare il misterioso senso di segretezza.

Una volta che gli altri ebbero preso posto sul lungo divano, io rimasi davanti a loro rivolgendomi ad essi, e tutti e tre mi guardarono con curiosità e anche con una debole speranza, come se ci potesse essere qualcosa di buono nel mezzo di tutto quel dolore. Arthur aveva un aspetto terribile; nel corso di una settimana era invecchiato di quindici anni. La sua fronte, prima liscia, era piena di rughe, e i suoi occhi erano ancora fissi; in essi, io vidi entrare e uscire pensieri di tristezza, come nuvole passeggere. Si trovava in quel terribile primo stato di lutto in cui qualsiasi vista, qualsiasi suono, qualsiasi ricordo, potevano toccarlo e riaccendere il dolore.

Anche Quincey stava soffrendo nel suo modo tranquillo. Le sue labbra già sottili erano diventate notevolmente più fini, e le ombre si erano raccolte sotto i suoi occhi stanchi; sotto le lentiggini che stavano così bene con i suoi capelli rosso scuro, la sua pelle era diventata pallida. Era seduto con il suo grande e bianco Stetson che rigirava tra le dita ossute e giocava con il bordo, così che il cappello girava lentamente. Ma, nonostante la sua sofferenza, manteneva un’allegria forzata per amore dei suoi amici.

Per me fu un momento difficile, mentre fissavo quelle anime buone ma turbate; avevo riflettuto a lungo su quell’incontro, ed ero arrivato all’infelice conclusione che non c’era, semplicemente, un modo indolore per farlo. Così cominciai dicendo che avevo finalmente compreso cosa aveva ucciso Lucy e che lei si trovava, in quel momento, in uno stato tale che noi avevamo un ultimo compito da svolgere, per amore di lei.

Arthur si irrigidì per l’orrore.

«Dottor Van Helsing, intendete dirmi che è stata sepolta viva?».

Scossi la testa: no, no.

«Caro Arthur, caro amico, credete in me? Credete che io mi sono onestamente preoccupato per Lucy e che volevo, e ancora voglio, solo il meglio per lei?»

«Sì, certo», disse, ma i suoi occhi rimasero pieni di tormento.

«Allora permettetemi di portarvi alla sua tomba, poiché lì si trova l’unica prova fisica necessaria a spiegare cosa dobbiamo fare. Se volete aver fiducia e venire con me…».

L’espressione di confusione e dolore sul viso di Arthur mi muoveva a compassione, ma io rimasi freddo e risoluto.

«Prima», rispose Arthur, lottando palesemente per controllare i suoi sentimenti, «devo sapere perché abbiamo bisogno di andare alla tomba. Quale terribile mistero può essere, che voi non potete dirlo semplicemente, come un amico?»

«Vi posso soltanto dire che è per amore di Miss Lucy che andiamo», replicai. «C’è qualcosa che resta da fare per lei, in modo che possa riposare in pace nella morte».

Quincey Morris si mise il cappello in grembo e si chinò in avanti per dire, in tono agitato:

«Bene! Vedete, professore? Ritornare alla tomba per ragioni misteriose è una cosa crudele per Arthur, non pensate? Non vedete quanto è difficile per lui?».

Trattenni la lingua ma pensai: Ah, povero Quincey, so che non è più facile per te!

Continuò, in tono di rimprovero:

«Se la povera ragazza è morta, è morta; che altro possiamo fare per lei?».

Completamente calmo, gli risposi:

«Dobbiamo tagliarle la testa, trapassarle il cuore con un palo, e riempirle la bocca di aglio».

Gli occhi di John si spalancarono immediatamente per puro sgomento davanti a quella improvvisa e spietata rivelazione. Quincey, d’altro canto, si chinò ulteriormente in avanti e mise le dita sulla pistola che portava alla cintura.

Per quanto riguarda il povero Arthur, divenne livido e si alzò in uno scoppio di furia, piegando il braccio destro e tirandolo indietro per prepararsi al colpo che mirava alla mia mascella.

E, prima che John potesse alzarsi per impedirglielo, sferrò un pugno. Ero preparato a un colpo simile; prima che potesse incontrare l’ostacolo, avevo già fatto un passo indietro e avevo ritirato la mia aura, rendendomi del tutto invisibile.

Arthur colpì l’aria, poi indietreggiò con aria di completo stupore, e guardò il pugno con la bocca aperta, come se si aspettasse di trovarvi qualche difetto. Non trovandone nessuno, fissò a bocca aperta la stanza che lo circondava.

Il nostro amico Quincey affondò lentamente nei cuscini e rimise tranquillamente le mani in grembo. Guardai mentre il suo grosso pomo d’Adamo ricoperto di lentiggini lentamente scendeva e poi si alzava di nuovo. Accanto a lui sedeva John, la cui espressione era una strana mescolanza di dolore, di disapprovazione, e di crescente ilarità.

Per lo spazio di parecchi secondi, nessuno pronunciò una parola. Giustamente soddisfatto per averli colpiti, andai dietro al divano dove i due uomini stavano seduti, mi materializzai, e dissi tranquillamente:

«Signori…».

Tutti girarono di scatto le teste per fissarmi. Arthur era così fortemente imbarazzato che cominciò ad oscillare sui piedi. Io girai rapidamente intorno al divano e ritornai da lui: mi strinse le spalle, con gli occhi spalancati e in silenzio, poi si lasciò condurre al divano, dove sedette tra John e Quincey.

«Signori», continuai, «quello che avete appena visto potrebbe essere la conseguenza del fatto che tutti e tre siete impazziti contemporaneamente del tutto, o ci potrebbe essere un’altra spiegazione, una non accettabile secondo la nostra attuale concezione di scienza. Vi devo far giurare il silenzio riguardo a tutto ciò; se voi sceglierete, invece, di parlarne, sappiate che io lo negherò, e che dirò che siete dei pazzi».

Di nuovo, non vi fu una sola parola di risposta.

«Miss Lucy è stata morsa da un Vampiro…», cominciai. Nell’udire ciò, Quincey si agitò e aprì la bocca per parlare, ma io lo feci stare zitto con uno sguardo. «Non il pipistrello, come l’amico Quincey suggerisce, ma un uomo reale che si è trasformato in una creatura né viva né morta; quel Morto Vivente che i rumeni chiamano nosferatu. In inglese, un Vampiro; uno che succhia il sangue dei viventi i quali, a loro volta, diventano Vampiri dopo la morte».

«Che cosa state dicendo?», chiese Arthur lentamente. Non c’era rabbia, ma solo dolore, nella sua voce. «Che Lucy è morta per il morso di uno di questi?».

Annuii, indurendo il mio cuore alla vista dell’effetto su di lui di quella terribile rivelazione.

Quincey gettò di lato il cappello e fece scorrere la mano tra i capelli radi.

«Professore, io vi rispetto», disse, palesemente turbato. «Forse anche di più dopo la vostra piccola dimostrazione qui stasera». A questo punto, noi due sorridemmo debolmente. «E anche se non l’avessi vista, vi crederei egualmente un uomo onesto con le migliori intenzioni, ma… questa non è una cosa che io — che Arthur — può prontamente accettare. Dato che quello che state dicendo è che Miss Lucy è… è…».

La sua voce si spense nel silenzio.

«Non mi aspetto che mi crediate senza vedere la prova. Così vi ho chiesto di venire con me stanotte al cimitero di Kingstead». Qui mi rivolsi ad Arthur, che era ancora intontito, «E, se lo crederete, Lord Godalming, permettetemi di distruggere quella creatura, in modo che la vera Miss Lucy possa riposare».

Arrivammo a Kingstead poco prima della mezzanotte e scavalcammo con facilità la bassa recinzione di pietra (Quincey, con le sue lunghe gambe magre, semplicemente la oltrepassò). Era una notte gelida e ventosa e, sebbene la luna fosse ancora radiosa, delle veloci nuvole ineguali oscuravano, di tanto in tanto, la luce. Avevo portato la mia borsa da medico con i pochi attrezzi necessari e una lanterna spenta. John e Quincey erano al fianco di Arthur, formando una barriera tra il loro amico e la terribile esperienza che doveva venire. John era cupo ma risoluto; Quincey rimaneva in silenzio, ma continuava a gettare degli sguardi solleciti ad Arthur come se fosse deciso a interrompere l’operazione quando il suo amico avesse mostrato turbamento.

Per quanto riguarda lo stesso Arthur, resisteva ammirevolmente bene. La sua espressione mostrava lo sforzo di ritornare in quel luogo di dolore, ma solo leggermente, e non cambiò quando ci avvicinammo alla tomba.

Una volta lì, aprii rapidamente la porta, poi mi voltai verso John e dissi:

«Tu eri con me ieri; il corpo di Miss Lucy era nella bara?»

«Lo era», affermò solennemente.

Aprii spingendo la pesante porta di ferro, con la melodia del metallo che grattava contro la pietra. Vedendo che gli altri tre uomini indugiavano, esitando, io entrai per primo, poi accesi la lanterna. La luce che gettava era debole; volevo che la nostra entrata fosse notata il meno possibile.

Una volta che fui dentro, gli altri entrarono, e io li indirizzai alla bara di Miss Lucy. Ancora una volta posai la mia borsa e tirai fuori il cacciavite con il quale aprii il coperchio, poi lo tolsi. Avevo tirato nuovamente il rivestimento di piombo sopra il cadavere; quando Arthur vide come era stato aperto, impallidì, ma continuò a restare in silenzio, in attesa.

Tirai giù il rivestimento di piombo e vidi una bara scura, vuota. Era come mi aspettavo, poiché ero venuto prima del calare del sole quella sera per togliere i talismani. Conoscevo il cuore di Arthur e capivo che mostrargliela addormentata e bella non gli avrebbe fatto bene. Quella notte sarebbe dovuta essere la loro prima notte di nozze; così dovevo mostrarla come il mostro che era diventata, senza nessuna traccia di bellezza o di romanticismo.

«Diglielo», ordinai a John.

Così John parlò — in modo estremamente eloquente — della nostra visita alla tomba. Uomo di medicina com’è, spiegò — distogliendo lo sguardo quando vide la scintilla di dolore e disgusto in quelli di Arthur — il processo di decomposizione e ciò che ci si poteva attendere da un cadavere di una settimana. Eppure lì c’era stata Lucy, intatta e perfetta, più bella di quanto fosse mai stata in vita.

Gli occhi di Quincey si strinsero sopra i suoi lunghi baffi incerati; l’espressione tesa di Arthur non cambiò mai, sebbene il suo pallore crescesse.

«E ora fuori», dissi e li condussi nell’aria dolce e fredda.

I miei tre compagni rimasero in silenzio: Arthur chiaramente sprofondato nei pensieri nello sforzo di decifrare il mistero del corpo scomparso, John ansioso per ciò che sapeva che avrebbe presto visto. E Quincey — l’uomo più pragmatico e di mente aperta che io abbia mai incontrato — aveva cessato di cercare un senso per la bara vuota, e ora attendeva pazientemente di vedere cosa sarebbe accaduto prima di arrivare a qualche conclusione. Con notevole disinvoltura, prese un rotolo di tabacco dalla giacca, ne tagliò un pezzo e cominciò a masticare.

Nel frattempo, avevo tirato fuori altri due attrezzi dalla mia borsa: l’ostia consacrata (caricata di tanto potere quanto ne potevo mettere in un oggetto) e una massa di mastice. Sbriciolai l’ostia nel mastice, lo impastai, e con l’impasto feci delle strisce. Queste le usai per sigillare le fessure intorno alla porta.

Poi ordinai agli altri di nascondersi vicino alla tomba dove non sarebbero stati visti da chiunque si fosse avvicinato. Così restammo in silenzio, per un’eternità: quindici, forse venti minuti.

All’improvviso, notai una bianca figura che si muoveva rapidamente avanzando tra gli alberi di tasso, una figura bianca che stringeva qualcosa di scuro al seno. Feci un segno agli altri e indicai.

In quell’istante, la bianca figura si fermò e si chinò sull’oggetto scuro; si udì un grido acuto di bambino, poi il silenzio.

John, Quincey e Arthur, tutti e tre, sobbalzarono al suono; John si mosse per andare a salvare il bambino (come fece istintivamente Quincey, sebbene non sapesse la gravità del pericolo in cui si trovava il bambino). Ma io feci loro cenno di restare fermi, ed essi obbedirono con riluttanza.

Presto la misteriosa figura si avvicinò sempre di più e, in un raggio di luna vagante, i lineamenti di Lucy Westenra divennero chiaramente visibili.

I suoi lineamenti, dico, ma tutto il resto era diverso. C’erano gli occhi di Lucy divenuti duri, seducenti e freddi; e le sue labbra, non più tenere e dolcemente sorridenti, ma sensuali e provocanti, erano tirate a mostrare lunghi denti aguzzi. E da quelle labbra gocciolava del sangue… fresco e rosso, che scendeva in un sottile rivolo per il mento e sul telo virginale dei suoi indumenti funebri.

Uscii da dietro la tomba, con i miei tre compagni vicini, dietro di me. Alla nostra vista, lei sibilò come un felino minacciato e poi, nel riconoscere Arthur, gettò a terra il povero bambino con infernale indifferenza.

«Arthur», disse, con la voce bassa e languida come un gatto che fa le fusa. «Mio dolce marito, vieni!».

Guardai di lato e vidi Arthur che avanzava verso di lei, con le braccia tese, gli occhi prima intontiti dal dolore e ora senza espressione per la trance. Lui la vedeva, sì, ma non come lei era realmente.

Con un balzo fui tra i due innamorati, tirando fuori un piccolo crocifisso d’oro dalla tasca del mio cappotto e alzandolo davanti al viso di lei. Lo feci con una certa ansia, poiché non avevo modo di sapere se fosse insensibile o meno al talismano. Certamente, era giovane e inesperta, e un nemico molto, molto più debole dello stesso Vlad, ma era la prima figlia del nuovo Vampiro, di Dracula il Potente.

Per qualche inesplicabile grazia, la seconda ipotesi si dimostrò vera. Lei si mostrò sensibile. Alla vista della croce, ringhiò, poi si ritrasse. Mi mossi obliquamente, lasciandole una sola possibilità, che lei colse. Con velocità soprannaturale, sfrecciò verso la porta della tomba, intenzionata a trovarvi un rifugio (era veramente una neofita, poiché un qualunque Vampiro esperto sarebbe semplicemente scomparso, e poi sarebbe fuggito in un altro nascondiglio, lontano da minacciosi mortali).

Feci segno ai miei compagni di circondarmi, e tutti e quattro ci avvicinammo alla porta della tomba in un mezzo cerchio, costringendola così tra la croce e l’ostia. Lei esitò come un animale in trappola che cerca di valutare le sue possibilità: si doveva arrendere, combattere, o fuggire?

La furia le contorceva il viso. Quindi si voltò verso di noi, gli occhi socchiusi ma incendiati dalle fiamme infernali, la bocca tirata in un ghigno malvagio che mostrava aguzzi denti triangolari. Era il volto di una diavolessa dell’inferno e, alla sua vista, Arthur emise un gemito d’orrore.

Senza distogliere la mia faccia dal mostro, gridai:

«Lord Godalming! Amico Arthur! Mi date il permesso di andare avanti nel mio lavoro?».

Non ebbi bisogno di vederne l’espressione per sapere che era torturato; il dolore della sua voce era sufficiente.

«Fate come volete», disse con un gemito. «Fate come volete. Non può esistere più a lungo un orrore come questo!».

Poggiai la lanterna e mi mossi verso la Vampira che sibilava; la mia intenzione era quella di togliere dalle fessure un po’ della mistura sacra, in modo che Lucy potesse entrare e poi essere richiusa. Ma, prima che potessi farlo, arrivò un’improvvisa raffica di vento, così forte che mi fece cadere sulla schiena nell’erba fredda e umida lontano da Miss Lucy.

Il vortice divenne così forte che mi inchiodò a terra, e così rumoroso che non potevo udire niente dei compagni dietro di me. Lottai per sollevare la testa e vidi, davanti a me, Miss Lucy che sorrideva con sensualità… stretta nell’abbraccio di Vlad.

Fu il più orribile degli spettacoli, poiché lei lo guardava in totale adorazione, mentre lui stava dietro di lei, con un braccio stretto intorno alla vita e una mano sopra un seno. Non so immaginare come Arthur potesse tollerare una tale vista; se fossi stato al suo posto, credo che mi avrebbe annientato. Quando lui la guardò, tra loro passò uno sguardo di tale passione che fui sorpreso che non si accoppiassero lì in quel momento.

Poi lui alzò il viso verso di me; era livido, pieno della furia di un pazzo, dell’odio di un pazzo. Ma ancora giovane e vitale sotto la sua corona piena e ondulata di capelli nero bluastri, i baffi spioventi e la barbetta a punta… e così innaturalmente bello che persino io sentii la sua forza magnetica.

«Come osi pensare di fare del male alla nostra amata!», tuonò, con una voce tre volte più alta del vento. «Come osi…!».

All’improvviso il vento cessò. Spinse Lucy da una parte con la stessa crudeltà con cui lei si era liberata del bambino, e allungò una mano d’alabastro per afferrarmi al collo.

E John — colui che tra tutti sapeva il rischio mortale che correva — si mise di colpo tra noi e colpì l’Impalatore con le sue semplici mani mortali.

I colpi infastidirono Vlad non più di quanto una mosca potrebbe infastidire un mortale. Mentre John colpiva sempre più forte, il Vampiro rideva, mostrando delle fossette nella pelle di porcellana che circondava i baffi; rideva, mentre alzava John per una gamba e un braccio e lo teneva sollevato, poi si voltò, fronteggiando il duro marmo bianco della tomba.

Arthur cominciò a gridare e si avvicinò, minaccioso; Quincey tirò soltanto fuori la sua pistola dal cappotto e fece fuoco, una volta, due, tre… ogni volta colpendo Vlad direttamente nel petto. Ma le pallottole uscivano semplicemente dal suo corpo non vivente senza causare danno, e il perplesso texano guardò la sua pistola, poi di nuovo il suo bersaglio, con occhi grandi, spalancati.

Anche con la sua forza di un tempo, il Vampiro avrebbe potuto facilmente frantumare il cervello di un uomo con una tale mossa. Per come stavano le cose, non avevo speranze per la sopravvivenza di John e, con l’amore disperato, irriflessivo di un padre, gridai:

«Fermo! Fermo! È mio figlio che tieni nelle tue braccia! Uccidilo, e ucciderai te stesso!».

Avevo lavorato così tanti anni per proteggere il mio solo erede nascondendo la verità; adesso la verità era la mia sola speranza di salvarlo. Vlad si fermò; poi aggrottò la fronte guardando John e disse: «Menti! Lui non pensa di essere tuo figlio!». Ma, un istante più tardi, un sottile dubbio gli apparve sul viso, riflettendo, forse, gli stessi dubbi di John sull’argomento.

Di quell’istante approfittammo noi mortali: Arthur, Quincey e io. Ci gettammo con tutto il peso contro Vlad e John; il Vampiro, naturalmente, rimase immobile, ma l’attacco scatenò in lui una tale furia che allentò la presa su mio figlio e, invece, afferrò me, mentre gli altri portavano in salvo John. Anche nel mezzo del mio sollievo, mi venne in mente un pensiero orrendo: dov’era Lucy? E tutti i suoi innamorati sarebbero stati in grado di resisterle senza il mio aiuto?

Ma non riuscivo a vedere nient’altro che il viso dell’Impalatore, poiché lui aveva afferrato la mia gola con le sue mani freddissime e mi fissava negli occhi così da vicino che potei sentire il suo fetido alito — il puzzo del morto che imputridisce — prima che parlasse.

Il volto di Vlad splendeva in modo così brillante, così incandescente per la furia, che io chiusi gli occhi abbagliato, ma l’immagine rimaneva ancora. «Sono stanco di te e dei tuoi giochi, vecchio!», ruggì. «Le cose hanno compiuto un giro completo. Non molto tempo fa, eri forte, sicuro e invincibile, e io decrepito, invecchiato, senza speranza; avevo bisogno di te per la mia stessa sopravvivenza. Ma ora tu sei il vecchio, l’uomo debole senza speranza, e io sono quello invincibile! Chinati e venerami, poiché adesso sei tu ad avere bisogno di me per vivere».

Gracchiai, aprii gli occhi, e poi mossi la lesta, indicando che desideravo rispondere. E, quando lui allentò la sua presa micidiale sul mio collo, non esitai, non vacillai. Dissi semplicemente:

«Uccidimi».

Allora emise un grido di frustrazione che mi lasciò quasi sordo e, quando mi ripresi, disse con scherno:

«Sei così arrogante, così sicuro di te! Tu pensi che non ti possa uccidere, che abbia paura a causa del Patto! Ma senti questo: non ho più bisogno di quello per sopravvivere. Io sono colui che fa i Patti! E tu e i tuoi amici siete morti».

Il mondo si inclinò all’improvviso quando mi sollevò in alto, sopra la sua testa, con le mani ancora intorno alla mia gola, così strette che potevo a malapena tirare il fiato, ed ero troppo stordito per vedere cosa ne era stato dei miei amici. Pregai che fossero fuggiti, non solo per la loro stessa salvezza, ma perché fosse loro risparmiato l’orrore di vedere il loro unico “esperto di Vampiri” sconfitto dall’oggetto della sua caccia.

Sbattei le palpebre e il mondo ruotò nuovamente diventando un opaco muro bianco di marmo. Quindi quello doveva essere il mio destino: avere il cervello spappolato contro la tomba dei Westenra. Non era un destino tanto orribile (considerando le orrende alternative) ma, nel distacco eccezionale causato da quella paura mortale, mi dispiacque lasciare i miei amici, inclusa Miss Lucy, in una situazione così disperata. E anche, stranamente, il terribile disordine che avevo lasciato, disordine che qualche povera anima di classe inferiore sarebbe stata costretta a pulire.

Le mani che mi tenevano si tirarono indietro, poi mi spinsero come una fionda verso il marmo. Devo aver volato non più di una minuscola frazione di un secondo, poiché non eravamo a più di venti piedi di distanza dal muro. Eppure me lo ricordo chiaramente come se ci fossero voluti parecchi minuti, poiché ero consapevole di molte cose: del vento freddo che fischiava oltre le mie orecchie che pungevano, del mio dispiacere nel lasciare Gerda (sebbene sapessi che John ne avrebbe avuto cura nel modo giusto), del mio dispiacere di non vivere per tenere la mano di mia madre sul letto di morte, del mio dispiacere di non aver liberato Miss Lucy dalla maledizione, e infine del mio dispiacere che John dovesse per sempre chiedersi se avevo mentito quando avevo preteso che fosse mio figlio.

Del mio dispiacere, del mio dispiacere, del mio dispiacere…

E dell’incombere del marmo e, persino nella luce fioca, il mio notare ogni disegno nella pietra con morbosa fascinazione. Come sarebbe sembrato lì il mio sangue? Il mio cervello?

Guarda, Brain: ecco la Morte che arriva. Chiudi gli occhi e sii grato di morire senza maledizione.

Così feci, ed ero in attesa, tendendo il mio corpo, dell’impatto che, Dio volendo, sarebbe stato troppo rapido per infliggermi un dolore insopportabile.

Ma l’impatto non venne.

Oh, stavo sospeso e in attesa, con il cuore che martellava come un prigioniero che sta per uscire. Ma sembrava che fossi stato facilitato e impossibilmente fermato da un qualche cuscino invisibile… morbido, fermo, e infinitamente comodo, e tenuto sospeso senza sforzo. Era quella la morte? Era una vita dopo la morte in cui io sudavo, avevo paura, e ascoltavo il battito che mi pulsava nelle vene?

Aprii gli occhi e vidi il marmo bianco a un solo pollice dal mio naso.

Dietro di me udii un’adirata imprecazione in rumeno e, dalla gola di demonio di Lucy, provenne un acuto grido spaventato. Allora la notte si fece improvvisamente calma, e io sentii dentro di me il grande senso di pace che si prova quando il Vampiro è fuggito.

Poi, mentre fissavo, sollevato, il marmo disegnato, sentii e vidi un cambiamento. Il morbido cuscino d’aria che mi circondava si indurì, finché sentii la pelle, i tendini e le ossa che mi sostenevano. Lentamente arrivai a comprendere che il mio mento era appoggiato su una spalla dura, ossuta ma non alta e, con la coda dell’occhio, vidi un tessuto nero, sul quale posavano dei capelli di un bianco radioso.

Cominciai a piangere e, prima che delle piccole e forti mani mi avessero messo in piedi a terra, stavo ridendo e piangendo insieme. Non riuscivo a tenermi su, ma caddi al suolo e guardai degli occhi così profondi che non avrei potuto dare un nome al loro colore, poiché li contenevano tutti: erano occhi infinitamente giovani e infinitamente antichi, infinitamente severi e infinitamente affettuosi, infinitamente addolorati e infinitamente divertiti.

«Arminius!», gridai, con tono di rimprovero e di gioia. «Arminius, perché non sei venuto prima?».

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