Capitolo quarto

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh


5 maggio 1893. Mi svegliai da un dolce sogno al suono della voce della mia cara madre morta che chiamava piano:

Svegliati, Zsuzsanna. Svegliati, bambina: è quasi mezzogiorno…

Aprii gli occhi, non sul viso stanco di mia madre, ma sul volto delizioso e giovane di Elisabeth. Questa volta indossava un grazioso vestito di tessuto moiré color crema, con uno stretto collo alto di merletto rigido che le incorniciava un décolleté più audace.

Sorrisi al vederla, ma poi la mia espressione si mutò in stupefatto timore nel realizzare che dietro di lei una gialla lama di luce solare entrava attraverso la finestra senza imposte.

E non mi arrecava dolore, né mi sentivo, in nessun modo, indebolita da essa.

Queste rivelazioni mi fecero spalancare gli occhi ancora di più, ed emersi ancora una volta dal mio lugubre luogo di riposo con un salto, affrettandomi alla finestra per guardare, senza chiudere gli occhi, la bella giornata. Sopra, in un cielo blu intenso, il sole splendeva.

«È mezzogiorno», gridai, e girai su me stessa, a bocca aperta ma sorridente, fissando Elisabeth con lacrime di gratitudine. «Com’è possibile?».

Lei mi restituì il sorriso e, invece di rispondere alla domanda che le avevo posto, disse:

«Mi vuoi accompagnare a prendere un po’ d’aria fresca?». Alla mia esitazione, aggiunse: «Vlad sta dormendo, come sai. Mi sono assicurata che non senta niente. Ora ci potremo incontrare solo durante il giorno — ogni giorno, se vuoi — e lui non lo saprà mai».

Le credetti piena di felicità, poiché ricordai che la notte prima lui non aveva percepito la mia bellezza. In risposta le afferrai il braccio, e insieme corremmo ridendo giù per la scala chiocciola attraverso il grande ingresso, uscendo poi dalla grande porta chiodata nella meravigliosa aria aperta.

Sui gradini Elisabeth rallentò e lasciò andare la mia mano. Io scesi correndo fino a terra e mi tolsi le scarpe. Nell’istante in cui i miei piedi nudi toccarono la soffice erba fresca, non riuscii più a resistere: aprii le braccia come delle ali e girai in cerchio come un bambino eccitato che sia rimasto al chiuso per un lungo inverno desolato.

Una primavera così inebriante! I susini in fiore profumavano, e gli ampi prati erano disseminati di fiori selvatici: campanule, papaveri rossi, margherite, alisso della neve. L’aria risuonava degli allegri richiami degli uccelli: allodole e pettirossi, e non del canto malinconico dell’usignolo, né del grido lugubre del gufo, l’unico canto di uccello che io abbia udito per mezzo secolo.

Mentre giravo su me stessa in gioioso delirio, chiusi gli occhi e alzai il viso al cielo… al sole, la cui calda e carezzevole luce sul mio volto mi sembrò, in quel momento, più deliziosa, più preziosa di qualunque cosa di cui io abbia fatto esperienza come immortale.

Quando infine caddi in preda alle vertigini, ridendo, sul terreno fresco accanto a una macchia di delicati fiori intricati, mi voltai sulla schiena per fissare le nuvole nel cielo turchese e gridai alla mia benefattrice:

«Elisabeth! Sei stata così buona con me! Mi hai restituito la bellezza, la forza… e ora mi hai restituito il mondo intero!».

Poiché era questo che sentivo: che ero stata confinata nella notte, vivendo solo metà dell’esistenza. E ora l’altra metà della vita mi era stata restituita.

«Posso fare qualcosa per te in cambio?»

«Puoi dividere con me il giovane ospite».

«Un ospite?».

Mi misi subito a sedere, premendo le dita dietro di me, sull’erba, nel terreno umido, e la fissai. Si era seduta su un gradino, incurante delle convenienze come un ragazzino, con le ginocchia aperte, un gomito poggiato sopra una di esse, e il mento sorretto dal palmo della mano.

Accarezzata dalla brezza calda, la lucente gonna color crema ondeggiava sulla pietra sporca, ma la persona che la indossava apparentemente non aveva paura che si sporcasse. La sua espressione denunciava che non condivideva il mio selvaggio entusiasmo per lo scenario; per lei, era qualcosa di normale. Quello che la divertiva era la mia gioia, poiché il suo sguardo era fisso solo su di me, e sorrideva con il sorriso leggero, divertito, di una padrona che guarda il suo cagnolino fare le capriole spensierato.

Percepii tutto questo un istante prima di domandare: «Quando è arrivato un ospite?». Quel pensiero mi provocava un brivido di desiderio e la consapevolezza di essere, in effetti, affamata, molto affamata.

«Ieri sera».

«E come è possibile che non lo abbiamo udito?».

Elisabeth sospirò.

«È colpa mia, temo. Vlad deve averci fatto un incantesimo, in modo che non udissimo quando è arrivato con il suo ospite; confesso che, ieri sera, ero così inebriata dalla tua bellezza che la mia attenzione è venuta meno, altrimenti mi sarei accorta del suo pietoso tentativo di stregoneria, e lo avrei neutralizzato immediatamente. Comunque, un ospite c’è, mia cara: ora sta russando nella sua camera. Ho udito il rumore e sono andata a investigare. È piuttosto attraente, e molto sano e forte. Lo andiamo a trovare?». Il suo tono divenne malizioso e intrigante. «Vedo appetito nei tuoi occhi, Zsuzsanna».

Il mio desiderio combatteva con la paura.

«Vlad non lo permetterebbe mai! Mi distruggerebbe se trovasse il mio segno sul collo del suo ospite!».

«Allora non lo troverà. Comunque, non gli permetterei di farti del male».

«Com’è possibile?».

Fece un gesto compiaciuto verso di me in mezzo a quella gloria primaverile.

«Come può essere possibile questo? Tutte le cose lo sono, mia cara, se hai fiducia in me».

Tirai un lungo sospiro di desiderio mentre mi alzavo in piedi.

«Allora andiamo subito a salutale il nostro giovane ospite!».

Presi le mie scarpe e corsi a piedi nudi su per i gradini dove lei, in piedi, mi aspettava. Ci prendemmo sottobraccio e, ridendo come ragazzine in vena di scherzi, attraversammo di nuovo correndo il grande ingresso, poi salimmo diverse scale a chiocciola finché arrivammo davanti a una porta di legno scolpito che conduceva in una delle camere degli ospiti.

Elisabeth aveva ragione: dall’interno veniva il suono di un russare stenoroso, così forte che fui sorpresa per il fatto che la pesante porta non vibrasse. Mi misi una mano sulla bocca per reprimere una risata e, quando riuscii a parlare, bisbigliai alla mia compagna:

«Poverina sua moglie!».

«Non occorre che parli sottovoce», rispose lei, con voce normale. «Come puoi sentire, sta dormendo profondamente». E, detto ciò, entrambe ridemmo piano mentre lei apriva la porta. «È tuo, mia cara; prendilo come vuoi. Io guarderò e mi divertirò un po’ in seguito. Soltanto un avvertimento: lascialo vivo e abbastanza forte, così che né lui né Vlad potranno accorgersi del cambiamento. Io farò in modo che non vi siano ferite: tu devi fare in modo che non sia tanto pallido da destare sospetti».

Se avessi pensato lucidamente, le avrei chiesto perché non poteva occuparsi anche del problema del suo colorito, se poteva far sì che la ferita guarisse immediatamente. In quel momento ero troppo incuriosita da quale potesse essere il suo “divertimento”… ma poi, all’istante, ogni pensiero fu cancellato quando il mio naso percepì l’odore del gentiluomo.

Sentii l’odore del sangue caldo e della pelle, mascherato dall’odore del sudore di due o tre giorni. Anche Elisabeth dovette sentirlo, poiché mi bisbigliò:

«Ovviamente ha viaggiato per un po’», e si strinse il naso.

Puzzolente o meno, il giovanotto disteso sul dorso, con le braccia e le gambe aperte come a imitare l’uomo nudo di Leonardo da Vinci, era una bella vista… se non si badava alla sua bocca aperta e sbavante, e al modo in cui sputacchiava ogni volta che russava facendo tremare i vetri.

Ma, che russasse o no, aveva ordinatamente appeso un vestito di lana e un cappello su una sedia vicina; la loro qualità indicava che il proprietario era un giovanotto promettente, anche se trascurato. E anche lui era di una qualità sufficiente a soddisfarmi, poiché le sue braccia scoperte (stese sopra le coperte a un angolo di novanta gradi con il torso) e la parte superiore del petto, erano forti e abbastanza muscolose, né troppo grasse né troppo magre. I suoi riccioli castani si addicevano perfettamente al suo viso, che aveva guance rosate leggermente paffute e un breve naso all’insti; in generale, l’impressione era quella di un uomo i cui lineamenti da ragazzo lo avrebbero sempre fatto apparire cinque anni più giovane della sua vera età.

«Ha bisogno di un bagno», bisbigliò Elisabeth ma, in verità, a me non importava. La mia fame e il mio desiderio di premere le labbra sulla gola dell’uomo erano così grandi — anche se, prima, avrei preferito approfittale di altri attributi, in modo che il suo sangue potesse avere un gusto più dolce — che non mi sarebbe importato se avesse sguazzato nel letame fresco.

Infatti, notai appena quando Elisabeth si allontanò, e non me ne preoccupai. La mia attenzione era rivolta all’uomo e, lentamente, delicatamente, in modo da non svegliarlo, allontanai le lenzuola e le coperte dal suo petto. Indossava una semplice camicia da notte bianca, ma aveva lasciato i tre bottoni superiori sbottonati, cosicché essa restava aperta rivelando un altro po’ del petto e il fitto e riccio pelo castano.

Facendo attenzione, tirai giù le lenzuola verso i suoi piedi, per rivelare altre delizie… infatti la camicia da notte era salita e si era arrotolata, lasciandolo scoperto e mostrando un altro ciuffo di peli castani… da cui emergeva un membro innegabilmente eretto.

Ora, a lungo io mi sono creduta dannata e, ben presto, nella mia vita immortale, giurai che non mi sarei negata alcun piacere, anche nel caso che avessi dovuto essere distrutta e avessi dovuto sopportare le eterne agonie dell’Inferno. Avevo vissuto come una zitella zoppa, chiusa in casa, destinata a non fare mai esperienza delle attenzioni di un amante. Molto presto, dopo il mio Cambiamento, scoprii il più meraviglioso dei segreti: che il sangue dell’uomo nel momento dell’estasi dei sensi ha un sapore più celestiale di qualsiasi nettare, e che il mio dargli piacere accresce di dieci volte la mia stessa estasi (in conseguenza dell’atto e del bere il suo sangue trasformato).

Così strisciai accanto a lui sul letto, usando la mia capacità di ipnotizzare per impedirgli di svegliarsi. Lo volevo prendere subito, prima che Elisabeth ritornasse, poiché la verità era che, stranamente, provavo vergogna a fallo davanti a lei. Ciò non mi aveva mai trattenuto prima — non ero mai stata timida di fronte a Vlad, o a Dunya, o al mio povero fratello — e, a volte, avevo fatto l’amore con due o tre uomini alla volta. Ma, nel caso di Elisabeth, mi sentivo stranamente colpevole… come se le fossi, in un certo senso, infedele.

Ma, prima che potessi alzarmi la gonna e avvicinarmi alla mia amata vittima, Elisabeth ritornò di corsa nella stanza.

«Vieni, portalo!», bisbigliò gesticolando, con gli occhi di zaffiro che le brillavano per la voglia. «Dorka sta preparando un bagno».

«Non c’è bisogno di bisbigliare», le dissi. «È in trance».

Aprii la bocca per dirle che non credevo di avere la pazienza di aspettare che lui facesse il bagno; a quel punto, ero decisa a bere semplicemente il suo sangue. Ma, prima che potessi parlare, lei mi interruppe:

«Peccato!». Il suo viso si atteggiò a un sorriso malizioso. «Prima divertiamoci un po’ con lui, vuoi?».

Lei fissava semplicemente l’uomo, e inchinò il mento verso di lui, che si lamentò e, subito, si mosse; immediatamente, balzai fuori dal letto.

Lui aprì gli occhi — erano occhi gentili, castano chiaro — e, per un momento, non riuscì evidentemente a ricordare dove fosse. Ma poi la memoria gli tornò, ed emerse completamente dal sonno; a quel punto, il suo sguardo cadde su di noi — due donne — e si mise seduto di scatto. Dapprima quei gentili occhi castani espressero grande sorpresa alla vista di due sconosciute nella sua camera, ma poi abbassò lo sguardo alle sue parti intime, e quella sorpresa si trasformò in uno sgomento così intenso e pietoso che io temetti di scoppiare in una risata divertita.

«Mio Dio!», esclamò con un educato tono baritonale inglese e, muovendosi veloce come un morto vivente, si tirò le coperte fino al mento e le tenne lì, con gli occhi sgranati, il viso e le orecchie di un incredibile rosso. «Signore, mi avete sorpreso in una condizione terrìbile.

Non ne potei più; mi misi le mani sulla bocca ridendo piano. Prima che riuscissi a riprendermi per rispondere, Elisabeth disse, in eccellente inglese (cosa che non mi avrebbe dovuto sorprendere più della sua scioltezza con il rumeno, poiché gli ungheresi mortali, di solito, hanno la padronanza di dieci o venti lingue, prima ancora di diventare adulti):

«Le nostre scuse, signore, per l’intrusione!». E fece una profonda riverenza, con l’espressione tanto solenne quanto la mia era divertita. «Abbiamo cercato di svegliarvi bussando e non ci siamo riuscite. Il padrone», e a questo punto le gettai uno sguardo stupefatto e divertito che ignorò del tutto, «ci diede, ieri, ordini severi per portarvi a fare il bagno, non più tardi dell’una di questo pomeriggio, e di fare in modo che ne siate soddisfatto. Sono venuta a dirvi che tutto è pronto. L’acqua non resterà calda a lungo. Vorreste gentilmente venire con me, signore?».

Lui esitò, spostando lo sguardo da me a Elisabeth, improbabili cameriere tutte e due: io con i miei capelli scuri sciolti che mi scendevano fino alla vita, nel mio grigio vestito viennese di seta lavata, vecchio di vent’anni e logoro fino a essere quasi a brandelli, ed Elisabeth nel suo bel vestito color crema.

Ed entrambe di una bellezza ultraterrena!

Vidi che era sul punto di rifiutare, ma Elisabeth si accorse della sua riluttanza e disse subito:

«Per favore, buon signore! Il nostro padrone è severo e soggetto a scoppi d’ira; se scopre che avete rifiutato, sicuramente ci batterà a sangue».

Questo gli fece socchiudere gli occhi e balbettare, cercando disperatamente una scusa appropriata; ma tutto ciò a cui poté pensare fu:

«Che barbaro!».

Allora Elisabeth si fece più audace e lo tirò gentilmente per la manica di lana, con la voce turbata da finto terrore (mentre io mi mordevo entrambe le labbra e lottavo per mantenere un’espressione sobria; mi stava diventando più facile, poiché il mio divertimento veniva rapidamente sopraffatto dalla fame).

«Per favore, signore. Venite con me!».

Lo sconforto dell’uomo era completo, ma la gentilezza riflessa nei suoi occhi ebbe la meglio.

«Benissimo, signorina», disse. «Ma, per favore, aspettate fuori dalla porta finché non avrò preso la mia giacca da casa».

Lei accondiscese, ed entrambe ci ritirammo per consentire all’uomo la sua privacy ma, dietro la porta chiusa, ci abbracciammo e poggiammo la testa l’una sulle spalle dell’altra ridendo sommessamente.

Di lì a poco, udimmo lo sconosciuto avvicinarsi alla porta; prima che l’aprisse, eravamo di nuovo due serve dalla faccia impassibile. Ora era vestito con dignità, con pantaloni lunghi, pantofole di pelle, la giacca da casa di lana dal collo di velluto nero, e una cintura di velluto in vita. I suoi riccioli castani erano bagnati e pettinati ordinatamente, ma le guance erano ancora ben colorite mentre diceva a Elisabeth e a me:

«Benissimo, signore. Conducetemi al bagno».

Così facemmo, camminando in silenzio verso le stanze di Elisabeth, finché il nostro compagno parlò.

«Devo confessarvi, signore… che voi non siete vestite come delle cameriere».

Nell’udire ciò io sorrisi, ma Elisabeth disse molto seriamente:

«Dovete sapere, signore, che il nostro padrone sa essere, a volte, molto crudele, ma anche molto generoso».

Dovetti di nuovo reprimere una risata.

Il gentiluomo accettò la spiegazione con un cenno del capo, e noi continuammo senza più parlare fino a che arrivammo nella stanza di Elisabeth.

Dorka attendeva all’interno con parecchi grandi teli da bagno sulle braccia e disse alla sua padrona in ungherese:

«Ho preparato il bagno».

Elisabeth annuì mentre prendeva degli asciugamani, poi si voltò per fare un cenno all’ospite.

«Qui dentro, prego, signore».

Lui ci seguì con un’espressione di crescente imbarazzo e, quando arrivammo all’interno della camera da letto — nel cui centro attendeva una vasca di ferro rotonda con i piedi a forma di artiglio, piena di acqua fumante — ci disse di fermarci.

«Signore, vi ringrazio per il vostro aiuto. Ciò sarà sufficiente, grazie».

E fece un cenno per congedarci.

Elisabeth lo guardò, colpita.

«Ma signore… se io non eseguo esattamente gli ordini del mio padrone… lui ci ha detto di assicurarci che voi siate soddisfatto».

Con malvagio divertimento, raccolsi il suo suggerimento e mi avvicinai a lui; con una sola tirala, sciolsi la cintura della sua giacca da camera, che si aprì rivelando la lunga camicia da notte infilata nei pantaloni.

Tutti gli uomini di questa epoca sono così puritani? Lui si ribellò richiudendosi la giacca e disse con stizza:

«Beh! Questo è molto sconveniente, e io sono fidanzato!».

Poi Elisabeth entrò e, incurante delle sue indignate proteste, gli tolse la giacca nell’istante in cui io gliela aprivo di nuovo. L’inglese, senza giacca, lottò per liberarsi, ma noi eravamo più forti e lo tenemmo saldamente.

«Non siate così pudico, signore!», gli disse Elisabeth, con una tale sincerità che io fui quasi convinta che fosse una serva che agiva per ordine di Vlad. «È l’usanza del nostro paese che le donne assistano gli uomini nel fare il bagno».

E, mentre lei gli teneva ferme le braccia da dietro, e lui si lamentava piano per lo sgomento, io m’inginocchiai, gli sbottonai i pantaloni, e glieli tolsi. Sotto c’era un paio di mutandoni da uomo di seta, lunghi fino al ginocchio. Rapidamente glieli sfilai, mentre l’inglese gridava dall’orrore; poi vennero via le pantofole di pelle, una alla volta.

Mi restava un’ultima sfida: la lunga camicia da notte. Elisabeth liberò dapprima un braccio, poi l’altro, mentre io, con rapidità, gli sfilavo la camicia da notte dal viso ora color melanzana, rivelando finalmente la sua nudità. Subito, lui si chinò su se stesso per l’imbarazzo e lo sgomento in un patetico tentativo di nascondere il suo corpo alla nostra vista; se le sue mani fossero state libere, senza dubbio si sarebbe coperto le parti intime.

Elisabeth fece schioccare la lingua in segno di disapprovazione e mi si rivolse in rumeno. «Questi vittoriani… troppo vestiti! Non è salutare». All’ospite, disse poi in inglese: «Nella vasca, signore!».

Lui non si mosse per obbedire e così, sempre tenendogli le braccia dietro alla schiena, lei lo sollevò e lo depose nell’acqua fumante.

Lui vi entrò con un breve grido per il caldo bruciante e rimase sulle prime in punta di piedi, nell’acqua che gli arrivava alle cosce. Ma presto la decenza vinse la paura e, emettendo un gemito, si rannicchiò nella vasca. Subito l’acqua coprì tutto tranne la testa e il collo; questi erano velati dal vapore che si alzava. Si portò quindi sul lato vicino a noi che, in effetti, nascondeva il resto di lui alla nostra vista.

Dal bordo della vasca, Elisabeth prese una saponetta — fine sapone francese, fragrante di profumo — e, con aria severa, gliela porse.

«Lavatevi, signore», gli disse.

Sempre rannicchiato, lui stese un braccio gocciolante e la prese. Seguì un divertente momento di indecisione, in cui la sua espressione comunicò ogni suo pensiero: come avrebbe dovuto portare a termine quel compito davanti a quegli sguardi femminili? Il buon senso indicava che si doveva alzare per fare un migliore uso del sapone ma, ancora una volta, la pudicizia prevalse. Rimase rannicchiato nell’acqua fino al collo, e in questo modo si passò il sapone dappertutto.

«Ho finito», annuncio. «Vorrei un telo da bagno».

«Non ha finito del tutto», gli dissi, mentre cominciavo a slegare il mio corsetto. La seta grigia si aprì rivelando i miei seni bianchi… non costretti dalla biancheria vittoriana.

Lui trattenne il respiro e distolse doverosamente gli occhi, da gentiluomo, con un’espressione tra l’orrore e il desiderio nascosto. Quando la seta cadde frusciando sulla pietra e io avanzai verso di lui nella mia nuda gloria, più bella di qualunque visione di Venere emergente dal mare, lui mi guardò furtivamente con la coda dell’occhio.

Entrai nella grande vasca di ferro e mi inginocchiai accanto a lui, con il liquido che mi toccava i capelli color indaco lunghi fino alla vita e li faceva galleggiare come alghe che si muovono pigramente. Sotto l’acqua che si muoveva, la mia pelle luccicava di un bianco fosforescente accanto alla sua pelle più scura e grigia. Il calore era delizioso.

Dietro di me udii la voce di Elisabeth, nella quale ora vibrava un’innegabile eccitazione e seppi, allora, che sarei stata capace di fare ciò che desideravo alla sua presenza, senza vergogna.

«Non vi allarmate, signore», disse. «È solo la nostra usanza lasciare che le donne facciano il bagno dopo gli uomini. È considerato del tutto normale…».

Ma l’inglese si alzò accanto al bordo della vasca con le ginocchia e i fianchi premuti contro il ferro caldo, e le dita aggrappate al bordo.

«Per favore, signorina… un telo da bagno! Mi sento piuttosto a disagio poiché, nel mio paese, l’usanza è del tutto diversa».

Mi avvicinai finché le nostre gambe si toccarono; lui si ritrasse subito, spruzzando acqua dappertutto, disperato. Seppi, in quel momento, che la sua decisione di essere fedele alla sua fidanzata era, sfortunatamente, sincera e sorretta da una grande determinazione, così allungai una mano gocciolante e voltai il suo ispido mento verso di me.

La sua volontà era forte, ma non in modo eccessivo; nell’istante in cui il suo sguardo incontrò il mio, cadde sotto il mio incantesimo e sospirò, felice di essere liberato da ogni ingombrante inibizione.

«Siete la creatura più squisitamente bella che abbia mai visto», bisbigliò, e allungò la mano verso di me.

Ci baciammo, unendo le nostre labbra febbrilmente, lui con passione tale da eguagliare la mia, come se anche a lui fosse stata negata l’esperienza dell’amore per due decenni. Pensai che sarei diventata pazza, tanto grande era il mio desiderio per il suo corpo e il suo sangue: i miei baci affamati divennero presto dei piccoli e rapidi morsi sul suo collo e sulle spalle. Si alzò gemendo, e mi sollevò insieme a lui in modo che i suoi baci potessero scendere verso il basso, dal viso al collo, ai seni…

Allora indietreggiai, con suo sgomento (poiché tentava di afferrarmi disperato), e mi appoggiai contro il lato della vasca, chiamandolo perché venisse da me. Così fece e, anche sotto la trance, fece trasparire una temporanea confusione su ciò che, con precisione, doveva accadere poi: il mio inglese sembrava fosse vergine. Ma, quando si avvicinò, mi raddrizzai per sedermi sul bordo della vasca e circondai con le mie ginocchia i suoi fianchi.

Intenta a mostrargli come fare, mi ero del tutto dimenticata della presenza di Elisabeth finché lei non apparve accanto a noi: ora splendidamente nuda e più gloriosa di me. Mi trovai a fissare nel profondo dei suoi occhi blu elettrici, semplicemente attonita per la sua bellezza. Per quanto fossi occupata dal nostro ospite, fui ancora più presa dalla sua pelle nuda, luccicante come neve fresca nella luce del sole. E, lo confesso, dai suoi seni… grandi e pieni, ma sodi come quelli di una ragazza giovane, con il loro latteo biancore coronato da capezzoli di un rosa delicato come un cammeo.

Desiderai ardentemente allungare una mano e toccarli, ma ero così sorpresa nello scoprirmi a desiderare una donna, che mi trattenni e, invece, la guardai mentre aiutava l’inglese nei suoi sforzi di esplorare nuovi territori.

Mentre, con le dita che lo tenevano saldamente, lo guidava verso di me, io inclinai le anche per permettergli di entrare; nell’istante in cui ciò accadde, lui ansimò di gioia stupefatta. Era il suono puramente grato di chi, infine, sa: «Ah, allora è questo ciò che mi è stato tanto a lungo negato!».

Cominciò a spingere… selvaggiamente, con insistenza, pieno di un tale intollerabile desiderio che non riusciva a trattenersi; anch’io non riuscii a resistere e mi aggrappai a lui disperatamente, gridando a ogni movimento. Nel mio delirio, ero solo vagamente cosciente del braccio di Elisabeth tra di noi, con il pollice e l’indice che, formando uno stretto anello, stringevano alla base il membro di lui, in modo che la sua crescente rigidità potesse garantire al mio amante e a me maggiore piacere.

Ma troppo presto, troppo presto, lui si inarcò contro di me gridando, mentre io venivo invasa da un calore interno. In quell’istante, il mio urgente desiderio lasciò il passo a una fame ancora più urgente: lo morsi selvaggiamente nella pelle calda e umida, alla giuntura tra collo e spalle, e bevvi il sangue più dolce, più delizioso che abbia mai bevuto, poiché il gusto era esaltato dall’intensa estasi virginale dell’inglese e dal mio stesso affamato desiderio.

Lui si lamentò, inarcandosi ora per il suo piacere di vittima; ricevere il Bacio Oscuro è, infatti, un piacere infinitamente sensuale.

«Fallo a pezzi!», gridò Elisabeth accanto a me. «Fallo a pezzi, fallo sanguinare… Vlad non lo saprà!».

Lo lacerai con i denti ben conficcati nella sua carne (facendo attenzione a stare lontano dal collo, per non ucciderlo inavvertitamente), scuotendo la testa come fa un cane quando ha preso un topo.

Il mio amante gemette di nuovo, poiché il dolore, adesso, era per lui gioia. Forte e scuro sangue mi sporcò le guance, le palpebre, il petto e le mani: bevvi! Bevvi finché fui ebbra, finché fui cieca, finché dimenticai del tutto me stessa e ciò che mi circondava, sorda a tutto tranne che al lento pulsare del cuore dell’inglese.

Avrei continuato incurante finché il battito del suo cuore fosse cessato, ma delle forti braccia mi tirarono via. Alzai gli occhi, abbagliata come un gufo al chiarore di una lanterna, e vidi Elisabeth che afferrava l’uomo mentre questi cadeva, sollevandolo dall’acqua e deponendolo su un telo di lino aperto sul pavimento.

Bella Elisabeth, con il viso coperto di sangue inglese.

Nessun angelo, nessuna dea, potrebbe osare aspirare a una tale bellezza. E poi mi mise quelle sue forti braccia intorno alle spalle, sotto le ginocchia, e mi sollevò dall’acqua tinta di rosso. Mi afferrai ai suo collo: Psycho salvata da Eros.

E, quando mi ebbe deposto accanto al mio amante con infinita gentilezza e mi ebbe porto un telo, si chinò tra me e la mia vittima svenuta e con trasporto strofinò le sue guance, la lingua, i seni e il ventre contro la ferita di lui, coprendosi di sangue. Poi infilò le dita nelle ferite e allungò le mani gocciolanti, per dipingermi le labbra sorridenti, il ventre, i seni. Si avvicinò a questi ultimi con grande delicatezza e il tocco di una piuma, avanzando lentamente a spirale verso l’interno dall’esterno di ogni seno, fino a raggiungere il suo centro. Lì indugiò, tracciando cerchi sempre più piccoli e più interni finché io non resistetti più e rabbrividii per la piacevole attesa, con le gambe che si agitavano contro la pietra fredda come se desiderassero fuggire.

Ma il mio cuore non me lo permise.

Ero già una felice prigioniera, anche prima che Elisabeth si chinasse per abbracciarmi. Ero satolla di sangue, languida ed elettrizzata per l’eccitazione di nutrirmi. Ma, quando lei premette la bocca contro la mia e sentii la sua lingua lavorare con forza contro le mie labbra, assaporando lì il sangue, compresi che la mia fame era stata placata… ma non il mio desiderio fisico.

Era la trasgressione del nostro amore che mi riempiva di un fuoco più caldo di quello che avessi mai conosciuto? Mi protesi per premere un palmo contro la sua schiena, e l’altro contro la sua nuca, quindi la tirai verso di me. Fu in quel momento che ebbi un’altra rivelazione: oggi, per la prima volta nei miei ottant’anni di esistenza, avevo fatto esperienza dell’amore nel vero senso della parola… carne calda contro carne calda.

Lei mi baciò il viso, i seni, il ventre, usando la lingua per pulire ogni parte con grazia sensuale e consapevole. Poi si alzò e si avvicinò nuovamente alla ferita dell’inglese; ancora una volta, intinse le dita nel suo sangue.

Gridai piano quando lei (le mani mi tremano talmente al ricordo, che posso appena scrivere) mise quelle dita insanguinate tra le mie gambe e ripulì il sangue nel posto dove l’inglese era stato poco prima. Poi con quelle dita penetrò dentro di me e si chinò di nuovo per leccarmi via il sangue.

Ricordo poco altro tranne l’istante in cui caddi fuori dal mondo in quel grande e glorioso abisso di piacere, talmente poco consapevole delle mie urla che sembrava come se le avesse emesse qualcun altro.

Ma mentre giacevo con gli occhi chiusi, disfatta dal piacere, udii le sensuali grida di qualcun altro: era Elisabeth, la mia cara Elisabeth, che giaceva accanto a me. La accarezzai allontanandole i riccioli bagnati dalla fronte finché si riprese e aprì gli occhi blu per sorridermi.

Mi chinai e la baciai teneramente. Poi intrecciammo le braccia e restammo abbracciate a lungo in silenzio.

Finalmente ho ciò che Vlad mi promise tanto tempo fa ma che non mi ha dato mai: un amore eterno.

Quando infine ci alzammo, abbassai lo sguardo sull’inglese addormentato e vidi che le ferite inflitte sulle sue spalle erano completamente guarite.

Elisabeth mi condusse nel salotto, dove vi erano una mezza dozzina di grossi bauli accanto a un’altra mezza dozzina di valige, e ne aprì una. Per sé prese una stupefacente vestaglia giallo pallido bordata di un ampio merletto; per me, una vestaglia di raso blu elettrico bordata di velluto nero. Insieme ritornammo nelle mie stanze. Nell’aprire la porta mi fermai ed esclamai sgomenta:

«E Dunya? Abbiamo dimenticato la povera Dunya!».

Elisabeth mi diede dei colpetti sulla spalla, con fare rassicurante.

«Avrà molte più possibilità: finché sono qui, non può morire di fame, dimenticata, a prescindere da quello che Vlad potrebbe fare, ma per ora, mia cara, è meglio che nessun altro sappia dei nostri incontri segreti».

Sospirai con riluttante sottomissione sebbene, in effetti, considerassi estremamente egoista negare alla mia fedele serva la possibilità di nutrirsi.

Al vedere l’infelicità nei miei occhi che tenevo bassi, Elisabeth mi mise un dito sotto il mento e lo sollevò teneramente finché i nostri sguardi si incontrarono.

«Ora vai a riposarti», disse per consolarmi, «e, quando verrà la notte, ti alzerai ancora in modo che Vlad non sospetti. Dubito che ci permetterà di incontrarci, ma ti prometto che farò tutto il possibile per convincerlo che tu e Dunya dovete nutrirvi. E, se sarà d’accordo, allora tu potrai darle tutta la tua cena».

Fermandosi, mi sfiorò le labbra con il più leggero dei baci.

«In quanto a te, mia cara… domani, se ti fa piacere, guarderemo il sorgere del sole insieme».

Il pensiero mi rallegrò talmente che gridai:

«Oh, Elisabeth! Ti amerò per sempre!».

E, nell’udire ciò, lei sorrise.


9 maggio 1893. Ancora una volta, mi sono svegliata al suono della voce di Elisabeth e alla vista del suo splendido viso.

Ricordo a malapena la notte scorsa, tranne che fui troppo felice nel vedere che, come Elisabeth aveva detto, Dunya sembrava e si sentiva ancora forte. Questo mi fu di conforto, poiché mi sentivo ancora in colpa per non averla invitata a nutrirsi ieri.

Ah, ma poi ricordai il mezzogiorno di ieri — e lo ricordo ora — e ogni volta che lo faccio, arrossisco. La notte scorsa non ho visto Elisabeth; sospetto che Vlad abbia voluto tenerla con sé per mancanza di fiducia e, per amor mio, lei non ha voluto disobbedire al suo ordine di evitale la mia compagnia.

È bene anche che non l’abbia vista allora; poiché, persino in presenza di Vlad, non sarei stata in grado di controllare la mia gioia alla vista di lei.

«Mia cara», disse Elisabeth piano, e allungò la mano nella bara per accarezzarmi la fronte e una guancia, teneramente, così come una madre accarezzerebbe un figlio. «Mi addolora così tanto vederti dormire in questo… questo aggeggio! I limiti di Vlad non sono i tuoi, sebbene lui possa volere che tu lo creda. Non vuoi stare nel mio letto?»

«Farò qualunque cosa ti faccia piacere».

Le presi quindi la mano che aveva poggiato sulla mia guancia e la baciai.

«Sarò molto contenta di averti con me».

La sua frase mi fece piacere ma, in verità, non l’ascoltai che con metà della mia attenzione, poiché stavo guardando oltre lei, la finestra aperta, e vi vedevo i primi rosei raggi dell’alba che filtravano attraverso nuvole grigio-perla.

Ansiosa come un bambino, mi voltai verso di lei.

«Possiamo uscire? Adesso? Voglio vedere l’alba!», dissi.

«Sta piovigginando, temo e, da un momento all’altro, comincerà a piovere più forte».

Si toccò con una mano i riccioli d’oro attentamente acconciati come se la sola menzione del tempo potesse rovinarli.

«Non importa! Tu puoi restare qui: io voglio solo uscire e stare lì».

Alle prime tre parole, gettò indietro la testa e rise con indulgenza, poi continuò a sorridere finché non ebbi finito.

«Verrò con te, mia cara. Non avevo capito che ti sentissi così forte. Ma, se tu lo desideri, allora sarà fatto!».

Così le presi la mano e uscii dal mio macabro luogo di riposo: insieme camminammo lungo lo stesso percorso che avevamo preso il giorno precedente. Il suo vestito di seta gialla e il vestito di raso blu scuro che mi aveva dato, strusciavano piano contro il pavimento. Mentre camminavamo, lei si voltò verso di me con un’espressione di innegabile apprezzamento per il mio corpo, e disse:

«È veramente bello su di te, cara. Lo puoi tenere, e voglio che tu scelga qualcuno dei miei vestiti da indossare: Dorka potrà apportare le modifiche necessarie».

«Sei così gentile, Elisabeth!».

Mi sentivo letteralmente bruciare d’amore, come se il mio cuore fosse una grande fornace, finalmente accesa.

«E tu sei così bella, mia Zsuzsanna…».

Infine arrivammo alla grande porta di legno e ferro, e la spalancammo. Respirai immediatamente la fresca aria umida e mi meravigliai per la pioggerella che cadeva. Fuori c’era un paesaggio grigio, e un cielo coperto di nuvole.

È vero, fui delusa… per quanto bella potesse apparire la pioggerella, simile a diamanti luccicanti nella luce del sole. Anche così, ero contenta solo perché stavo all’aperto durante il giorno, e avanzai, volendo solo restare lì a sentire l’acqua fresca contro il viso, contro la pelle.

Ma, quando cercai di oltrepassare la soglia e correre lungo le scale, gridai per una delusione più profonda; infatti, per quanto provassi, non riuscivo ad andare oltre l’entrata, trattenuta da una forza invisibile.

Non potevo uscire. Sconvolta dalla disperazione, guardai Elisabeth in cerca d’aiuto.

Quello che vidi mi sorprese molto.

Anche lei stava sulla soglia e, pronunciata una veemente maledizione in ungherese, batté il piccolo piede calzato. Mentre guardavo, il bianco dei suoi occhi divenne scarlatto, rubino contro zaffiro, un contrasto stranamente accentuato dal pallore della sua pelle. È stata l’unica volta che l’ho vista con un aspetto sgradevole, e mi sorprese molto.

Indignata, si voltò per guardarmi in viso.

«Ci teme! E così è ricorso a questa pietosa magia…».

Indicò con disgusto la soglia.

Ma io nutrivo molta fede nelle sue capacità; se mi avesse ordinato di camminare sull’acqua, lo avrei fatto. Attesi che mi oltrepassasse, che uscisse audacemente all’esterno, permettendomi, poi, di fare lo stesso.

Non lo fece: rimase accanto a me sulla soglia, con l’espressione indignata. Non poteva uscire all’esterno, proprio come me. La mia delusione fu completa poiché, onestamente, l’avevo creduta onnipotente.

A causa dell’angolo della porta, non potevo vedere il sole innalzarsi nelle nuvole rosate, né la neve sulle lontane montagne; di entrambi, mi sarei dovuta accontentare guardando attraverso la finestra. Ma mi chinai più avanti che potei, distesi il braccio attraverso la porta, e voltai il palmo verso il cielo.

Lì sentii la pioggia dolce e leggera, fresca e gentile sul palmo voltato verso l’alto; le gocce caddero sul velluto nero — sul quale formarono delle perle — e sul raso blu scuro, che divennero più scuri. C’è qualcosa di consolante riguardo alla pioggia che cade durante il giorno, e qualcosa di lugubre se cade nel profondo della notte.

Infine, abbassai lentamente il braccio e mi voltai tristemente verso Elisabeth.

«Siamo in trappola», le dissi.

La sua espressione era di oltraggio mal represso, sebbene il rosso nei suoi occhi si fosse un po’ schiarito.

«Niente affatto!», esclamò.

«Allora, perché non possiamo uscire?».

Aggrottò la fronte, come se la mia domanda fosse stata altamente impertinente, e con esasperazione spiegò:

«Perché Vlad ci ha giocato un tiro inatteso. Non ti preoccupare, Zsuzsanna: presto lo sistemerò. Ma per ora, vieni. Divertiamoci in un altro modo».

Mi riportò nella stanza dell’inglese, da cui proveniva di nuovo il suono del russare. Elisabeth si voltò verso di me: sembrava una dea di panna vestita di seta color del sole, e allungò il braccio per seguire con leggerezza il profilo del mio colletto con la punta di un dito. Rabbrividii leggermente al suo tocco di piuma sulla pelle del collo e del seno, e immediatamente mi sentii eccitata.

«Oggi non è molto forte», disse, con un civettuolo cenno della testa e la lucentezza del puro desiderio negli occhi. «Ma forse ti piacerebbe una piccola bevuta…».

Volevo più lei che lui e stavo per dire: «No, andiamo nelle tue stanze e passiamo la giornata nel tuo letto», ma aveva già spalancato la porta ed era entrata.

La seguii con una riluttanza solo parziale; il pensiero di cenare di nuovo non mi era del tutto sgradevole, dato che il giorno precedente non ero stata in grado di bere a sazietà. Anche così, non ero affatto sopraffatta dalla fame. Così entrai senza fretta, ma con una leggera curiosità; chi era quell’inglese e com’era successo che fosse arrivato qui? Ovviamente, nelle notti che Vlad era andato a cacciare per noi, doveva essersi recato a Bistritz per impostare delle lettere per quell’uomo…

Invece di portarmi subito vicino al letto per approfittare della mia vittima addormentata, passai accanto all’armadio, dove un certo numero di lettere era ordinatamente sistemato in gruppi. Diedi un’occhiata alla prima, che era apparentemente un qualche documento legale, preparato da un certo Peter Hawkins, Esquire — e firmata dal “conte” V. Dracula.

«Bene!», dissi, con uno sguardo all’uomo che dormiva sotto il baldacchino… ancora una volta, le tende del letto erano state lasciate aperte. Non mi presi la pena di tenere la voce bassa, poiché Elisabeth mi aveva mostrato come impedire ad altri (incluso Vlad) di udirmi. «Il nostro giovane inglese è un avvocato impiegato da un uomo di nome Hawkins, e ha trattato affari legali per conto di un certo V. Dracula».

Gli occhi di Elisabeth si strinsero pensando a un intrigo; immediatamente, si allontanò dal letto per venirmi vicino. Mentre io frugavo in un gruppo di lettere, lei ne esaminò un altro, poi prese un piccolo diario rilegato in pelle e cominciò a leggere.

«Non so dire in che lingua o codice scriveva», disse, dopo un po’. «Ma ha scritto qui il suo nome: Harker. Jonathan Harker, Esquire».

La udii appena poiché avevo esaminato con maggiore attenzione il documento legale e il mucchio di corrispondenza. Fui colpita come Saulo sulla via di Damasco da un’abbagliante rivelazione e, allora, sentii i miei occhi ardere della stessa rossa furia che avevo visto in precedenza in quelli di Elisabeth.

Poiché compresi che quell’uomo non si trovava lì semplicemente come ospite per placare la sete di Vlad. No, era lì per uno scopo molto più sinistro: assistere Vlad nel suo trasferimento in Inghilterra.

Mezzo secolo fa, Vlad mi aveva giurato che mi avrebbe portata via da questo tetro paese verso un’eccitante vita a Londra. Soltanto le nostre difficoltà con mio fratello Arkady e suo figlio, il maledetto Van Helsing, ci hanno impedito di fuggire finora.

Adesso, finalmente, lui se ne andrà… mentre io dovrei restare qui a morire di fame? Per quale altra ragione mi ha impedito di lasciare il castello?

Mi voltai verso di lei, agitando il foglio che avevo in mano.

«Questo», sibilai, «è un documento che stabilisce la proprietà… di un bene che Vlad ha comperato in segreto!».

Smise di leggere il foglio che aveva in mano e mi guardò con un sopracciglio dorato a forma di V invertita, mentre sbirciava il documento che stringevo.

«Sembra Londra», disse pensierosa, restando calma nonostante la mia rabbia. «Purfleet è a Londra». E mi sottopose un altro foglio fumato, la fattura di vendita di un altro immobile. «Carfax. Anche questo è a Londra».

Sopraffatta dalla rabbia, mi sedetti con foga su una sedia di broccato sbiadito.

«Te ne ha parlato?».

Elisabeth si portò dietro di me e mi mise una mano sulle spalle per confortarmi.

Scossi la testa e lei sospirò.

«Mia cara Zsuzsanna… Penso che abbia intenzione di abbandonarti qui».

«Quel bastardo!», imprecai, adirata. «Ci vuole lasciare qui a morire di fame! Ci vuole distruggere: noi che lo abbiamo sempre aiutato!».

Si chinò accanto a me, con un’espressione di estrema compassione e mi abbracciò le ginocchia come per confortarmi.

«Zsuzsanna, ti giuro che non ci riuscirà! Ho aspettato per molto tempo che ciò si verificasse, e ho fatto dei piani».

«Allora perché sei venuta qui, se sapevi che ti avrebbe tradita?».

«Lui mi parlò di te nella sua lettera. Non sono venuta per aiutare lui: sono venuta per liberare te».

Nell’udire ciò, mi chinai e l’abbracciai, premendo il suo viso contro la mia spalla, e sentii calde lacrime pizzicarmi gli occhi.

«Mia dolce Elisabeth, sei stata così buona con me!».

Lei mi tenne stretta e io tenni stretta lei a tal punto che, quando ci allontanammo, entrambe dovemmo riprendere fiato.

«Lo sarò ancora di più», disse, con uno sguardo di infinita decisione. «Ti chiedo solo di avere fiducia in me».

«Non c’è bisogno di chiederlo. Ma cosa faremo? Non possiamo lasciare il castello».

«Aspetta, dolcezza. Aspetta soltanto. Quando verrà il momento giusto, ce ne andremo».

«Non posso aspettare!», gridai, e battei il tacco contro il pavimento come un bambino arrabbiato. «Perché non lo possiamo uccidere adesso? Tu sei così potente, Elisabeth! Perché non lo hai ancora distrutto e non ci hai liberato da questo castello?».

Sospirò e rimase ferma per un po’ fissando, oltre me, qualcosa di lontano, di invisibile. Infine, incontrò di nuovo il mio sguardo.

«Quando sarà passato un altro secolo, o forse due, Zsuzsanna, allora capirai. L’immortalità porta con sé un fardello inevitabile, quello dell’ennui. Mi dà piacere avere un nuovo passatempo: vendicare la tua sofferenza distruggendo Vlad.

Ma sarebbe troppo semplice distruggerlo ora, anche se, lo confesso, sarebbe difficile, perché il suo potere qui è più grande che altrove. E sarebbe troppo rapido: lui ti ha inflitto troppa sofferenza, sia in vita che nella Morte Vivente, per morire rapidamente, senza angoscia». Si raddrizzò all’improvviso piena di eccitazione. «Diamogli la caccia! Inseguiamolo fino a Londra e tormentiamolo là, mandiamo a monte i suoi piani. E, quando sarà del tutto confuso, solo allora riveleremo che siamo noi la fonte della sua disgrazia».

Mi afferrò per la vita e mi tirò vicino a sé, poi piantò sulle mie labbra un bacio appassionato.

«Permettimi di portarti a Londra, Zsuzsanna! Conquisteremo Vlad e la città. Ti vestirò dei rasi e delle sete più fini, e ti adornerò di gioielli: diventerai così bella che l’intero paese cadrà ai tuoi piedi e ti venererà».

Mi accarezzò quindi la guancia con la mano e mi guardò in modo così affettuoso che mi calmai.

In silenzio si alzò e mi fece fare altrettanto, poi mi condusse dal giovanotto. Mi faceva piacere, questa volta, che lui dormisse. In modo quanto mai delicato morsicai la pelle intatta della sua gola e bevvi con altrettanta delicatezza.

E quando, con le labbra sporche del sangue scuro di Mr. Harker, alzai il viso, accanto a me vi era Elisabeth… ansimante di lussuria, con gli occhi pieni di desiderio quanto quelli di qualsiasi uomo che vedesse la mia bellezza. Improvvisamente mi si avventò contro, mi stracciò il vestito, e mi leccò le labbra fino a pulirmele. Poi mise nuovamente le dita nella ferita di lui — piccola questa volta e non tanto sanguinante — e mi sporcò con il sangue i seni nudi.

Cedetti, ridendo mentre cadevo all’indietro sul letto, contro le gambe di Harker (che, a causa di ciò che avevo fatto, non si svegliò né si mosse). Lì le permisi di prendermi come aveva fatto prima, leccando il sangue e mettendone altro nelle zone più morbide finché caddi ancora, gridando, nel vuoto beato…

Feci lo stesso per lei, sebbene, lo confesso, non fosse del tutto di mio gusto. Né lei sembrò trarne piacere quanto me; chiaramente preferiva essere quella che dava piuttosto che ricevere e, quando la piccola ferita dell’inglese cessò di sanguinare, il suo desiderio sembrò venire meno. Ma io riuscii a portarla in uno stato di ebbrezza e, dopo di ciò, giacemmo arrossate e calde una nella braccia dell’altra sopra l’avvocato che russava.

«Ora», disse lei piano, «vieni con me nella mia stanza. Dirò a Dorka di aggiustare alcuni dei miei vestiti per te, affinché tu li possa indossare quando andremo a Londra. E, quando saremo là, ti comprerai tutti gli abiti e i gioielli che desideri, e poi ne comprerai altri ancora».

Andai con lei nelle sue stanze e provai un vestito dopo l’altro, guardandomi in uno specchio che teneva Dorka. Che piacere! I vestiti erano tutti nuovissimi, all’ultima moda, con una crinolina sul didietro e tutti di gran gusto (sebbene fossero leggermente troppo lunghi e troppo generosi nel petto e alla vita). Ora Dorka me li stava aggiustando.

Poi Elisabeth mi portò con sé nelle camere da letto, dove scivolai nuda tra le lenzuola di cotone più meravigliosamente fini che avessi mai visto, e mi tirai la grande trapunta, ricoperta di raso, fino al collo (ora capisco la ragione di tutti quei bauli: non vi sono lenzuola tanto eleganti in tutta la Romania! Si era portata la sua biancheria).

Lei mi si mise accanto, e io caddi ben presto in un sonno meraviglioso e gradevole.

Quando mi svegliai, era nuovamente il tramonto, ed Elisabeth se ne era andata, senza dubbio in compagnia di Vlad. Avevo dormito per la maggior parte del giorno, ma non ero dispiaciuta, poiché mi sentivo estremamente riposata. Così ritornai nelle camere che dividevo con Dunya — che avevo diviso con Dunya — e presi il mio diario e il mio ritratto che portai qui, nella stanza di Elisabeth. Non dormirò più nella bara.

Ora, mentre scrivo, accoccolata nel letto lussuoso e comodo di Elisabeth, i miei pensieri ritornano al tradimento di Vlad e all’insistenza di Elisabeth sul fatto che noi non dobbiamo danneggiarlo ora, ma seguirlo in Inghilterra. In verità, il pensiero di andare con lei a Londra — a Londra, finalmente! — mi eccita oltre ogni dire, e vendicarmi di Vlad con lei al mio fianco mi sembra dolce. Ma quanto tempo devo aspettare? Quanto?

Загрузка...