Capitolo quattordicesimo

Il diario di Abraham Van Helsing


29 settembre, continua. Aveva lo stesso aspetto dell’ultima volta che lo avevo visto, ventidue anni prima: piccolo e flessibile, ma forte di spalle e con la schiena diritta sotto un vestito di lana nera senza fronzoli. Sotto a un cappuccio di lana nera che ricordava quelli che potrebbe indossare un prete ortodosso, i suoi capelli cadevano in folti ricci fino alla vita. Come i suoi lunghi baffi e barba, erano di un bianco splendente, che rendeva la pelle radiosa del viso e delle orecchie, morbida come quella di un bambino e, per contrasto, anche più rosata. Ma non era un prete: non era nemmeno cristiano. Il suo volto era quello di un ebreo ascetico, di un’aquila, con un naso importante che si incurvava verso il basso, e grandi occhi languidi. Un ebreo, sì, per sangue… ma molto lontano dall’ortodossia del suo credo. Se credesse anche in Dio, non potrei dirlo poiché, durante la mia educazione come uccisore di Vampiri, spiegò sempre le cose nei termini più pragmatici. Forse lui, come il suo discepolo, non credeva in formule religiose o in nomi o titoli particolari, ma in quelle cose che resistevano, quelle cose che trascendevano la religione, la scienza, e toccavano tutti gli uomini troppo profondamente per essere negate: l’Amore, la Compassione, la Bontà.

I suoi capelli e il suo portamento erano quelli di un vecchio, ma la sua condotta e i suoi movimenti erano quelli di un giovane robusto. Alla mia domanda, si accucciò al livello in cui io mi trovavo, in modo che potessimo parlare guardandoci negli occhi, e piegò mollemente le braccia sopra le gambe.

«Abraham, Abraham», disse, sorridendo e rivelando delle gengive di un rosa intenso e dei bianchi denti diritti che anche un giovane poteva invidiare. Non c’era astuzia o rimprovero in quel sorriso, ma solo la chiara e ilare gioia di un pazzo, un sempliciotto, un mago. «Se io non sono venuto era perché tu non avevi bisogno di me. Ma ora sono qui, come vedi». E spalancò le braccia (stupefacentemente, senza che le sue gambe si muovessero di un pollice).

Il “qui” era cambiato in modo evidente nell’istante in cui era comparso. Diedi un’occhiata obliqua a ciò che mi circondava per scoprire che io e il mio mentore eravamo avvolti da un cerchio di lieve radiosità che rischiarava la notte. Oltre la sua circonferenza, John, Arthur e Quincey, sedevano tutti a terra congelati e immobili come statue, con gli occhi aperti ma ciechi che non si muovevano, e i petti che non si alzavano affatto. Ma erano al sicuro e vivi: questo lo capii istintivamente, anche se non potei resistere dal guardare oltre e intorno ad essi in cerca di Vlad e dalla Vampira Lucy.

Ma la notte era tranquilla e dolce, libera dal colore indaco; entrambi i mostri erano svaniti, e Arminius e io sedevamo all’interno dei confini di una realtà differente. Questo mi riempì il cuore di speranza poiché, sebbene Arminius mi avesse insegnato molte cose — come proteggermi dal Vampiro, come indebolire Vlad e acquistare per me stesso il potere per sconfiggerlo — non lo avevo mai visto in presenza di alcun Vampiro e così non avevo mai saputo quale fosse la misura delle sue abilità oltre a quanto mi aveva detto.

Era chiaro che era veramente potente, se mi aveva salvato e aveva fatto svanire Vlad e Lucy e, per la prima volta in molti giorni terribili, cominciai a pensare che Vlad, dopotutto, sarebbe stato vinto.

Mi vide fissare i miei tre compagni e disse:

«I tuoi amici stanno bene, ma non ci possono vedere e, se tu vuoi, non ricorderanno».

Ero troppo curioso, troppo eccitato, troppo disperato per rispondere a quella frase; invece, posi una domanda:

«Che cosa è accaduto a Vlad? Io avevo fatto come tu dicesti — avevo distrutto Vampiro dopo Vampiro per questi ventidue anni, allo scopo di indebolirlo. E così si era indebolito, ma ora ha riacquistato forza e altro ancora. Mi avrebbe ucciso… a me, la cui morte avrebbe avuto la sua come conseguenza, secondo il Patto. Cosa è accaduto a lui… e al Patto?»

«Ah», disse; il suo fu, in parte, un sospiro. «Il Patto…». Invece di guardarmi, abbassò lo sguardo a terra, con le labbra ancora curve verso l’alto in un misterioso sorriso, e cominciò a disegnare con le dita strani segni in una chiazza di fango. «Per rispondere alla tua domanda, Abraham, ti devo prima raccontare una storia».

«Una storia?»

«Di un manoscritto… un manoscritto molto speciale che alcuni pretendono che sia stato scritto dallo stesso Lucifero. Fu rubato dalla Scholomance, la scuola del Demonio per le Arti Mantiche, da uno degli Sholomonari, gli alchimisti che studiavano lì. Così dice la leggenda. Il suo scopo è esplicitato nel titolo: A colui che vorrebbe diventare mangiatore di anime».

Rabbrividii, improvvisamente sconvolto dalla terrorizzante immagine di un sogno: una grande Oscurità che mi ingoiava, mi divorava. Stringendomi gli avambracci, domandai:

«Ma non è una prerogativa del Diavolo consumare le anime?».

Alzò lo sguardo, sorridendo ancora debolmente, con gli occhi offuscati dall’oscurità di cui parlava.

«Lo è, se quello è il nome che desideri usare per l’entità; e per rispondere alla tua seguente domanda… sì, il manoscritto fornisce delle istruzioni riguardo a come altri potrebbero diventare come lui».

«Ma è una follia: perché vorrebbe dividere il suo potere?».

Nell’udire ciò, il suo debole sorriso divenne più largo.

«Chi lo può dire? Con il tempo tutte le cose diventeranno chiare». Si fermò. «Ad un certo punto, dopo il furto, il manoscritto fu acquistato dalla più malvagia e assetata di potere degli immortali: la contessa Elisabeth di Bathory. È passato attraverso molte mani, in parte perché lo stesso manoscritto non può essere protetto nemmeno dalla magia più potente…».

«Perché no?», lo interruppi.

Con pazienza, rispose: «Perché la verità non può essere nascosta, Abraham. Non riuscendo a capirlo, la contessa tentò di nasconderlo con un incantesimo che, a causa della sua nuova forza, pensò sarebbe stato sufficiente. E, poiché aveva distratto il precedente padrone, nessuno sapeva che esso era arrivato in suo possesso, e nessuno tentava di prenderlo da lei. Ma, quando andò al Castello Dracula, Vlad lo scoprì e glielo sottrasse molto rapidamente.

Riguardo al perché sia diventato sempre più potente, ora che esso è in suo possesso, devo spiegare lo stesso manoscritto. È un semplice indovinello, consistente di sei righe o indizi. La prima riga compare quando il manoscritto cade in possesso di qualcuno. Le altre righe appaiono solo quando il possessore ha compreso la prima ed ha seguito le sue istruzioni e, ad ogni fase, il potere e le abilità del possessore aumentano.

Io ho fatto qualche ricerca e ho scoperto la prima riga: Nel paese oltre la foresta, comincia la ricerca per essere Dio. Le righe sono sei; le chiavi sono due».

«Chiavi?», chiesi.

«Questo è ancora un mistero; Elisabeth ha risolto solo la prima riga e, sebbene Vlad sia andato oltre, lui deve ancora scoprire la prima chiave. Nessun immortale c’è mai riuscito tranne, naturalmente, lo stesso Oscuro Signore».

Con la paura nel cuore, chiesi:

«Quante righe ha risolto Vlad? Sai che cosa sigmficano queste?».

Lo sapeva. Sembrò guardare oltre me, e l’ombra del sorriso scomparve del tutto, lasciandolo in atteggiamento solenne per la prima volta da quando ci eravamo incontrati.

«La seconda: Non indugiare. Attraversa le profonde acque verso la grande isola di nordovest. Immediatamente fece progetti per partire per l’Inghilterra, e fu quando la terza riga apparve: A est della metropoli si trova l’incrocio».

«A est di Londra», mormorai, richiamando alla mente miriadi di luoghi. «Un incrocio… È il semplice incrocio di due strade, o qualcos’altro? E quanto lontano verso est? Appena fuori città, o a Purfleet, a Dartford, o a Grays… o ancora più a est, come a Southend-on Sea o a Sheerness?»

«Questo non lo posso dire», mormorò con lieve disappunto. «Ma posso dire che, dopo che Vlad acquistò delle proprietà che circondavano la città, apparve la quarta riga: Lì giace sepolto un tesoro, la prima chiave».

Quattro righe risolte; un brivido passò attraverso di me mentre chiedevo:

«E l’ha scoperta? E la quinta riga e la sesta…».

Scosse la testa.

«Ma è soltanto una questione di tempo. Una volta che ottiene la prima chiave, deve solo trovare la seconda, e metterle entrambe in un modo tale da risolvere l’indovinello. E mentre Elisabeth è a conoscenza solo della prima chiave, sospetto che abbia trovato o che troverà un modo per scoprire tutto ciò che Vlad ha saputo. Poi anche lei si unirà alla ricerca della prima chiave; poiché lei è crudele e ambiziosa quanto lui… e forse anche di più. Alla prima opportunità, s’impadronirà del manoscritto».

«Perché non l’ha ancora fatto?», chiesi. «Se lo aveva e conosceva la prima riga, allora deve aver ottenuto alcuni dei suoi nuovi poteri…».

«No». Inclinò la testa da un lato e mi guardò con estrema comprensione e compassione, come se sentisse la mia dolorosa disperazione tanto fortemente quanto me. «Quando il manoscritto è perduto, il potere è perduto, solo per essere acquistato dal successivo possessore. Adesso lei non è abbastanza forte per sconfiggerlo direttamente, ma se, mediante l’abilità e l’astuzia, lo otterrà di nuovo, allora lei sarà la più potente e lui il più debole. Credimi: Elisabeth è vicina, in attesa della sua opportunità, e questo è qualcosa da temere molto, poiché lei è una tra i più forti e più malvagi degli Sholomonari».

«E Zsuzsanna? Non sa del manoscritto?».

La sua espressione si fece stranamente velata.

«Lo sa. Adesso ne sa quasi quanto Vlad, e anche lei cerca la prima chiave».

«E se lei — o Vlad, o Elisabeth — risolve la sesta riga e l’enigma della prima o della seconda chiave…».

Non riuscii a convincermi a finire la frase, poiché il pensiero era troppo terribile per dargli voce.

Ma Arminius lo fece.

«…diventerà come l’Oscuro Signore: onnisciente e onnipresente, talmente potente da controllare ogni forma di male sulla terra. E se Vlad ci riesce, non avrà bisogno di alcun Patto per prolungale la sua immortalità, e perciò non avrà nessun bisogno della tua anima per comprarsi un’altra generazione di vita. Sarà come un dio, in grado di fare ciò che gli piace. Ma, finché non risolve il mistero, potrebbe perdere il manoscritto… proprio come Elisabeth lo perse a suo favore. Se ciò accadesse, lui dipenderebbe totalmente dal Patto e dalla continuazione della tua esistenza, sì da poterti corrompere prima della tua morte e così acquistare la vita per se stesso.

Ciò che ti ha fatto stasera, scegliendo di ucciderti, era il più arrogante degli errori. Sta già cominciando a pensare a se stesso come immortale, invincibile… e questo, penso, lo porterà alla rovina».

Infine restò in silenzio e mi guardò con calma mentre consideravo la sua storia. Le sue ultime parole mi diedero speranza, ma l’intera storia mi aveva riempito di cattivi presagi. Adesso il mio compito era più difficile di quanto avessi mai immaginato durante tutti quegli anni difficili passati a cacciare e a distruggere la malvagia progenie di Vlad sul continente europeo. Per ora dovevo non solo uccidere un potente Vampiro e la sua compagna, Zsuzsanna, ma dovevo impedire che diventassero degli Dei. E non solo loro, ma anche la temibile contessa di Bathory.

«Arminius», dissi, «mi hai riferito una storia inquietante; il mio dovere, sembra, è diventato più difficile di quanto io abbia mai immaginato. Resterai con me e mi aiuterai? E non solo me». A questo punto feci un gesto verso i tre uomini seduti immobili fuori della nostra sfera, «ma anche i miei amici, che hanno pure loro giurato di distruggere Vlad?».

Di nuovo apparve il sorriso dell’idiota sotto gli occhi del saggio.

«Ti prometto Abraham che, quando sarà nuovamente necessario, verrò, ma non prima. Ricorda: il tuo compito è quello di redimere la tua famiglia dalla sua maledizione, e parte di questo lavoro è il difficile viaggio in sé».

«Puoi almeno esaudire una richiesta?».

Sollevò le sopracciglia, così sottili e di un bianco traslucido che il rosa chiaro della sua pelle da bambino si mostrava sotto i peli.

Mi alzai e lo fissai, intento a convincerlo di quell’unica cosa.

«Terrai Miss Lucy nella sua tomba fino al mattino? Vlad non può più essere fermato con i talismani e li ha tolti in modo che non la potessimo distruggere».

Non disse nulla: mi fissò soltanto con quello sguardo meraviglioso e consapevole, poi si alzò con un movimento aggraziato per venirmi vicino. Mentre lo guardavo negli occhi, i contorni del suo corpo sembrarono diventare indistinti, poi scomparvero nelle ombre mentre la sfera di luce che ci conteneva all’improvviso si fece meno forte. Divenne sempre più fioca, finché mi trovai a fissare la grande porta di ferro della tomba delle Westenra.

Accanto a me, la malvagia creatura-Lucy sibilava, sputando bava sporca di sangue, nel cerchio di luce gettato dalla mia lanterna. Era a terra, dove l’avevo poggiata un’eternità — o solo minuti — prima. Sentii, piuttosto che vedere, i miei tre amici che stavano dietro a me in semicerchio; John, lo sapevo, era il più vicino, e teneva alto il suo crocifisso d’argento per tenere a bada il suo amore, una Morta Vivente.

Stranamente, l’improvviso cambiamento del tempo non mi disorientò; forse, il ricordo dell’insegnamento impartitomi da Arminius mi aveva preparato, poiché era un trucco che aveva spesso usato in quei giorni ormai lontani. La presi come una conferma silenziosa che avrebbe esaudito il mio unico desiderio, e cominciai subito a togliere i pezzi di mastice pieno di ostia dalla porta della tomba.

Quando ne ebbi tolto una quantità sufficiente, mi feci da parte e lasciai che la Vampira corresse senza alcun ostacolo dietro di me. Mentre gli altri trattenevano il respiro, lei si appiattì in due dimensioni, poi si ripiegò in una linea sottile come un ago, simile a una signora che piega un ventaglio. Quindi si mosse attraverso l’aria come un’anguilla che si muove nell’acqua, ma infinitamente più veloce; in meno di un batter d’occhi, era scomparsa in una crepa, sottile come un foglio di carta e non più larga del mio pollice.

Immediatamente rimisi il mastice nella fessura, sigillandola dentro. Poi mi voltai verso i miei amici: si trovavano tutti esattamente com’erano prima dell’apparizione dell’Impalatore, Arthur pallido e tremante alla vista della sua dolce Lucy così profanata, e Quincey con le labbra serrate e teso, mentre la sua grossa mano lentigginosa stringeva il braccio di Arthur per sostenerlo. Nessuno era minimamente sconvolto, come se l’attacco di Vlad non fosse mai accaduto, e il mio lavoro alla porta della tomba non fosse mai stato interrotto.

Come se Arminius non fosse mai apparso.

Nemmeno uno dei capelli di John era fuori posto, e la sua espressione era oscuramente tetra e turbata, così come si addiceva alla situazione. Ma, quando lo guardai, lui mi guardò in modo così intenso e intenzionale, e con una tale acuta confusione, da farmi comprendere che ricordava almeno in parte un po’ di quello che era accaduto.

Ma era evidente che per Arthur e Quincey non era così. Perciò feci un cenno con la testa ai miei compagni, presi la lanterna, e camminai fino al bambino che lei aveva lasciato cadere sotto gli alberi di tasso.

Era un piccolo ragazzino di strada, con i capelli dorati e il viso magro incrostati di sporcizia… e il collo, di sangue. Fortunatamente, avevamo incontrato Miss Lucy proprio mentre lei stava cominciando a bere, e così lui aveva ancora un po’ di colore sul suo faccino pallido. Era passato dalla trance a un sonno profondo sull’erba, e sarebbe morto in quel freddo intenso, poverino. Lo presi in braccio e dissi agli altri, che mi avevano seguito:

«Lasciamolo in qualche posto caldo dove la polizia lo possa trovare. Non è stato offeso gravemente e, prima di domani sera, starà del tutto bene».

Quindi andammo via. Arthur e Quincey si diressero al manicomio con John, e io invece feci finta di andare in albergo, poiché avevamo continuato a mentire sul fatto che alloggiavo altrove. Da lì ritornai invece a Purfleet, e strisciai nella mia solitaria cella sotto la protezione dell’invisibilità.


Il diario del dottor Seward


29 settembre, mattina. È una seccatura dover scrivere questo a mano, poiché richiede un mucchio di tempo e mi fa sentire come Neddy Ludd; avevo pensato di tenere una bobina separata con le mie registrazioni “private”, ma la possibilità che possa commettere uno sbaglio e far ascoltare alle orecchie sbagliate informazioni che esse dovrebbero non sapere, è troppo grande.

Eppure, stamattina devo sfogarmi, o diventerò pazzo come il povero Renfield. Troppe rivelazioni, troppe emozioni laceranti…

Era abbastanza, ieri notte, vedere la donna morta che io amavo trasformata in una diavolessa sbavante; quello solo era più di quanto qualsiasi uomo possa sopportare senza diventare pazzo. E poi, vedere lo stesso Vlad — molto più giovane e forte di quanto mi fosse stato descritto, fiammeggiante di malvagia gloria — spingere il mio amato professore verso la morte…

È più di quanto possa sopportare, eppure lo sopporto.

Ma, quando vidi la figura angelica che lo salvava a meno di mezzo secondo dalla morte, mi dissi: Ecco, Jack; dopo tutto questo tempo, hai infine raggiunto la follia totale. Che fortuna che la casa sia già un manicomio…

E li ascoltai che parlavano insieme come amici da lungo tempo perduti o, piuttosto, come insegnante e studente da lungo tempo lontani, con Van Helsing nel mio ruolo e l’angelo splendente nel suo. Oh, una cosa è leggere dell’occulto, giocare con le aure, discutere teorie di Vampiri e di altre entità incorporee, e come si possa venire a contatto con una, ma…

Bene, è completamente un’altra cosa vedere tali esseri e poi scoprire che il tempo si è interrotto e un fatto è stato cancellato. In questo caso è stato come se Vlad non fosse mai apparso e io e il professore non fossimo mai stati in pericolo: ancora peggio, quando finimmo al cimitero, seppi dalle espressioni e dai discorsi di Art e Quincey che loro non avevano visto quegli stessi impossibili eventi, come era accaduto a me. Fu un istante terribile poiché, per lo spazio di alcuni secondi, fui convinto che ero io a essere diventato completamente pazzo. Finché, cioè, guardai negli occhi il professore e vidi che anche lui sapeva.

Allora, era accaduto veramente! Fortunatamente, né Quincey né Arthur erano in vena di inutili chiacchiere dopo una serata tanto orribilmente dolorosa; dopo che li ebbi fatti sistemare dalla cameriera nella zona degli ospiti nella parte privata della casa, entrambi andarono direttamente nelle loro stanze.

Sebbene, intanto, fossero le tre del mattino, capii che il sonno sarebbe stato del tutto impossibile finché non avessi avuto delle risposte a delle domande sconvolgenti. Non avevo modo di sapere se il professore era ritornato, ma ero disperato; così, dopo un po’, quando fui certo che Art, Quincey e la cameriera si fossero messi a letto, andai di nascosto al manicomio e mi recai direttamente nella cella del professore. Bussai piano, chiamando:

«Sono John. Vi devo parlare».

La porta si aprì lentamente. Non riuscivo a vedere niente all’interno sebbene la lampada fosse accesa un po’, ma un soffice velo blu ondeggiava nell’aria proprio appena al di là della soglia.

Coraggiosamente, entrai e oltrepassai il luccicore ceruleo, per scoprire che la stanza era esattamente la stessa… tranne il fatto che il professore era seduto a gambe incrociate sul pavimento, senza scarpe.

Si era tolto gli occhiali e li teneva in grembo, tanto che i suoi profondi occhi blu sembravano, in un certo senso, nudi, e i capelli rosso oro che si ingrigivano erano scomposti, come se vi avesse passato le dita attraverso, in segno di preoccupazione. Al vedermi sospirò, si rimise gli occhiali e, con una voce stanca ma gentile, disse:

«Salve John. Sospettavo che saresti venuto».

Non potei fare a meno di essere un po’ freddo con lui, poiché mi sentivo, come minimo, molto imbarazzato e, al peggio, molto tradito.

«E sospettate anche cosa sto per chiedervi?», dissi.

Sospirò ancora. Mentre l’aria gli usciva dai polmoni, tutto il suo buonumore, tutta la sua forza, tutto il suo coraggio, sembrarono andarsene con essa, finché compresi, con mio sconforto e sgomento, che stavo fissando un uomo fragile, dal cuore spezzato, con le occhiaie sotto gli occhi miopi.

«Non lo sospetto, lo so. E la risposta è: sì, John».

«Io sono vostro figlio», dissi, con il tono pacato per l’incredulità, mentre pensavo: Allora si sbaglia; ha dimenticato tutto ciò che ha gridato a Vlad e pensa che sono venuto a chiedergli qualche altra cosa.

«Tu sei mio figlio», disse, con una tale tranquilla convinzione, una tale tenerezza, un tono di scusa talmente sentito, che gli credetti immediatamente. Emozioni conflittuali mi assalirono: dubbio, rabbia, amore, sollievo. Sembrava tutto orribilmente, orribilmente sbagliato; ma sembrava anche orribilmente giusto.

Di fronte al mio turbamento, la sua espressione si fece preoccupata.

«Lo sapevi, John, che eri stato adottato?», mi chiese.

«Sì», risposi, con la voce tesa al punto di sforzarla; con mio imbarazzo, ero sul punto di piangere. «Sì, ma non è questo. Voglio sapere perché…».

E, a quel punto, la mia voce si spezzò veramente; non riuscii a dire altro.

«Perché sono stato tuo amico e maestro per tutti questi anni e non te l’ho detto».

Annuii ciecamente, ricacciando indietro le lacrime, mentre lui mi faceva cenno di sedere.

Mi sedetti sul pavimento freddo e lui cominciò a raccontarmi una storia che era cominciata molto tempo fa, quando un Principe chiamato Vlad, che, molto più tardi, sarebbe stato conosciuto come l’Impalatore (Tsepesh) o il figlio del Drago (Dracula), stipulò un Patto con l’Oscuro Signore. Ogni generazione della sua famiglia gli avrebbe offerto l’anima del figlio primogenito, maschio, che fosse sopravvissuto, in cambio di una continua immortalità. Ma, prima che quell’anima fosse offerta, il suo proprietario doveva risultare corrotto di propria volontà. Se invece l’agnello sacrificale fosse morto da uomo buono, onesto, allora Vlad avrebbe perso la sua immortalità, e sarebbe morto.

«Mio padre, Arkady, era il primogenito della sua generazione; lui morì incorrotto ma, preso dalla disperazione, Vlad lo morse per intrappolare la sua anima tra cielo e terra. Poi Arkady fu distrutto… e Vlad divenne debole e vecchio ma, per qualche ragione, non morì».

Io lo fissavo come colpito da un fulmine rivelatore; sapevo che il professore aveva avuto un solo fratello che era morto da molto tempo.

«Allora voi…».

«Io sono l’erede di Dracula», disse amaramente. «E il primogenito maschio sopravvissuto della mia generazione. Hai sentito, penso, Arminius che parlava del manoscritto».

Annuii, nuovamente ammutolito.

Distolse lo sguardo.

«Soltanto a causa sua Vlad ha osato minacciarmi. John», disse poi, volgendosi verso di me all’improvviso e afferrandomi le braccia per la disperazione, «ti giuro su ogni cosa buona che non sarei mai venuto qui se avessi saputo degli accresciuti poteri di Vlad. Lui era debole, perdente; io ero molto più potente di lui, e credevo che la mia missione fosse finita molti mesi fa. Non ti avrei mai messo in pericolo in questo modo…».

Gli feci capire la mia accettazione stringendo a mia volta le sue braccia, ma la mia mente era andata avanti e stava lottando per comprendere il mio passato e il mio stesso destino.

«Io… io sono il vostro figlio primogenito, non è così? Avevate un bambino che morì…».

Lui fissava il pavimento e, per la prima volta da quando lo conosco, parlò con una voce impastata di lacrime. «Un bambino che io uccisi», disse, e lo spasimo di un dolore che gli attraversò il viso fu così intenso e violento che io distolsi lo sguardo. «Il mio Jan. Il mio piccolo Jan…».

A quel punto scoppiò in singhiozzi talmente forti e strazianti che non potei fare altro che fissare in basso e guardare sgorgare le mie stesse lacrime.

Dopo un po’, ci riprendemmo entrambi, e lui continuò con voce rauca:

«Zsuzsanna — la nipote di Vlad e la sua compagna Vampira — lo morse, trasformandolo in un piccolo mostro. Non avevo altra scelta che liberarlo».

«Quindi, quando aveste un altro figlio, lo mandaste via», dissi. «Lontano, e non diceste a nessuno dov’era».

«Per proteggerlo, ma vedi, John», e aprì le mani disperato, «vedi quello che è stato di tutti i miei sforzi per risparmiarti il dolore che ho conosciuto. Come dicono i buddisti, il tuo karma è quello di soffrire per mano di Vlad; senza che il Vampiro sapesse della tua esistenza, ha scovato e ucciso la donna che amavi».

«Ma il vostro… amico, Arminius, vi aiuterà».

«Sì». Annuì cupamente. «È qui per dare il suo aiuto e ci aiuterà, penso, ad assicurarci che Miss Lucy sia libera dalla maledizione, ma lui verrà quando vorrà, e io non so dire quando ci aiuterà ancora».

«Ma non preoccupiamoci ancora, finché il lavoro di domani non sarà fatto». Mi alzai in piedi e lo aiutai ad alzarsi. In quel momento non provai altro per lui che compassione e gratitudine, poiché vedevo che terribile fardello aveva portato per tutta la sua vita e che portava ancora; non volevo altro, in quel momento, che renderglielo più leggero. Lo abbracciai e dissi: «Sapete, credo, di avere sempre guardato a voi come a un padre, e ora il mio affetto per voi è doppiamente giustificato. Comprendo che tutto ciò che avete fatto, lo avete fatto per amore».

Si sentiva troppo soffocato per parlare, e così ricambiò l’abbraccio stringendomi. Ci lasciammo in silenzio, con le lacrime agli occhi e un dolore ancora più profondo nei nostri cuori.

Per lungo tempo, mentre giacevo nel letto, il sonno non venne e, nel mezzo del mio inquieto rivoltarmi, mi venne l’agrodolce pensiero: Mio Dio! Quella povera pazza è mia madre!

Stamattina, quando mi sono svegliato con la luce del sole, ero un uomo diverso; più turbato, sì, ma anche più deciso a sbarazzarmi del mondo malvagio che è la mia eredità. Andremo alla tomba di Lucy a mezzogiorno e così il mio primo sforzo sta per cominciare.


Il diario di Abraham Van Helsing


29 settembre, notte. È fatto, grazie a Dio; la cara Miss Lucy è in pace. John aveva ragione a farmi permettere che i tre uomini che amavano tanto Miss Lucy fossero presenti, e Arthur tirò il colpo che l’ha liberata. L’ha fatto con una decisione e un coraggio — nonostante il sangue che sgorgava e le grida della malvagia creatura nella bara — che ci ha reso tutti fieri e mi ha dato speranza per la futura battaglia. Vedo che stanno meglio per avermi aiutato, e di sicuro sono meritevoli. Il nostro coraggioso gruppetto si sta espandendo; prima che John mi portasse alla stazione, ha ricevuto un telegramma da Madam Mina nel quale diceva che sarebbe arrivata tra breve per soggiornare nel manicomio e che suo marito sarebbe arrivato il giorno seguente.

Mi auguro solo che Arminms non ci abbandoni ancora.

Sto scrivendo sul treno. Ho detto agli altri che ero diretto ad Amsterdam e, per una volta, è vero. Nonostante l’assistenza di Arminius, io so che il compito più pericoloso deve ancora venire; così vado a trascorrere alcune ore al capezzale di mamma, per timore che lei mi sopravviva.

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