Il diario del dottor Seward
5 novembre. Sei giorni di cavallo, nella neve che cadeva e con un freddo tagliente, ma sempre con la vaga sensazione che dietro di noi, appena oltre il mio campo visivo, ci segua una grande oscurità, quell’indaco cupamente luccicante che io sono arrivato a temere. Anche Quincey lo sa, poiché la notte scorsa, quando ci accampammo e sedevamo intorno al fuoco, disse piano:
«Lo senti, Jack?».
Annuii e, il più tranquillamente che potei, dissi:
«Elisabeth».
Lui fece un segno d’assenso e non ne parlammo più. Significa che la deduzione del professore è giusta; ancora non è così potente da poter viaggiare sul fiume e salire a bordo della barca di Dracula quando vuole. Sono contento che abbia scelto di seguire noi e non il professore. Quella era la mia preoccupazione più grande: che lo avrebbe inseguito e ucciso, poi sarebbe salita a bordo della barca e avrebbe tolto la chiave dalla cassa piena dei resti putrefatti di Vlad. Forse teme che noi arriviamo alla chiave prima di lei e che con i nostri talismani la teniamo lontana per sempre. È abbastanza accorta da fallo.
Adesso è appena passala l’alba: il cielo è grigio, con la neve che cade leggera. Mi sono svegliato con la mano di Quincey sulla spalla e la vista lontana di un grosso carro di tzigani, affiancato da un piccolo esercito di zingari, che si affrettavano nel ritornare dalla riva. Quincey ha preparato i cavalli: proseguiamo!».
Il diario di Abraham Van Helsing
5 novembre, mattina. A Veresti, mi sono procurato un carro, una bella squadra di cavalli, e abbastanza provviste che durino per almeno dieci giorni. Con le coperte e le pellicce, Madam Mina e io siamo abbastanza equipaggiati, e facciamo i turni alla guida, mentre l’altro dorme; sento che Zsuzsanna ci segue a considerevole distanza, altrimenti spaventerebbe i cavalli. Viaggiando giorno e notte con alcune soste per far riposare gli animali, abbiamo raggiunto Borgo Pass prima dell’alba, il 3 novembre.
Ieri abbiamo raggiunto il perimetro del castello di Vlad, ma abbiamo messo il campo a una certa distanza da esso. Non volevo portare Madam Mina all’interno poiché, più lei si avvicina, più cade sotto il suo incantesimo; così, mentre riposavamo, ho disegnato intorno a lei un cerchio magico e l’ho chiuso con l’ostia. Non è riuscita a oltrepassarlo, anche quando le ho chiesto di farlo, e così sono stato soddisfatto della sicurezza al suo interno.
Fu la notte scorsa che ci apparvero tre Vampiri bambini: due ragazzi e una ragazzina. Ricordavo il diario di Jonathan, e compresi che dovevano essere la malvagia progenie di Zsuzsanna ed Elisabeth. In quel momento, non ho percepito alcuna traccia di Zsuzsanna; forse è rimasta turbata alla loro vista, o forse era, in risposta a un bisogno disperato, a caccia per il suo sostentamento. Fuori del cerchio, nel chiarore arancione del fuoco, quando presero forma, erano belli, dolci, seducenti e in possesso di una grottesca innocenza. Madam Mina e io eravamo nascosti al sicuro all’interno del nostro cerchio, e lì restammo. Io non sopportavo di vederli, pensando al mio piccolo Jan; guardai, invece, il volto di Mina, e fui profondamente sollevato nel leggervi orrore e disgusto.
Oggi mi sono alzato all’alba, lasciando Madam Mina racchiusa e protetta all’interno del cerchio, e mi sono diretto al castello dove si trovava Zsuzsanna. Non l’aveva detto sebbene ci fossimo accordati che sarebbe servita come avanscoperta, per avvertirci quando Dracula ed Elisabeth si fossero avvicinati. La fredda aria del mattino era stranamente elettrica; quello era il giorno, lo sapevo. Era il giorno…
Era un compito molto triste quello che avevo davanti, nella tana dell’Impalatore; ero stato all’interno del castello due decenni prima: la prima volta, in un inutile e tragico tentativo di salvare il mio fratello adottivo, e l’altra, per uccidere quella malvagia creatura che era diventato il mio povero, piccolo Jan. Ogni pietra scura, ogni stanza dall’odore di decadenza, era carica di ricordi angosciosi.
Anche grazie a questo avevo imparato, molti anni prima, quando Arminius mi aveva insegnato la dolorosa arte della caccia ai Vampiri, a indurire il mio cuore contro l’emozione e ad avvicinarmi al compito con freddezza e impassibilità. Così feci quando trovai la tana dei tre bambini: due di loro erano rannicchiati insieme, dolcemente addormentati nella stessa, larga bara. Non ebbi alcuna pietà; non finché non ebbi colpito con palo e coltello e vidi quei corpi immortali, scintillanti, trasformarsi in semplici resti umani. Soltanto allora piansi per loro, per le loro madri e i loro padri.
E, quando li ebbi pianti ed ebbi bisbigliato sulle loro tombe una preghiera per i morti, mentre mettevo in ogni bara un pezzo di ostia, mi venne in mente la quinta riga:
Al primo ritorno e il castello nel folto della foresta.
Ero lì, all’interno del castello, ma da dove avrei dovuto cominciare per cercare la seconda chiave? Vagai un po’ per ogni stanza: sia nella vasta sala del trono di Vlad, con il suo Teatro di Morte, sia nella stanza interna dove si trovava la sua grande bara gentilizia.
Sigillai questa con una parte dell’ostia e di nuovo mi misi a girovagare, esaminando ogni cosa in ogni stanza, in cerca di indizi, di posti dove avrebbe potuto essere seppellito qualcosa. Non tralasciai alcun luogo, nemmeno le orribili catacombe di terra nelle profondità del castello… più orribili, per me, anche del Teatro di Morte, poiché molte persone avevano incontrato la loro fine in quelle celle che trasudavano malvagità, e molte vi avevano sofferto una lunga prigionia. E così tante erano le centinaia — o forse le migliaia — che si trovano sepolte lì, che ne potevo sentire le ossa che gridavano per il dolore.
Era tardo pomeriggio quando emersi a mani vuote. Perplesso, mi stavo dirigendo lungo la scalpata verso il nostro piccolo accampamento, quando Zsuzsanna mi apparve davanti, così improvvisamente che mi spaventai.
I suoi occhi scuri erano in fiamme, e la sua pelle pallida riluceva… non di magico fascino, ma di pura ansia.
«Vengono!», disse. «Vengono, ed Elisabeth li segue!».
Senza pensare, allungai le mani e le afferrai le braccia, lasciandole ricadere solo quando lei indietreggiò e gemette per il dolore.
«È Dracula che sta arrivando?», chiesi.
«Gli tzigani trasportano la sua cassa nel loro grande carro: sono in molti, che lo circondano e portano armi».
«E il nostro gruppo?»
«Ci sono tutti! Li seguono a cavallo… ed Elisabeth segue loro».
Altrettanto improvvisamente scomparve come era apparsa.
Corsi rapidamente giù dove Madam Mina si trovava all’interno del cerchio, agitando le braccia verso di me con gioiosa eccitazione.
«Dottore!», gridò. «Dottor Van Helsing! Dobbiamo affrettarci!». E puntò il dito verso est. «Mio marito sta arrivando!».
Le sue parole evocarono dentro di me una eguale eccitazione… e anche un certo disagio, poiché lei era mentalmente legata non a Jonathan ma a Vlad; a chi si riferiva? Ma la sua gioia era così innocente e i suoi occhi così puri — come quelli della nostra vecchia Madam Mina — che le sorrisi e ripresi i pezzi di ostia dalla neve, liberandola.
Così scendemmo faticosamente per la ripida scarpata che dava a est, io portando le pellicce, i tappeti e le provviste, finché il castello apparve alto sopra di noi contro il cielo rannuvolato. Trovai un incavo all’interno di una grande roccia su un fianco della montagna, lo rivestii di pellicce e lo chiusi in un cerchio, lo sigillai nuovamente con l’ostia e vi sistemai confortevolmente Madam Mina.
Sotto di noi si snodava la strada che portava in alto al castello. Dalla tasca tirai fuori un binocolo; sebbene un vento forte avesse improvvisamente cominciato a soffiare e la neve continuasse a cadere leggera, distinsi le scure figure degli tzigani che cavalcavano ai lati del carro, a un’andatura talmente veloce che il carro oscillava pericolosamente da un lato all’altro, arrivando quasi a far uscire dalla strada alcuni degli uomini a cavallo che lo accompagnavano.
All’improvviso, provenienti da nord, vidi alcune scure figure a cavallo che rapidamente si avvicinarono agli zingari… e, con un grido di contentezza, riconobbi il grande Stetson di Quincey Morris… bianco, ma non bianco come la neve che turbinava.
«Grazie a Dio!», gridai, sollevato che fossero loro, e non Jonathan Harker, ad avvicinarsi per primi al carro, quindi abbassai il binocolo per passarlo alla mia eccitata compagna. «Madam Mina, guardate!».
Il diario di Zsuzsanna Tsepesh
5 novembre. Lasciai Bram e Mrs. Harker sulla collina, e scesi fino a dove gli tzigani cavalcavano accanto alla grande cassa di legno. Sapevo di doverli fermare, e anche rapidamente, prima che Elisabeth arrivasse, poiché sentivo che si avvicinava, in attesa del momento migliore per prendere la chiave. Così volai verso la strada, perfettamente invisibile, e rimasi sospesa tra i due cavalli che tiravano il carro. Con delicatezza, misi le mie mani sui loro musi.
L’effetto fu immediato. Le povere creature, spaventate, indietreggiarono immediatamente, facendo sì che il carro oscillasse follemente da un lato e quasi si rivoltasse. Il conducente imprecò e l’esercito di zingari fermò le cavalcature, che fecero uno scarto davanti alla mia invisibile presenza.
Nello stesso istante si udì il rimbombo di zoccoli che si avvicinavano, e una voce calma, forte, che gridava: «Alt!». Sorrisi, poiché la voce apparteneva a Quincey Morris, e lui e John Seward stavano arrivando di corsa come i Cavalieri dell’Apocalisse, interessati solo alla vendetta divina. Una volta che avessero avuto la chiave, i loro talismani li avrebbero protetti da Elisabeth, e noi saremmo fuggiti tutti e avremmo pensato a un piano contro di lei; ero sopraffatta dalla gioia, poiché eravamo così vicini, così vicini alla prima vittoria…
Ma, all’improvviso, a quegli zoccoli rumorosi se ne unirono degli altri, poiché dalla parte opposta stavano arrivando Harker e Lord Godalming. Godalming lottava coraggiosamente per sorpassare il suo compagno. Potevo vedere la smorfia d’angoscia sul viso di Sua Signoria mentre frustava il suo destriero perché andasse sempre più veloce, ma Jonathan cavalcava come una furia mortale sputata dalle fauci dell’Inferno, con una velocità nata da una disperazione immortale.
«Alt!», gridò con una voce così forte che persino gli tzigani lo guardarono con timore. Ora gli zingari erano intrappolati in uno stretto spazio tra i nostri uomini e, per rendere chiare le loro intenzioni, Seward, Godalming e Morris alzarono i loro fucili Winchester (notai solo che il fucile di Godalming era posizionato in modo tale che, con un minimo movimento, egli poteva rapidamente avere Harker sotto tiro).
E, sulla roccia soprastante, c’era Van Helsing, che puntava il suo fucile sul colorato esercito che si trovava sotto di lui. Anche così, gli zingari tirarono fuori i coltelli, e il loro capo indicò il sole rosso, che ora baciava le cime delle montagne. Di nuovo accarezzai i musi dei cavalli per creare un’utile distrazione e, di nuovo, essi indietreggiarono.
Ma soltanto uno del nostro gruppo ne ricavò un vantaggio. In un attimo, Harker lasciò andare il suo fucile che rimase appeso alla tracolla, sfoderò il suo kukri e, con coraggio inumano, si gettò contro il muro di uomini armati che difendevano il carro. Dal lato opposto, Morris fece lo stesso con il suo coltello Bowie nello sforzo di raggiungere la cassa ma, ahimè! Jonathan la raggiunse per primo e, con forza vampiresca, la sollevò e la gettò a terra.
Balzò quindi giù e cominciò ad aprirne il coperchio con il suo coltello; Morris, che era arrivato fin lì con solo poche ferite superficiali sulle braccia e sul viso, saltò giù anche lui e attaccò l’altra estremità della cassa con il suo Bowie. Nel frattempo, vidi che la mira di Van Helsing era cambiata, e anche quella di Godalming, nel caso in cui Jonathan avesse preso la chiave.
Presto il coperchio della cassa fu aperto, e lì giaceva Vlad, indifeso e in pericolo, con gli occhi rossi per la rabbia e per la luce del sole che stava tramontando. Poi la sua rabbia si trasformò in trionfo quando il sole scivolò giù oltre l’orizzonte…
Ma il suo trionfo durò meno di un secondo. Il coltello curvo di Harker trapassò la gola dell’Impalatore mentre, nello stesso istante, l’arma di Morris affondava profondamente nel cuore del Vampiro.
Gli spaventati tzigani voltarono i loro cavalli e corsero via, abbandonando il carro. Rimasi a guardare con amara gioia mentre il corpo del Vampiro si disintegrava in polvere: semplice polvere, sollevata dal vento che turbinava lasciando vedere al di sotto una piccola chiave d’oro.
Era più vicina a Morris, che si chinò per prenderla; immediatamente, Harker avanzò per abbracciarlo, come per fare festa. Ma, mentre si tirava indietro, vidi il chiaro lampo del coltello kukri… insanguinato, mentre lo estraeva dal petto di Morris.
L’uomo ferito gemette e cadde in avanti, a metà nella bara. Insensibile, Harker infilò un braccio sotto di lui, tastando per trovare la chiave; timorosi di fare altro male a Morris se avessero fatto fuoco sull’aggressore, gli altri due uomini corsero alle spalle della coppia. Il gentile Seward, che avevo giudicato incapace della minima violenza, alzò il calcio del suo fucile e lo abbassò con forza sul cranio di Harker, poi si chinò per riprendere la chiave, ma io fui più veloce e, con una rapida mossa, presi l’oggetto luccicante e mi diressi velocemente verso il castello.
Subito il cielo si oscurò: non per la notte, ma con uno scoppio di scintillante indaco che si rifletteva oscuramente sulla neve caduta. Elisabeth era apparsa, lo sapevo, ma io non osavo guardare dietro di me. Dato che gli altri non possedevano la chiave dorata, lei sarebbe stata troppo indaffarata nella ricerca per far loro del male.
Mi precipitai con la chiave verso il castello, senza altro piano che l’istinto, senza alcun desiderio se non quello di proteggere gli altri. Nel mio cuore, sapevo che dovevo trovare la seconda chiave, e nasconderla in qualche modo a Elisabeth… ma ciò che il mio cuore desiderava, il mio cervello non riusciva a trovare un modo per farlo.
Anche così, volai verso le montagne in direzione del castello, con la chiave chiusa strettamente nella mano. Tutto era diventato silenzioso mentre gli uomini curavano Quincey; non udii niente tranne l’estrema tranquillità e un suono che mi seguiva, riecheggiando dalle montagne.
Era la risata di Elisabeth.
La risata di Elisabeth…
Il diario di Abraham Van Helsing
5 novembre, continua. Con orrore, Madam Mina e io guardammo mentre Jonathan pugnalava brutalmente Quincey; l’orrore di lei continuò quando John si fece avanti e diede a a suo marito un forte colpo sulla testa con il fucile ma, in verità, io provai solo sollievo. Mentre lei piangeva silenziosamente coprendosi il viso con le mani, le tolsi gentilmente il binocolo e guardai di nuovo.
Ma la mia speranza e l’emozione cambiarono ancora in paura quando John e Arthur cercarono inutilmente la chiave mancante nella cassa di terra. In qualche modo Elisabeth doveva averla rubata… o era stato Arkady, o Zsuzsanna? O non era mai stata nella cassa?
Quando Seward e Arthur rinunciarono alla ricerca e si inginocchiarono per curare il loro amico mortalmente ferito, la neve intorno ad essi brillò di colore indaco, con tale intensità da farmi comprendere che poteva annunciare soltanto l’arrivo di Elisabeth.
Così fu. Apparve in una gloria radiosa, più chiara della luna piena e infinitamente più irresistibile, e con un gesto della mano fece cadere John e Arthur silenziosamente sulla neve. Lo svenuto Harker provocò da parte sua solo un’alzata di spalle in segno di disgusto ma, quando guardò nella bara vuota, scoprì i denti con rabbia ferina e poi alzò lo sguardo in direzione del castello e cominciò a ridere.
«Zsuzsanna!», gridò, con maliziosa gaiezza. «Mio sciocco amore! I mortali possono proteggersi da me — per il momento — con i loro sciocchi incantesimi, ma tu, mia cara, non puoi. Certamente la chiave non può proteggerti… Sai bene cos’ha fatto a Vlad!».
All’improvviso scomparve, e John e Arthur si rialzarono lentamente in ginocchio. Io porsi a Madam Mina, che era ancora sconvolta, il binocolo e, prendendola per le braccia in modo rassicurante, dissi:
«Cara Madam Mina, non siate addolorata. Siete libera dall’influenza del Vampiro… e presto lo sarà anche vostro marito. Rimanete qui nel cerchio, che vi proteggerà da ogni male e, se Jonathan si dovesse avvicinare, non gli date retta e restate dentro!».
Quindi corsi verso il castello. Ciò che avrei potuto fare lì, non lo sapevo, ma Elisabeth sapeva che Zsuzsanna si era recata lì con la prima chiave, e così io ero costretto a seguirle. Ma il panico più profondo che abbia mai conosciuto mi strinse il cuore e i polmoni, tanto che faticavo a respirare. Dovevo trovare la prima chiave in qualche modo e impedire che Elisabeth trovasse la seconda… ma come?
Sopra il castello si stava raccogliendo una grande ombra che incombeva su lutto: un’oscurità più nera delle profondità della notte, un segno dell’imminente arrivo dell’Oscuro. Sotto il cappotto, la mia pelle rabbrividì; quella era l’immagine di cui ero stato avvertito in sogno, il sogno in cui ero stato completamente, irrevocabilmente, inghiottito, divorato da quell’oscurità.
Lungo la strada sul fianco della collina, pregai fervidamente con ogni affannoso respiro.
«Arminius, aiutaci! Arminius, aiutaci…».
Il diario di Zsuzsanna Tsepesh
5 novembre, continua. Con la chiave in mano, sono entrata nel castello dopo una corsa disperata, sebbene non sapessi dove avrei trovato rifugio. Così corsi follemente di luogo in luogo, cercando, senza sapere cosa cercavo. Prima nella stanza del trono di Vlad, poi nella stanza che Dunya e io avevamo diviso, e nelle camere in cui mi ero divertita con Elisabeth…
Infine andai nella cappella, pensando a Carfax e all’“incrocio”, ritenendo che forse lì avrei potuto trovare la seconda chiave e consegnare entrambi i tesori nelle mani di Van Helsing. Ma, mentre stavo lì tentennando, in mezzo a bare rotte e in rovina, i miei occhi furono feriti da una radiosità abbagliante, fortissima: un chiarore che era, nello stesso tempo, oscuro.
Mi ritrassi, ma era troppo tardi. Elisabeth stava accanto a me, più soprannaturalmente bella di quanto l’avessi mai vista, e più crudele. Le sue labbra erano fisse in una smorfia di scherno, e i suoi occhi… la freddezza, il vuoto, l’odio, che vidi in essi, non lo dimenticherò mai! Ebbi la sensazione di guardare una vipera squisitamente ingioiellata, pronta a colpire.
Mi afferrò il polso, così forte che l’osso scricchiolò, e allora gridai per il dolore; nell’udire il mio gemito, il suo sorriso si allargò.
«Di noi due», disse, «direi che il tempo ha trattato me con più gentilezza: tu hai un aspetto meno bello, mia cara».
«Faccio un uso migliore del mio potere», risposi, poi gridai ancora mentre lei mi torceva la mano facendole fare un giro completo e apriva un dito per volta; sorridendo, mi prese la chiave.
Un improvviso chiarore risplendette dal suo ventre; vi lasciò cadere la chiave, poi tirò fuori dallo stesso luogo la bianca pergamena rilucente. Mentre la spiegava, sotto il testo dorato apparve un’altra riga di lettere lucenti:
Nella prigione in mezzo alle ossa giace la donna con il cuore d’oro: la seconda chiave.
«Le ossa!», domandò, scuotendomi il braccio con forza quasi divina. «Dov’è la prigione? Parla, mia cara! Tu conosci questo posto meglio di me!».
Ero impotente in sua presenza e provavo vergogna per la mia impotenza; quando affondò i suoi denti regolari nella mia spalla e lacerò stoffa e carne, non riuscii a trattenere un grido.
«Dio, pregai in silenzio, od Oscuro, non mi importa chi! Fai come vuoi… infliggimi i peggiori tormenti per tutta l’eternità, ma solo permettimi di fermarla…
«La prigione!», gridò ancora, poi rimase in silenzio; uno sguardo ispirato alleggerì la malvagità della sua espressione. «Sì… il posto con le ossa, dove tu mi conducesti a vedere Arkady… Portamici immediatamente!».
«Ti ci porterò», dissi, «se tu risponderai a una sola domanda. Chi l’ha fatto rivivere?».
I suoi occhi si strinsero.
«Allora lo hai incontrato, suppongo… Bah! È stato uno spreco, uno spreco di energia. Tu mentivi: dicevi che voleva distruggere Vlad. Quale beneficio mi ha apportato?»
«Al prezzo di Dunya», osservai amaramente. «Hai ucciso lei per far rivivere lui…».
Lei non lo negò, ma mi scosse malamente, dicendo:
«Fai strada! Portamici adesso… e sappi che più tardi pagherai per questa insolenza. Quando diventerò potente come l’Oscuro Signore, stanotte, ti metterò in gabbia nella Vergine per tutta l’eternità! E tu, mia cara, sarai la prima ad essere testimone della mia trasformazione e della mia vendetta; hai guadagnato questo dal tuo tradimento».
Non sapevo cos’altro fare, così la condussi all’entrata principale del castello, poiché era soltanto risalendo che potevamo poi scendere fin dove intendeva andare. E, mentre passavamo di lì, lei si fermò mentre la grande porta principale si spalancava, e sorrise alla vista di Bram, affannato, con gli occhi sconvolti, sulla soglia.
«Dottor Van Helsing», disse con ironica dolcezza. «Come siete gentile a farci visita! Temo di essere, al momento, occupata con uno dei vostri parenti, ma non temete! Ritornerò da voi… sia che fuggiate con la nave, con il treno o con il carro; non importa. Vi troverò e farò fare a voi e ai vostri amici una spiacevole fine».
Fece quindi un gesto con la mano verso di lui, come una gelida signora potrebbe scacciare un servo; subito lui cadde all’indietro, in silenzio.
Bram, gli dissi in silenzio, prendi gli altri e fuggi. Dovete trovare Arminius…
Lo lasciai lì e la condussi nel profondo delle viscere del castello, nell’umida cantina scavata nella terra, ora completamente piena delle ossa dei molti che vi erano morti tra i tormenti.
«La donna», disse Elisabeth, con la voce bassa per l’ansia. «Dove sarebbe la donna con il cuore d’oro?».
Onestamente non lo sapevo.
«Questi sono, per la maggior parte, uomini», dissi, indicando verso il basso la terra ricoperta di ossa, «ma alcune sono donne. Non so immaginare dove…».
Le mie parole furono cancellate da un vento potente, che alzò la terra compressa e cominciò a farla roteare, finché la stanza fu piena di sabbia pungente e turbinante. Mi coprii il viso finché essa si posò, poi abbassai le mani e vidi che i miei piedi erano fermi sopra un’ineguale piattaforma di scheletri ammassati, tutti così vecchi che le ossa si erano staccate ed erano sparse disordinatamente. Migliaia e migliaia di scheletri, così tanti da farmi comprendere che essi e non la terra costituivano le fondamenta del castello.
Solo un piccolo punto emergeva tra quel macabro intrico di avorio ingiallito: l’angolo dov’era il catafalco di Arkady, dal quale la polvere e la bara di Dunya adesso erano stati rimossi. Il catafalco di pietra restava ma, sotto di esso — da secoli, circondato da gambe, braccia e mani d’ossa e da dita senza carne che afferravano la sua lucida superficie — vi era una bara di acciaio lucente.
Sempre tenendomi per il braccio, Elisabeth mi trascinò verso di essa… poi lentamente allentò la presa con un sorriso astuto, sapendo che non sarei potuta scappare da lei in quel momento. Stringendo con una mano il manoscritto, usò l’altra per spingere di lato il solido catafalco di pietra, facilmente, come una donna mortale potrebbe spingere una sedia.
La pietra cadde rivoltandosi su altre ossa, schiacciandole quando cadde su un lato. Entrambe ci chinammo sulla bara per leggere l’iscrizione che vi si trovava, in rumeno arcaico:
Con un sibilo di trionfo, Elisabeth tolse il coperchio e lo gettò di lato; esso cadde rumorosamente sulla pietra, rompendola.
All’interno si trovava uno scheletro piccolo e fragile, con la mascella disintegrata, tanto che il cranio era caduto in avanti sulle ossa del collo e giaceva perpendicolarmente alle costole. Sotto la testa c’era una lunga striscia di capelli neri in decomposizione; sotto le braccia incrociate un pezzo di seta ingiallita a brandelli.
E a sinistra dello sterno vi era un medaglione di oro martellato, leggermente più grande di quanto doveva essere stato il vero cuore della signora. Nel centro c’era una piccola serratura e, sopra la serratura, scritte in latino, c’erano le parole:
Subito Elisabeth lo agguantò e, con la mano che tremava, trasse la piccola chiave d’oro dal suo seno e la fece scivolare nella serratura.
Vi si adattò senza difficoltà, con uno scatto. Mentre lo apriva lentamente, mi guardò con un oscuro, cupo sorriso.
Il diario di Abraham Van Helsing
5 novembre, continua. Mentre entravo barcollando e ansimando nel castello, ancora sconvolto per la sensazione della vicinanza dell’Oscuro, incontrai per caso Zsuzsanna, crudelmente intrappolata nella potente stretta della contessa di Bathory. Quella vista mi riempì di una disperazione ancora più grande. Elisabeth era in possesso della prima chiave! Ma non aveva ancora scoperto la seconda e risolto il mistero, poiché non appariva più potente di quanto fosse sembrata fuori, sulla neve. Ma come potevo fermarla?
L’espressione di Zsuzsanna era calma, senza paura; non disse una parola mentre Elisabeth si prendeva gioco di me, mi minacciava, e mi faceva cadere a terra come aveva fatto con gli altri, con un semplice gesto. Ma, prima che la contessa trascinasse via la sua prigioniera, promettendo di ritornare da me più tardi, Zsuzsanna catturò il mio sguardo.
E le sue silenziose parole mi riempirono la testa: Bram, prendi gli altri e fuggi. Trova Arminius…
Andava incontro, lo sapevamo tutti e due, al più spiacevole dei destini, ma sembrava estremamente rassegnata al suo fato, come se lo meritasse, e non mostrò altro che preoccupazione per me. E, in quell’istante, le perdonai lutto.
Arminius! Dannato Arminius! Una volta che entrambe furono scomparse, mi alzai in ginocchio e singhiozzai, scuotendo il pugno verso l’aria vuota, pregando perché il mio protettore apparisse e mi aiutasse.
Da qualche punto sotto di me, nelle viscere del castello, udii il grido soffocato di Zsuzsanna, e mi alzai pieno d’ira. Non sarei stato a guardare. Avevo visto la direzione in cui erano andate, e la seguii finché trovai una botola che chiaramente conduceva di sotto. Ma era bloccata. Non riuscii ad aprirla e non riuscii a entrare: non potei fare altro che lamentarmi in preda a un’impotente frustrazione. Tra pochi minuti, forse anche prima, Elisabeth sarebbe ancora emersa, e nessun talismano in tutto il mondo l’avrebbe fermata.
Così mi sedetti sul pavimento, tenendomi la testa tra le mani e, agnostico quale sono, pregai Dio.
Nella mia testa, una voce parlò ancora: era la voce benedetta di Arminius.
Abraham, figlio mio. Siamo vicini alla sconfitta. Soltanto una cosa può fermarla: stipula tu un Patto con l’Oscuro Signore, e compra la nostra vittoria.
«No!». Mi premetti le mani contro il cranio, per fame uscire quelle cattive parole. «No!».
Di nuovo pregai Dio, ma, nuovamente, Dio rimase in silenzio. Arminius parlò ancora. Dio non ti può aiutare adesso. Solo l’Oscuro Signore lo può.
Il pavimento rimbombò come per un terremoto e da sotto provenne l’ululato di una forte tempesta. Cercai di alzarmi in piedi, di riprendere a camminare, ma persi l’equilibrio e caddi su un ginocchio. Con l’immaginazione vidi la grande oscurità incombente del sogno e mi vidi divorato da essa…
E poi l’immobilità. Un’immobilità così profonda che fui pieno di un terrore differente, in attesa del suono della voce di Elisabeth accanto a me.
«Oscuro Signore!», gridai. «Ascoltami! Io, Abraham Van Helsing, farò un Patto con te!».
Riuscii a malapena a pronunciare quelle parole, prima che la terribile oscurità apparisse, con la grande ombra del sogno che avanzava e cominciava a turbinare: era più cupa dell’indaco, più profonda del nero; più profonda della notte, della morte o dell’eternità.
Eppure era un’entità, un essere. Mentre si avvicinava, sentii la sua intelligenza e mi alzai in piedi per salutarla da uomo. Padroneggiai la mia paura, nascosi il mio tremore, e gridai severamente:
«Farò un Patto con te. La mia vita in cambio della distruzione di Elisabeth».
Dal centro di quella oscurità turbinante provenne una voce sottile, gentile.
L’Oscuro Signore non scambia vita con vita. Parlami di anime. Parlami di eternità.
«La mia anima», gridai, «in cambio della distrazione di Elisabeth!».
Io offro soltanto immortalità: la maledizione del Vampiro. Che cosa mi offri in cambio?
«Non diventerò un Vampiro! Non prenderò viventi o morti! Perché non mi puoi prendere come sono?».
L’oscurità cominciò a svanire, a tornare indietro, a ritirarsi da me; di sotto, udii l’urlo terrorizzato di una donna. Per un terribile istante, credetti che fosse troppo tardi: che Elisabeth fosse diventata forte come l’Oscuro Signore.
«Benissimo!», bisbigliai con amarezza. «Sarò un Vampiro… ma uno molto più forte di Elisabeth, più potente di lei… in cambio della mia anima. In cambio della sofferenza di tutto il mondo, se mi renderai capace di sconfiggerla».
Immediatamente, una sensazione di calma infinita e di accettazione mi invase e, quando l’oscurità fluì sopra di me come le più profonde acque dell’oceano, non provai paura. Quando, alla fine, mi inghiottì, mormorai:
«Se devo essere tuo, mostrami il tuo volto».
Al suo centro apparve un piccolo punto di luce dorata, che cominciò a crescere…, sempre più chiaro, sempre più ampio, finché la sua radiosità scacciò tutta l’oscurità. Accecato, chiusi gli occhi. E, quando li riaprii, vidi, davanti a me, il mio amato mentore, Arminius.
«Ci incontriamo ancora, Abraham», disse, sorridendo. «Come ti ho detto molto tempo fa: esistono molti tipi di Vampiri… e io ne sono il capo».
Il diario di Zsuzsanna Tsepesh
5 novembre, continua. Guardai il viso di Elisabeth mentre lei esaminava il contenuto del medaglione: lo guardavo con attenzione in cerca del cambiamento che avrebbe annunciato la mia distruzione.
La sua espressione si fece intenta, poi confusa, quindi frustrata, mentre mormorava: «Ci deve essere dell’altro!». Quindi lo allontanò e lo rivoltò tra le mani per esaminarlo più da vicino, come a cercare una molla nascosta; poi tirò fuori ancora una volta il manoscritto e lo lesse con attenzione, attendendo un po’ nella speranza che sarebbe apparsa un’altra riga.
Infine, con un grido di rabbia, gettò via il medaglione, con la chiave ancora attaccata, nel mucchio di ossa vicino ai miei piedi. Mi chinai e cercai di arrivare ad esse, ma non ci riuscii; la chiave era caduta tra gli strati di ossa e il medaglione stava a faccia in giù oltre la mia portata, così che non riuscivo nemmeno a voltarlo per vederne il contenuto.
Sopra di noi, un’improvvisa oscurità velò la volta: un’oscurità che si muoveva, come il temporale più furioso e minaccioso. Si abbassò sempre di più finché si fermò come una colonna davanti a Elisabeth, coagulandosi finché fu così densa che io ebbi la sensazione di poterla toccare come avrei fatto con un essere umano.
Con un ringhio, Elisabeth si gettò sul pavimento di scheletri, scavando tanto disperatamente per raggiungere gli oggetti caduti, da ignorare il manoscritto, che cadde accanto a lei.
«Non ne hai il diritto!», gridava all’oscurità. «Questo momento è mio, questi ciondoli sono miei e, se tu me li togli…».
Esitò nella sua rabbia farfugliante, comprendendo evidentemente che non c’era alcun modo per minacciare quell’entità. Con un urlo demoniaco, si voltò per fuggire.
Ma non poté poiché, accanto a lei, c’era Bram, che riluceva di una luce interna molto più forte della sua. Lei si mosse per oltrepassarlo e si scoprì intrappolata tra l’oscurità e la luce di lui.
Io mi voltai stupefatta verso la colonna, e vidi al suo posto un bambino radiosamente bello. Nelle sue mani c’erano il manoscritto e il medaglione caduto, ed egli me li offrì entrambi.
Li presi con reverenza, posai la pergamena luccicante, e feci scorrere le mie dita sul messaggio esterno del medaglione: ETERNA DIVINITÀ. Poi, come fosse un libro, aprii il cuore — lo aprii come se fosse il mio — e sui fogli interni lessi:
Cominciai a piangere poiché mi ricordai intensamente la sofferenza dei miei antenati, di mia madre e di mio padre, dei miei cari fratelli, di mio nipote e del suo piccolo figlio, di sua moglie, e quella di tutte le mie vittime e delle loro famiglie. Piansi e compresi profondamente il costo della paura e dell’avidità.
«Zsuzsanna», chiese dolcemente il bambino. «Capisci e accetti?».
Annuii, troppo colpita per parlare, e il bambino mi tese le mani e mi aiutò ad alzarmi.
«Un bacio, allora», disse. «Soltanto un bacio…».
Mentre mi chinavo per obbedire, egli scosse severamente la testa. Sentii che le sue mani crescevano e cambiavano dentro le mie e che la sua statura aumentava; i suoi riccioli d’oro diventavano bianchi e crescevano della lunghezza di decenni.
«Arminius», bisbigliai, alla qual cosa egli rispose, sorridendo:
«Tu non ti inchinerai a me».
Cademmo l’uno nelle braccia dell’altro, e ci abbracciammo.