Capitolo nono

Il diario di Zsuzsanna Dracul


13 agosto. Sto scrivendo sulla nave, durante il ritorno a Londra dopo una breve visita ad Amsterdam (i trasporti pubblici olandesi sono così puliti!). Che io partissi è stata, inizialmente, un’idea di Elisabeth. Per un po’ di tempo siamo state entrambe di cattivo umore, poi ho sentito diminuire la mia forza, nonostante il fatto che mi sia riempita di sangue “blu”. Anche Elisabeth sembra più pallida, più debole, e così irritabile che ho cominciato a evitarla. Mi spaventa; mi preoccupo per la possibilità che Vlad abbia gettato su di noi un qualche tipo di incantesimo.

Londra è ancora piena di una miriade di meraviglie, ma io comincio a perdere interesse in quello che precedentemente mi faceva piacere. Quanti vestiti nuovi uno può avere? Ne ho una stanza piena. Sono tutti belli e mi piace indossarli, ma il mio desiderio per essi ora è appagato, mentre comincio a diventare inquieta…

Senza dubbio Vlad è arrivato sulle coste inglesi, ma ancora non è apparso in nessuna delle sue proprietà: Carfax, Mile End, Bermondsey, Piccadilly. Noi le visitiamo ogni giorno sperando di trovarlo ma, ogni giorno, le nostre speranze sono infrante.

Alcune sere fa, Elisabeth mi si è avvicinata sorridendo, per la prima volta in molti giorni, con uno sguardo deciso sul viso.

«Vlad è in ritardo», ha detto, «e noi stiamo entrambe diventando terribilmente ansiose nell’attesa. Ma perché? Tu dici di sapere dove vive Van Helsing. Perché non sorprenderlo lì durante il giorno e portarlo qui? Infatti, se Vlad sa che noi abbiamo Van Helsing, sarà forzato a trattare con noi».

«Perché non uccidere semplicemente il dottore?», chiesi in risposta, poiché ero ansiosa di farlo e così vendicarmi dell’assassino del piccolo Jan.

Schioccò la lingua in segno di disapprovazione. «Ma che divertimento c’è, Zsuzsanna? Se Van Helsing muore, Vlad semplicemente si dissolverà in polvere. No, dobbiamo usare Van Helsing per attirarlo da noi. Io, per quanto mi riguarda, intendo vedere entrambe le loro morti e infliggere loro tanta sofferenza quanta essi ne hanno inflitto a te!».

«Benissimo!», acconsentii, sebbene fossi segretamente decisa a ucciderlo comunque. «Quando partiremo?»

«Non tutte e due, piccolina. Andrai tu: solo tu conosci Van Helsing e la sua casa. Io conosco Vlad, e così lo aspetterò qui; qualcuno deve controllare le sue case ogni giorno».

L’idea di lasciarla sola mi tormentava. Dal tempo di Dunya, sapevo che era capace di infedeltà; ancora più penoso era il pensiero della stanza di tortura sotto la casa. La sua irritazione era dovuta alla sua ansia di provarla? Mi aveva giurato che non l’avrebbe fatto, che “collezionava” soltanto quegli orrendi congegni per divertimento, ed era un fatto che io non li avevo ancora trovati usati.

Eppure, non mi fidavo di lei.

Fiducia o no, la logica vinse. Un giorno, mi trovai davanti alla porta di Van Helsing. Non mi travestii, ma indossai soltanto un cappello con un po’ di velo, dimodoché, se lui avesse guardato fuori, non mi avrebbe riconosciuto immediatamente. Tutto ciò di cui avevo bisogno era che aprisse la porta di uno spiraglio — non di più — e io gli avrei facilmente potuto tirare un colpo fatale.

Suonai e, dopo un buon minuto, la porta si spalancò; la donna che rispose aveva i capelli grigi e la mascella quadrata. Mary?, stavo quasi per chiedere, ma non poteva essere: quella donna era troppo grossa e alta. Per un istante, regnò la confusione: ero venuta nella casa sbagliata? Oppure i Van Helsing si era trasferiti? No, la casa era quella, e la targhetta di ottone sulla porta portava scritto A. VAN HELSING, M.D., con una frase in olandese che non riuscii a decifrare.

«Sto cercando il dottor Van Helsing», dissi esitando, in inglese.

La donna aggrottò la fronte severamente e scosse la testa. Allora tradussi la frase in francese, senza successo, ma il mio tedesco evocò un caldo sorriso.

«Ah», disse, con un accento da madrelingua e ovviamente sollevata nell’udire il proprio idioma. «Il vostro tedesco è eccellente! Ma temo che il dottore non prenda appuntamenti a quest’ora». E indicò la targhetta di ottone sopra il campanello, poi rise tra sé. «Ma, naturalmente, voi non parlate olandese!».

Sorrisi graziosamente e tirai indietro il mio velo per esporla sia alla mia bellezza che ai miei occhi ipnotizzatori.

«Io non sono una paziente, ma una parente. Sono qui in visita», aggiunsi.

Schioccò la lingua.

«Ah, povera cara! Spero che non siate venuta da lontano…».

«Da Vienna».

Sapevo, già prima che me lo dicesse, che il professore non era lì; il mio cuore si rattristò nell’apprenderlo.

«Se ne è andato». Si fermò e sembrò ritornare in sé. Feci del mio meglio per farla cadere in trance, ma lei continuava a guardare altrove, senza cooperare. Era una donna molto volitiva. «Si trova all’estero».

Distolse lo sguardo: mentiva, naturalmente. «In molti luoghi. Non ho un itinerario preciso». Poi, quando mi guardò nuovamente, mi accorsi di un’improvvisa scintilla di un sospetto nel suo sguardo. «Siete una parente? Chi siete?»

«Sua cognata».

I suoi occhi si restrinsero.

«Ho vissuto ad Amsterdam per molti anni e conosco il dottore da un po’ di tempo. Non ha fratelli».

Sospirai di onesta frustrazione, decidendo che, se non mi avesse fatto entrare di lì a pochi secondi, le avrei rotto quel grosso collo.

«So che suona strano… ma sono, in realtà, la cognata di sua madre. Vedete, il fratello di Mary era molto più giovane di lei, e…».

Il ghiaccio si sciolse, lasciandola più disponibile ma con un’espressione stranamente tragica.

«Ah, povera Mary…».

Finsi un allarmato interesse.

«È morta? Bram è un corrispondente talmente terribile; non mi dice mai niente. Gli scrissi alcune settimane fa dicendogli che stavo arrivando, ma lui non mi ha mai risposto…».

«Povera cara! Com’è terribile per voi saperlo in questo modo. No, la povera signora Van Helsing — la signora Mary, come la chiamo io — non è morta, ma temo che non ci manchi molto. È malata di cancro terminale».

Mi portai la mano guantata di pizzo alla bocca e trattenni il respiro per l’orrore.

«Allora è qui?»

«Sì, sì: la vorreste vedere?».

Tenni le labbra coperte per un altro istante, in modo che non le vedesse curvarsi verso l’alto in un sorriso.

«Moltissimo. Sono triste per non aver trovato qui Bram, ma…».

Ma potevo sapere molto da sua madre che, senza dubbio, sapeva dov’era andato. Quell’infermiera agiva chiaramente secondo degli ordini, e probabilmente non aveva idea della vera vocazione del nostro amato Bram.

Quindi spalancò la porta e mi fece entrare, stringendomi la mano con forza germanica, e la scosse con vigore mentre si presentava come Frau Koehler. L’ingresso in penombra era pieno di scaffali allineati, tutti pieni fino a scoppiare, con alcuni tomi sopra file di altri volumi. La buona Frau mi condusse, attraverso un’altra stanza polverosa e piena di libri, fino alle scale, dove esitò.

«Permettetemi di andare a dire alla signora Mary che siete qui».

Mi guardò per un momento, prima che comprendessi che stava aspettando una risposta.

«Diteglielo», mi fermai, cercando nella mia memoria il nome da ragazza di mia cognata. «Ditele che Mrs. Windham è venuta a trovarla».

Frau Koehler fece un cenno con la testa, poi alzò le gonne e si arrampicò faticosamente sulle scale che gemettero. La udii che si muoveva attraverso il pavimento di legno scricchiolante, poi si fermò per mormorare una domanda a bassa voce a colei che le era stata affidata.

Ma non udii risposta. Mentre aspettavo, vidi tra gli scaffali una porta chiusa, e me ne sentii inesplicabilmente attratta. Scivolai attraverso una fessura e mi trovai nello studio del buon dottore, circondata da altri libri, tutti di genere esoterico. Il nostro coraggioso uccisore di Vampiri sembrava avesse fatto un profondo studio per meglio compiere il suo lavoro. C’era anche una grande scrivania di quercia, con un certo numero di carte e telegrammi nei cubicoli; desiderai dar loro uno sguardo per avere qualche indizio sugli spostamenti di Van Helsing ma, da sopra la mia testa, provennero altri scricchiolii e il pesante passo della Frau.

Immediatamente scivolai nuovamente attraverso la porta e, prima che lei guardasse sorridendo dalla cima delle scale, io ero nello stesso posto in cui lei mi aveva lasciato.

«La signora Mary è sveglia e vi vedrà». Mentre sfrecciavo su per le scale per raggiungerla, aggiunse: «Non posso promettervi che capirà completamente chi siete. Parla poco e, quando lo fa, è generalmente confusa. Poco fa le ho fatto un’altra iniezione di morfina, così è anche insonnolita. Siate paziente».

«Lo sarò», risposi con calore, sebbene in quel momento non stessi affatto pensando a Mary ma, piuttosto, a come potessi convincere Frau Koehler ad andarsene.

Ero del tutto sazia dalla notte precedente, fino al punto che il pensiero di cenare con il suo forte sangue tedesco mi dava la nausea. Così non avevo intenzione di usare la mia forza soprannaturale sulla Frau; una rapida bevuta da Mary era tutto quello che potevo fare, e poi me ne sarei andata. Il mio atteggiamento disinvolto svanì all’istante quando entrai nella stanza e fui accolta dagli odori mescolati di pipì e feci puzzolenti. Frau Koehler aveva fatto quello che poteva per minimizzarli: la finestra era aperta, una candela oscillava nella leggera brezza, e una padella era a mollo nella tinozza piena d’acqua saponata.

Il massimo che potei fare fu quello di trattenermi dal coprirmi il naso con il fazzoletto, ma Frau Koehler sembrò non notarlo affatto. Si avvicinò al letto, sorrise di genuino affetto e prese la sottile mano priva di forze della paziente.

«Mary. Ecco vostra sorella».

Avanzai per prendere il posto dell’infermiera tedesca e afferrai la fredda e ossuta mano della donna morente. I suoi occhi erano chiusi ma, al suono della voce della Koehler, si riaprirono con difficoltà e mi guardarono. Ero preparata a incantarla immediatamente e farla sentire una donna completamente diversa, in modo che non avrebbe gridato di paura, mettendo in allarme l’infermiera…

Oh, Mary! quando ti vidi per l’ultima volta, eri forte, giovane e bella, con splendenti capelli d’oro, la pelle liscia, e avevi il tuo piccolo Bram nel ventre. Ti amavo allora; ti amai persino dopo il mio Cambiamento, poiché tu eri stata così buona con me in vita. Sono arrivata a capire che tu, Kasha e papà siete stati gli unici che veramente mi avete amata: amato me, la zoppa di casa, la magra zitella che non evocava negli uomini altro che pietà.

Ora tu sei stata abbattuta dal tempo crudele. Ne ho uccisi tanti nella mia strana esistenza e ho fissato spesso negli occhi la stessa morte, ma non l’ho mai vista prima indugiare tanto a lungo.

Questa sarei io, pensai, se non avessi ricevuto il dono dell’immortalità. Una vecchia brutta, moribonda.

Guardai la vecchia nel letto e non la riconobbi, con i capelli bianchi e crespi, pettinati in una lunga treccia dalle spalle alla vita; sulla testa, comunque, i capelli erano scomposti e si erano parzialmente sciolti, dandole un’aria sconvolta, poco curata. Mi venne in mente l’immagine di un uccello delicato che moriva di fame. La pelle liscia era cadente, si incavava nelle guance scheletriche, si assottigliava sul naso, ed era segnata da rughe, specialmente sotto agli occhi… occhi ancora blu come il mare, sebbene il bianco fosse itterico.

Occhi resi inespressivi dal dolore e dalla sofferenza, ma occhi che mi riconobbero.

Intendevo indurla al silenzio prima che Frau Koehler fosse messa in allarme, metterla sotto il mio incantesimo in modo che si dimenticasse di conoscermi, in modo che vedesse tutta un’altra donna, ma fui troppo colpita dalla sua vista per reagire con immediatezza e troppo confusa quando l’infermiera fece scivolare una sedia a dondolo accanto al letto e mi invitò a sedermi.

Mi sedetti e guardai ancora la vecchia che, un tempo, era stata Mary, pronta a fare il mio lavoro soprannaturale. Ma quegli occhi blu… mi guardarono senza paura, senza odio o repulsione ma con un tale onesto e caldo affetto che lacrime di gratitudine mi vennero agli occhi. Questo non era l’amore fuggevole evocato dalla passione sessuale o dal bisogno o dalla convenienza reciproca; questo era amore fine a se stesso.

«Mary?», chiesi piano e, con mia grande sorpresa, lacrime calde caddero sulle mie guance… io, cento, mille volte assassina, così insensibile da pensare che non avrei mai più conosciuto la pura compassione. «Mi riconosci veramente? Sono io…».

«Zsuzsanna», sospirò con voce tremante, acuta, che mi spezzò il cuore. Mai, per un istante, la dolcezza nel suo sguardo venne meno. «Come sei bella…».

Abbassai il viso nelle mani coperte di merletto e piansi. Era perduta nel passato, compresi, e ricordava soltanto la Zsuzsanna mortale: aveva dimenticato il mio Cambiamento. Anche così, fui toccata dal suo benvenuto. Ma avevo un’altra ragione per lasciarmi andare alle lacrime. Oltre il sentimento, ero obbligata a raggiungere il mio obiettivo: sapere di Bram.

Frau Koehler entrò dietro di me e posò una grossa mano sopra la mia spalla.

«Mia cara… So quanto questo sia difficile per voi», mormorò. «Vi posso portare un bicchiere di sherry?».

Alzai la testa e asciugai le lacrime con il fazzoletto.

«Grazie, ma… posso avere, invece, una tazza di tè?».

Questo mi avrebbe concesso il tempo di cui avevo bisogno.

Il rapido consenso della Frau mi mise subito di buon umore; se ne andò per le scale in direzione della cucina, mentre io mi chinavo più vicino a Mary e le prendevo la mano tra le mie.

«Mia cara», bisbigliai. «Non sopporto di vederti così, ma posso liberarti da tutto il dolore… per sempre».

Mi avvicinai e mi chinai ulteriormente premendole le labbra contro le morbide e cadenti pieghe del collo; l’odore aspro dell’urina era forte, così come lo erano la forte sensazione della bontà di Mary, della sua paura di morire, il suo amore sincero per coloro che se ne erano andati prima di lei e per coloro che sarebbero rimasti. L’avvicinarsi della morte aveva tolto qualsiasi altra cosa, fino a che era rimasta soltanto l’essenza della donna.

Ma qualcosa mi tratteneva; forse era la conoscenza della donna che era stata o la sensazione potente della bontà e della sofferenza tragica che emanava. Sapevo che la vera Mary avrebbe preferito morire piuttosto che votarsi al Male.

In effetti, tolse la mano dalla mia e, con una debolezza che spezzava il cuore, mise i suoi palmi contro la mia spalla e cercò, invano, di spingermi via.

«Per favore, no… ho perduto due figli e un marito. Non è abbastanza?».

Lo disse con aria sognante, calma, senza traccia di paura.

Mi ritrassi.

«Mary… vuoi soffrire? Vuoi morire?».

Sostenne direttamente il mio sguardo; nello stesso tempo, sembrò guardare oltre me, a qualcosa di molto più distante e glorioso, e la sua faccia avvizzita divenne di una bellezza radiosa e devastata.

«La mia sofferenza non è nulla a paragone della tua», bisbigliò. «La mia non durerà per sempre».

Caddi all’indietro nella sedia, colpita da un dolore acuto come se un ago trafiggesse il mio cuore commosso. Cercai di protestare: come poteva dire che io soffrivo? Io, che godevo di ciò che di meglio la vita potesse offrire, io, che non conoscevo il dolore fisico, io che infliggevo ad altri la morte?

Ma non potevo negarlo. In un lampo, vidi la mia attuale esistenza come l’avrebbe vista lei: i vestiti più belli, lo champagne migliore, gli uomini più attraenti, la bella e crudele Elisabeth. La vanità, la vacuità. Secolo dopo secolo, senza significato.

Mi alzai e le presi di nuovo le mani, massaggiandole un po’ per riscaldargliele. Questa volta, quando mi chinai su di lei, premetti con delicatezza le mie labbra sulle sue.

«Dio ti benedica, Mary».

«E possa benedire te».

Sospirò e chiuse gli occhi. Udii, al piano inferiore, il rumore della porcellana su un vassoio e dei passi attutiti; Frau Koehler stava ritornando con il tè. Mi sistemai nella sedia a dondolo e attesi, cercando di decidere il modo migliore per ritornare nello studio, quando la stessa Mary mi fornì la risposta.

Improvvisamente, emise un ululato di dolore, con l’intollerabile abbandono di un animale ferito; lo ammetto, feci un piccolo salto sulla sedia (e non è una cosa facile spaventare un Vampiro). Gridò ancora e allora mi avvicinai per chiedere quale fosse il problema, ma lei sembrò del tutto inconsapevole della mia presenza. Provai un’enorme impotenza… e imbarazzo quando, all’improvviso, lei strinse convulsamente la coperta tra le gambe.

«Frau Koehler!», gridai, mentre l’infermiera saliva per le scale rumorosamente; apparve con la faccia rossa e ansimante e, subito, posò il vassoio del tè su un basso mobile e si avvicinò accanto al letto della sua protetta.

«Ah», disse, sollevata. «È soltanto l’ora della padella. Vi aiuterò io, signora. Se volete, potete prendere la vostra tazza di tè e sedervi al piano inferiore, dove il rumore non vi disturberà».

«Il rumore?»

«È veramente doloroso per lei ora; beve così poco che brucia come fuoco, specialmente con le sue piaghe aperte, ma io l’aiuterò a sentirsi meglio. Andate, signora».

Così questa è una morte lenta: pipì, feci e dolore impotente, l’umiliazione più crudele.

Si mosse verso la padella insaponata nella tinozza e io me ne andai prima di vedere altro. Abbandonando il tè, mi precipitai per le scale e nuovamente scivolai attraverso la porta che conduceva allo studio del dottore. Con velocità immortale, sfogliai le carte sul suo tavolo… con ben scarsi risultati, poiché quasi tutte erano in olandese e quindi per me del tutto incomprensibili.

Ma, chiusi ordinatamente in un nascondiglio, c’erano tre telegrammi, mandati da A. Van Helsing, Purfleet, England, a Frau Helga Koehler, Amsterdam. Il primo era datato 8 luglio, il secondo 16 luglio, e il terzo 4 agosto.

E tutti provenivano da Purfleet. Purfleet. Dove Elisabeth e io andavamo ogni mattina a controllare l’arrivo di Vlad!

Mi sarei voluta sedere tranquillamente a terra e ridere — ero venuta fino a lì per trovare qualcuno a Londra! — se non avessi capito qualcosa di raggelante: il dottor Van Helsing era mortale, ma era ancora una forza con cui fare i conti poiché, in qualche modo, aveva scoperto il nuovo indirizzo di Vlad.

Come potevo essere sicura che non aveva scoperto anche il mio?

Li guardai tutti in fretta poiché, fortunatamente, erano scritti in tedesco, lingua di cui ho un’ottima padronanza. Tutti ringraziavano Frau Koehler per le sue relazioni sulle condizioni di sua madre, e davano l’informazione che «La signora Van Helsing sta, sfortunatamente, come sempre». Il più recente dichiarava che sarebbe dovuto rimanere a Purfleet un po’ più a lungo ma che la Frau doveva avvertirlo subito se avesse ritenuto che Mary stava per morire.

La signora Van Helsing: la frase mi riempì di trepidazione, sebbene non comprendessi o ricordassi immediatamente. C’era stata una signora Van Helsing? Ero venuta in quella casa venti anni prima, per prendere il piccolo e dolce Jan e per rapire il fratello di Bram…

Naturalmente, naturalmente… C’era stata una donna: una timida cosina scialba dagli occhi grandi. L’avevo morsa ma non l’avevo uccisa, dato che era stata un ostacolo sulla mia strada. Aveva uno di quei nomi olandesi che si dimenticano facilmente che iniziava con un G, quel suono fortemente aspirato come la ch ebraica, ripetuta due volte nel nome “Van Gogh”.

Per qualche ragione, non mi era nemmeno venuto in mente che lei fosse ancora viva, ma la rivelazione che lo fosse — e che si trovava in Inghilterra con Van Helsing — mi riempì di orrore.

Che cosa sarebbe accaduto se lui usava sua moglie per avere informazioni su di me? Poiché Vampiro e vittima sono legati insieme finché entrambi sopravvivono e, così, quella donna dagli occhi folli era legata a me, anche se la sua personalità era così timida, così umile, che nel corso degli anni mi ero sconsideratamente dimenticata di lei. Io, che ero stata una tale idiota da non pensare di voltare le carte e ottenere informazioni su di lui.

Ho corretto la mia sbadataggine.

Durante tutto il tempo, avevo udito i passi e le grida dal piano di sopra e i sommessi confortanti bisbigli di Frau Koehler. Le grida erano cessate, seguite dal rumore dell’acqua che scorre. Uscii dallo studio e attesi di nuovo alla fine delle scale, finché l’infermiera apparve.

Non mi invitò a salire, ma scese le scale per fermarsi accanto a me; il sudore le brillava sulla fronte e sul labbro superiore. Si portò il grembiule al viso e lo asciugò.

«Penso che adesso dormirà», disse a voce bassa. «È molto stanca; finora ha avuto un giorno molto difficile. Ritornerete presto, Mrs. Windham?».

Scossi la testa, ansiosa di lasciare quella triste casa e turbata da quello che Mary mi aveva detto.

«No. È ora che parta. Ho la mia famiglia da curare e ho già salutato Mary».

Il suo ampio viso quadrato divenne genuinamente triste.

«Mi dispiace che dobbiate andar via dopo una visita così breve, signora. Ho visto che Mary vi ama moltissimo, e voi lei».

Mi voltai prima che vedesse le lacrime, e lei mi condusse all’entrata principale. Quando aprì la porta, mi fermai e la guardai in viso, poi con leggerezza toccai con le dita la sua guancia.

Come avevo sperato, mi guardò negli occhi e cadde subito in trance.

«Non ricorderai niente di tutto ciò», le dissi. «Non me, non il mio nome, non il mio aspetto, e se Mary ne parla, penserai che abbia il delirio. La cosa più importante: non ne parlerai, finché vivi, con il dottor Van Helsing».

«Naturalmente», disse, e io sorrisi, rompendo l’incantesimo.

«Grazie, Frau Koehler».

La baciai sulla guancia come avrebbe fatto una sorella.

«Buon viaggio, Mrs. Windham».


Ora sono sulla nave diretta verso casa, dove mi sono trovata un posto nascosto di sotto (è una bella giornata e tutti stanno prendendo il sole sul ponte). A questo punto, mi permetto di lasciarmi andare profondamente nella trance per effettuare il collegamento con la signora Van Helsing. I fili che ci legano sono piuttosto deboli, ma con la pratica si rafforzeranno. Questo è ciò che ho visto, soltanto qualche minuto fa.

Una stanza piccola e semplice dalle pareti bianche, con una finestra chiusa da sbarre di ferro nero che deturpano la vista di un giardino fiorito più in basso. Sopra la finestra, un piccolo crocifisso d’oro.

Dietro di me, odo il rumore di una porta che si apre, e la voce bassa, profonda, di un uomo che dice:

«Gerda, carissima…».

Gerda, sì! Ecco il suo nome.

La mia vista ruota di centottanta gradi. Ora mi trovo a guardare un uomo più anziano con del bianco tra i capelli d’oro e le sopracciglia folte, e un sorriso che vuole mascherare la preoccupazione nei suoi occhi blu. Non si è sbarbato di recente, e la luce del sole che entra dalla finestra cade sui peli d’argento del mento e li illumina. Su di lui c’è un’aria di pesantezza, come se fosse Atlante, che porta il peso del mondo sulle sue spalle. Nello stesso tempo, c’è anche un’aria di bontà, riflessa nei suoi occhi e sui semplici e dolci lineamenti del viso.

Ha qualcosa di familiare, qualcosa che mi disturba; lo guardo e penso al mio defunto fratello, sebbene non si somiglino affatto. Conosco quest’uomo ma, per un istante, sono in imbarazzo, poiché è più vecchio di quasi un quarto di secolo da quando ci incontrammo l’ultima volta, e gli anni e la tragedia l’hanno invecchiato.

Bram, pensa Gerda, ma il dolore profondo dentro di lei trattiene la sua lingua in modo tale che non riesce a parlare… e io, all’improvviso, ricordo. Quest’uomo anziano è la mia nemesi, Van Helsing, l’assassino del mio piccolo Jan, che sarebbe ancora accanto a me oggi, se Van Helsing non avesse ucciso il mio immortale figlio adottivo.

Bene. Van Helsing è con Gerda… in un manicomio, penso; in che altro modo possono essere spiegate le sbarre? E in quello stesso momento, lui comincia a farle delle domande:

Cosa vedi adesso?

«Non sono sicura. Vedo dell’acqua, una grande quantità di acqua verde… che scompare dietro di me, la linea della costa con minuscoli mulini a…».

La fermo appena prima che possa pronunciare la parola mulini a vento, anche se il danno è già stato fatto. Adesso saprà che sono andata ad Amsterdam… ma che sia dannata se saprà quando, e se sono ritornata a Londra.

Lui le fa altre domande, ma lei rimane risolutamente in silenzio, finché l’uomo si arrende e se ne va.

Quando riemergo dal collegamento, scrivo subito tutto per non dimenticare nessun dettaglio. Racconterò a Elisabeth che Van Helsing si trova a Purfleet, da qualche parte vicino a Vlad. Lei si arrabbierà per il tempo perso… quindi non le dovrò mai dire del mio terribile errore di aver dimenticato Gerda; non mi perdonerebbe mai.

E, se falliamo, io non perdonerò mai me stessa.

Nello stesso tempo, sono profondamente turbata. Ogni volta che penso a Mary, è come se il mio cuore gelido fosse gentilmente riscaldato da una fiammella interna, una fiamma che lei ha riacceso facendomi ricordare cosa significhi sentire compassione umana, amore umano. Devo ucciderle il suo unico figlio?

Basta! Basta! Questi pensieri sono troppo pericolosi. Avrò la mia vendetta…

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