Il diario di Zsuzsanna Dracul
3 maggio 1893. È arrivata!
Giacevo nella mia bara dopo essermi svegliata da ore, ma troppo sopraffatta dalla stanchezza per alzarmi; non c’era motivo di farlo, comunque. Mi sentivo come una donna morente che, per l’insistenza di Dio, veniva forzata a vivere oltre la sua ora. Non desideravo altro che essere liberata dalla mia sofferenza.
Mentre giacevo distesa, distinsi delle voci all’interno del castello. Dapprima erano soltanto dei mormorii appena udibili e, nella mia autocommiserante debolezza, non vi prestai attenzione (un tempo le avrei udite distintamente, ma le mie facoltà si erano affievolite al punto che potevo distinguere solo la voce e la cadenza, ma non le parole). Continuarono per un po’ e quindi si avvicinarono, così che riuscii a riconoscerne una: Vlad parlava con quel tono cordiale da ospite, che finora gli ho udito usare soltanto per dare il benvenuto a delle vittime.
E poi udii un’altra voce, una che, per un momento, scambiai per quella di uomo, poiché era profonda, di gola, e così estremamente e sicuramente sensuale, che pensai: Sono innamorata.
Così, ovviamente, immaginai che il visitatore che lui stava aspettando fosse arrivato, ma il pensiero non evocò in me se non una fievole gioia. Sapevo che Vlad avrebbe prima pensato a placare la sua fame, lasciando soltanto gli avanzi per me e Dunya. Se, nella speranza di averne di più, avessi osato interromperlo mentre si nutriva, la sua rabbia avrebbe potuto benissimo spingerlo a negarmi persino una sola goccia di sangue.
Poi ci fu silenzio; o così credo, poiché sonnecchiai per un po’.
Ma ritornai in me immediatamente quando, all’improvviso, l’altra rise: un suono estremamente gioioso che per un istante si innalzò a tal punto da farmi comprendere che stavo udendo, invece, la voce di una donna.
Elisabeth…
Perché la notizia del suo arrivo mi riempiva di eccitazione? Non saprei dirlo ma, certamente, trovai in lei molto, molto più di quello che avrei potuto aspettarmi: e io sono dannata, quindi non oso credere nel pietoso intervento di Dio o del destino.
So soltanto che mi alzai immediatamente dal mio giaciglio, mi precipitai lungo il corridoio, e salii le scale verso le camere private di Vlad, dalle quali proveniva la risata.
Quando arrivai, spalancai la porta senza nemmeno bussare una volta.
Lì, davanti a un caminetto acceso, c’era Vlad, ancora vecchio e con i capelli bianchi, ma chiaramente più vigoroso di quanto non fosse stato di recente. Le sue labbra avevano assunto un colore rosato, le sue spalle non erano più curve ma diritte e quadrate e, per la prima volta nel corso di anni, èra di umore eccellente. Ma, al vedermi, il suo sorriso si spense all’istante e i suoi occhi s’infiammarono. Seppi subito che avrei dovuto nuovamente subire la sua ira per la mia irruzione.
Però non me ne curai, perché il mio sguardo cadde su Elisabeth.
Dire che era graziosa è sminuirla. Io sono graziosa più di qualunque mortale: questo lo so guardando Dunya e i ritratti appesi alla parete (sebbene Dunya dica che gli olii non rendono giustizia alla lucente fosforescenza della mia pelle o al bagliore d’oro liquido dei miei occhi).
Ma Elisabeth! Lei era più che bella: era regale, una vera regina. Indossava un moderno cappello piumato e un attillato vestito di raso grigio blu, al quale si intonavano i suoi occhi di zaffiro; la sua pelle era fine e bianca come quella di un neonato, tranne il rosa tenero che le fioriva sulle guance è le labbra. Portava i capelli legati sulla nuca — sopra un collo da cigno di delicata porcellana, con un seducente incavo alla clavicola — e i riccioli che le ricadevano avanti sopra una spalla, rilucevano al chiarore del fuoco di un oro fulgido come il sole.
Era tanto chiara quanto io sono scura e, in quell’istante, se fossi stata un uomo, mi sarei profondamente innamorata di lei. Anche così, credo di aver gridato leggermente per una sorta di timore reverenziale e, quando lei mi rivolse il suo sguardo intelligente e onnisciente, temetti di svenire.
«Vlad, Vlad…», disse, con una voce profonda come il lago Hermanstadt e soffice come il fumo. «Non mi fai l’onore di presentarmi a questa graziosa signora?».
La richiesta mi fece venire le lacrime agli occhi, poiché sapevo di sembrare un cadavere che cammina, ed ero ben lontana dall’essere graziosa. La sua gentilezza mi commosse, e riuscii ad abbozzare un incerto sorriso mentre Vlad — senza protestare, con mia sorpresa — subito si inchinò e disse:
«Contessa Elisabeth Bathory di Csejthe, posso avere l’onore di presentarti mia nipote, Zsuzsanna Dracul?».
Elisabeth mi tese una mano, avvolta in un guanto blu polvere e meravigliosamente profumata… e, con mio grande stupore, calda. La presi e le feci, con grande difficoltà, una piccola riverenza, mentre lei chiedeva a Vlad:
«E non Tsepesh? Allora, hai completamente eliminato il nome?».
Lui annuì solennemente. La sua rabbia sembrava essere interamente svanita, come se esitasse a rimproverarmi davanti a quella donna, vedendo quanto la mia presenza le facesse piacere.
«Mentre vivevo, ero famoso come l’Impalatore, lo Tsepesh, ma ora che sono un immortale, ho altri interessi, e mi fa più piacere essere conosciuto come Dracula… il Figlio del Demonio».
«Allora il Drago è, in realtà, un Demonio?», chiese la donna con civetteria, poi rise… un suono dolce come il suo profumo. Quindi si fece di nuovo silenziosa e rivolse la sua attenzione a me nell’istante in cui mormoravo:
«La tua mano. È calda… Sei un Vampiro o un essere vivente? Ma tu sei troppo bella per essere mortale…».
Nell’udire queste parole, le sue labbra rosa si curvarono astutamente, e sbirciò di sbieco Vlad da sotto le ciglia dorate, con un’espressione che diceva: Glielo devo dire? Ma lui abbassò lo sguardo con gravità, e io ebbi la sensazione che mi nascondesse qualcosa mentre lei rideva compiaciuta e rispondeva:
«Io non sono giovane né mortale, mia cara, ma suppongo di essere, paragonata a Vlad, ancora una ragazza; sono morta infatti appena duecentottanta anni fa».
Mentre parlava, la sensazione di svenire mi riprese, e sarei caduta all’indietro se lei non mi avesse preso per un braccio.
«Ma, mia cara Zsuzsanna, sei così debole! E come siamo sconsiderati a insistere che tu rimanga in piedi».
Rivolse quindi a Vlad uno strano sguardo enigmatico, dicendo: «Vorrei restare per un po’ sola con lei».
La riluttanza balenò sui lineamenti di lui, ma fu presto sostituita da un’espressione di intesa maliziosamente compiaciuta, come se gli fosse appena stato rivelato qualcosa di malvagio.
«Ah! Naturale… Lei ti può condurre nelle sue stanze. Tieni presente che ce n’è anche un’altra… la cameriera…».
«Ancora meglio», rispose lei, e mi passò un braccio ricoperto di raso intorno alla vita. «Fammi strada, Zsuzsanna».
Aveva un atteggiamento premuroso, mentre io ero ancora instabile sui piedi, e così mi permisi di poggiare la guancia sulla sua spalla per studiare meglio quel magnifico collo di porcellana e respirarne il profumo. Era passato tanto tempo da che avevo posto gli occhi su una bellezza immortale, da farmi completamente sopraffare dal suo aspetto stupefacente.
Scendemmo la scala a chiocciola mentre ascoltavo quella musica di violoncello che era la voce di Elisabeth. Mi parlava della sua casa a Vienna, di che meravigliosa città fosse, e io bisbigliai che vi ero stata in visita una volta e che me ne ero innamorata.
«Bene, allora! Verrai a casa mia e godrai a tuo piacimento di tutto ciò che ho. Sei esausta per mancanza di vigore, ma io so vedere sotto questo tuo invecchiamento prematuro. Sei una creatura troppo bella per languire qui in questa desolata rovina che chiamano castello».
Si diede un’occhiata alle spalle come a rendersi conto dell’udito molto acuto di Vlad, ma io dissi:
«Non ti preoccupare. Non riesce più a udire bene come…».
«So con precisione quanto può udire, e non riesce a distinguere le parole che diciamo a questa distanza. Forse eri troppo debole per notarlo ma io, stasera, gli ho restituito un briciolo della sua forza precedente». Si fermò e rivolse le sue fattezze delicate verso di me, con i lunghi ricci splendenti d’oro che le cadevano sopra il prosperoso seno di madreperla. «Ora possiamo parlare con tranquillità. Mia cara… sapevi che mi ha dato istruzioni per non restituirti il tuo potere?».
Le mie labbra si contrassero in una smorfia di collera; riuscii a serrarle, ma tremavano ancora per la rabbia.
«È stato così crudele e spietato… Non puoi nemmeno immaginarlo! Io sono sempre stata buona con lui, e obbediente…».
«Obbediente». Lo ripeté come la più pesante delle maledizioni.
«…ma mi ha ingannata, e ridotta alla fame finché fossi troppo debole persino per cacciare. Per mezzo secolo mi sono fidata di lui, pensando che nutrisse un onesto interesse, persino amore, per me. È mio zio: io lo adoravo senza riserve quando ero in vita, e lui ha approfittato del mio affetto per ingannarmi».
Mentre parlavo, lei si fermò e ascoltò con attenzione le mie parole, con le labbra piene che gradualmente le si strinsero in una linea sottile. Le raccontai della sua “generosa” offerta di cacciare per tutti noi, e della sua crudeltà verso me e la povera Dunya. Quando ebbi finito, disse lentamente: «È come pensavo. Quello stupido bastardo medievale!».
E riprese a camminare velocemente, trascinandomi con sé.
Scoppiai in una risata fragorosa, nonostante la mia debolezza e, sebbene ansimassi, non riuscivo a riprendere fiato — o a frenare la mia risata — per rispondere. Non avevo mai sentito alcuno riferirsi a lui senza timore reverenziale o paura, e udire qualcuno descriverlo senza tanto rispetto, mi stupiva e mi procurava un piacere senza fine.
«Ah, vedo che il termine ti diverte», disse, con la fronte perfetta alterata da un cipiglio. «Ma pensa: il mio termine non è poi tanto sbagliato. Oggi siamo nel 1893, ma Vlad pensa che sia ancora il 1476. Tratta le donne come oggetti; non sarei sorpresa di sentire che ha mantenuto i suoi servi della gleba».
Ancora ridendo, le confidai:
«No, sono scappati cinquant’anni fa per la paura, quando lui ruppe il Patto…».
Raddrizzò bruscamente il capo, con uno sguardo acuto e indagatore.
«Il Patto? Il suo accordo con l’Oscuro Signore? È per questo che sono stata chiamata?»
«Questo non ha nulla a che fare con il Demonio», dissi, e mi fermai per indicare la porta della mia camera, poiché eravamo arrivate a destinazione. «Lui aveva rotto la sua promessa di non condividere l’immortalità con qualcuno della sua famiglia, e gli abitanti del villaggio ebbero paura che potesse cominciare a nutrirsi di loro. Perché ridi?».
Infatti, si era premura una mano sul bianco seno, allargando, le dita guantate di blu, e aveva cominciato a ridere senza riserve. Aveva gettato il capo all’indietro facendo ricadere la massa di riccioli biondi dietro le spalle sulla schiena. Avvicinai la mia faccia alla sua e la osservai, lievemente offesa per il fatto che potesse trovare divertente una cosa tanto seria.
Ma l’offesa subito si trasformò in stupore poiché, a quella distanza, la mia vista indebolita poté chiaramente vedere i suoi denti: erano piccoli, bianchi, splendenti, e tutti uguali. Proprio come quelli di un mortale, senza gli aguzzi e lunghi canini.
«Tu non sei un Vampiro!», mi meravigliai.
Allora ridivenne seria, sebbene le sue labbra fossero ancora atteggiate a una mezzaluna crescente e, tenendomi un braccio intorno alla vita, con l’altra mano afferrò la mia, infondendomi il suo calore.
«Cara Zsuzsanna, io sono ciò che desidero essere. Riguardo al mio riso… non è diretto a te, ma a Vlad, che ovviamente ti ha infettato con la sua idiozia medievale. Mia cara, non esiste alcun Diavolo».
«E allora, l’Oscuro Signore?».
Non lo avevo mai incontrato personalmente — in verità, avrei timore di farlo — ma avevo origliato molti dei suoi incontri con Vlad.
Le sue labbra fremettero in un’espressione leggermente divertita, ma poi lei si controllò per rispetto verso di me.
«È chiamato l’Oscuro Signore perché è così che preferisce essere chiamato. E non è necessariamente un Lui».
La fissai confusa, mentre apriva la porta della mia camera e mi trascinava attraverso la soglia.
«Vieni, mia cara. Hai molto da imparare».
3 maggio 1893, continua. Sono ritornati, sono ritornati… tutta la mia forza, il mio potere, la mia gioia e bellezza, sono ritornati!
Elisabeth mi condusse dentro la mia camera (che, più propriamente, era la stanza dei vecchi servitori), dove la mia lucida bara nera era aperta accanto a quella di Dunya, Nuovamente si sforzò di reprimere un sorriso alla vista delle bare, ma non ci riuscì del tutto. Al mio sguardo interrogativo, mormorò:
«Come tutto è drammatico… e quanto somiglia a Vlad. È sempre stato ossessionato più dalla morte che dalla vita». Quindi si voltò verso di me. «Zsuzsanna… sei capace di mantenere un grande segreto, senza che Vlad lo sappia?»
«Sì. I miei pensieri sono solo miei; lui non ne è a conoscenza».
«Non intendevo dire questo, cara. Io potrei proteggere i tuoi pensieri da lui… sebbene così è certamente meglio, poiché non susciterà i suoi sospetti. Volevo dire: puoi restare pazientemente in silenzio, anche di fronte alla più eccitante delle rivelazioni?».
L’intelligente bagliore adamantino di attesa nei suoi occhi aumentò la mia eccitazione.
«Sì, è naturale… se il silenzio andrà a mio beneficio».
«Oh, lo sarà. Ho restituito a Vlad solo una parte del suo potere: gli ho mentito e gli ho detto che potevo farlo solo poco per volta, poiché desideravo conoscere le sue vere intenzioni prima di restituirglielo completamente. Non mi fido di lui, ma vedo che tu, Zsuzsanna, possiedi una natura buona e onesta; perciò, ti restituirò il pieno vigore ora, subito».
Battei le mani per il desiderio, sebbene l’atto mi costasse un grande sforzo.
«E anche a Dunya?»
«Come desideri. Non ho dubbi che anche lei se lo meriti, se si è conquistata l’affetto e la lealtà di una persona degna come te. Ma ecco la condizione: entrambe sentirete ritornare la vostra bellezza e la vostra forza… ma apparirete a Vlad come siete ora. Davanti a lui non dovrete mai parlare della vostra guarigione, né usare i vostri ritrovati poteri. Lo giuri?»
«Sì», risposi, sorridendo di pura gioia.
Sapevo che sarebbe stato difficile trattenermi dallo sferrare a Vlad un possente colpo o fare sfoggio delle mie abilità superiori davanti a lui, ma avevo paura di riavere la vita che avevo conosciuto. Avrei giurato qualunque cosa.
«Magnifico!», sospirò, poi lanciò uno sguardo alla stanza grande e fredda. «Cara, stenditi», aggiunse.
Mi mossi obbediente verso la bara, ma lei scosse la testa.
«No, non lì. È un posto troppo macabro, e noi non vogliamo qualcosa che ricordi la morte! Sul letto, Zsuzsanna».
Insieme andammo verso l’estremità della stanza, dove uno stretto letto, da tempo inutilizzato, stava vicino a una finestra. Tirai le pesanti tende che circondavano il letto, e mi stesi su una coperta grigia fatta a mano che copriva un antico e gibboso materasso di paglia.
Elisabeth mi seguì e s’inginocchiò vicino a me, poi diede qualche colpetto sul duro materasso con un gemito di sincera indignazione.
«Zsuzsanna, questo è il materasso di un servo!». Si guardò intorno comprendendo all’improvviso. «Ti ha messo nelle stanze dei servi!».
Sospirai.
«Lo so…».
«Basta con tutto questo, mia cara! Quando verrai con me, dormirai sulle piume, tra la seta e il raso, e con lo sfarzo di una regina!».
Quando verrai con me…
Se avessi avuto un cuore, in quel momento avrebbe cominciato a battere più forte perché, sapere che avrei vissuto con qualcuno che si curava veramente di me — ed era così bella da guardare — me ne faceva pregustare con un brivido il piacere. Avevo capito bene? Stava veramente suggerendo che fuggissi da Vlad e andassi a vivere con lei?
Una cosa del genere era mai possibile? Avevo sempre creduto che il destino di Vlad e il suo potere fossero inestricabilmente legati ai miei; che, se lui periva, anch’io sarei morta. Almeno, questo è ciò che lo stesso Vlad mi aveva detto… e io lo avevo sempre creduto. Avevo sofferto qui, in questo desolato castello, senza che ce ne fosse bisogno: perché mi aveva mentito?
Tutta la rabbia che provavo nei confronti di Vlad era eclissata dalla speranza: forse lui mi aveva mentito, ma questa possibilità in realtà, era più confortante del pensiero che non lo avesse fatto. Se fossi riuscita a fuggire da lui, abbandonando questo tetro castello senza paura, per andare con quella stupefacente donna immortale a godermi tutto ciò che le grandi città d’Europa hanno da offrire…
«Vuoi dire», bisbigliai, «che non sono obbligata a restare con lui? Lui mi ha detto che la mia esistenza dipende dalla sua; è…».
Prima che potessi pronunciare la parola “vero”, Elisabeth mi rispose con rabbia:
«Non credere a nulla di quello che ti ha detto! Non esiste il Demonio… ma il Principe della Menzogna sì, e il suo nome è Vlad. Mia cara, lo conosco da quasi tre secoli, e conosco la sua mente egoista: ti ha fatto come sei non perché si sentiva solo o perché ti amava, ma perché tu lo adulavi, e così appagavi il suo orgoglio maschile. E se ti ha detto che la sua distruzione avrà come conseguenza la tua, è stato solo perché desiderava tenerti sottomessa a lui con la lealtà».
A questa notizia cominciai a piangere, poiché la verità era che io l’avevo venerato come una schiava quando ero viva, e c’erano ancora dei residui di adorazione fanciullesca nel mio cuore.
Pensare che la sua motivazione nel cambiarmi non era stata l’amore…
«Ah, dolce bambina, non sprecare le tue lacrime per i suoi capricci».
Ancora in ginocchio, si tolse i guanti blu polvere e, con noncuranza, li gettò sul pavimento, poi si chinò in avanti e mi prese le mani nelle sue. La sua carne — più morbida di quella di un bambino e più delicata — possedeva un calore febbrile, come se avesse appena tenuto i palmi sopra il fuoco per un’ora per catturarne il calore. Al suo tocco, sospirai.
«Ti sarà restituito il tuo precedente splendore — forse anche di più — e non avrai più bisogno di lui».
Si chinò quindi in avanti finché l’intero mondo non consistette in altro se non del suo luccicante sguardo di diamante e di zaffiro.
Brillante come i diamanti e altrettanto freddo, pensai, e rabbrividii all’improvviso, presa da una strana paura irrazionale.
«Che cosa mi vuoi fare?»
«Un bacio», bisbigliò, portando il suo viso così vicino al mio che il suo respiro caldo mi riscaldò le guance. «Solo un bacio…».
E si chinò finché quelle morbide labbra non furono premute contro le mie.
Come posso descriverlo? Come si fa a descrivere l’infinito e la beatitudine a coloro che non ne hanno fatto l’esperienza?
Ricordo la notte del mio Cambiamento, dopo che Vlad mi aveva lasciato morire… la sua dolce sensualità, l’euforia, l’intrigante acuirsi di tutte le facoltà: la vista, l’udito, il tatto. Il ricordo di quei momenti è rimasto con me in queste cinque decadi di Morta Vivente. Nulla, pensavo, li avrebbe potuti sostituire; ah, ma era prima del bacio di Elisabeth!
Quel piacere era così intenso, così divertente, che per un periodo di tempo imprecisato mi persi… persi ogni sensazione di ciò che mi circondava, di Elisabeth, del tempo, di qualunque cosa al mondo, tranne l’oscurità e la felicità. Non c’era un io distinto, nulla era separato da quell’unione con l’eternità.
Se mi fosse stata concessa una scelta, non l’avrei mai lasciata, poiché accanto ad essa anche l’attrattiva dell’immortalità sbiadiva. Ma troppo presto scoprii che ero ritornata nel mio corpo e che giacevo sopra lo scomodo materasso di paglia e sulla rozza coperta fissando gli occhi deliziati di Elisabeth.
«Oh», sospirò, mettendosi una mano sul cuore per lo stupore. «Mia Zsuzsanna… Come sei bella!».
E con l’altra mano mi fece alzare in piedi. Mi alzai con facilità, con grazia, e risi forte all’infinita forza che all’improvviso mi fluì nelle membra. Sempre tenendomi una mano, indietreggiò di un passo per studiarmi, poi afferrò all’improvviso un ricciolo dei miei lunghi capelli e mi disse felice:
«Guarda, mia cara, guarda!».
Guardai… e vidi che l’argento era di nuovo nero come il carbone e con una sfumatura di lucente indaco.
«Uno specchio!», gridò, camminando per la stanza spartana, esaminando le grigie mura di pietra. «Dov’è lo specchio? Devi vederti!».
«Non ci sono specchi», le dissi con tristezza. «Vlad li ha distrutti molto tempo fa. Ma, anche se ci fossero, non potrei vedere il mio riflesso».
«Bah!». E mi tirò per mano trascinandomi nel corridoio. «Subito in camera mia!».
Insieme corremmo su e giù per le scale; questa volta, non ebbi difficoltà a rimanerle accanto. Quando, finalmente, arrivammo in camera sua — sul lato est del castello, dove accoglievamo gli ospiti — lei spalancò la porta, lasciando vedere innumerevoli valige e bauli, e una robusta, giovane donna dal viso arcigno, scialba tanto quanto Elisabeth era bella.
Lei fece un gesto alla donna.
«Questa è la mia cameriera, Dorka; è molto discreta. Dorka, questa è la nipote di Vlad, la Principessa Zsuzsanna. Devi trattarla con estremo rispetto».
Dorka fece un inchino a malincuore, senza sorridere.
«Vai subito a prendere uno specchio», ordinò Elisabeth, con lo sguardo pieno di ammirazione fisso su di me mentre tendeva una mano impaziente alla sua cameriera. Quando Dorka si spostò dal salotto dove ci trovavamo alla camera da letto, la sua padrona disse: «Allora, Zsuzsanna, non ti sei mai vista come un’immortale?»
«Mai».
«Bene, ora ti vedrai», rispose, proprio mentre Dorka ritornava di corsa sbuffando nella stanza con uno specchietto incorniciato in oro fino incastonato di perle e diamanti. La cameriera lo mise nella mano di Elisabeth, poi si ritirò per lasciarci alla nostra intimità. «Guarda, Zsuzsanna. Guarda che cosa sei diventata».
Presi lo specchio ed emisi un grido di piacevole stupore per la donna che vi vidi. No, donna è una parola che sminuisce troppo. Angelo, visione: queste sono parole che descrivono meglio che cosa vidi. Dunya aveva avuto ragione nel dire che il mio ritratto non rendeva adeguata giustizia alla mia bellezza.
Per cinquant’anni non avevo visto la donna dello specchio: una giovane bellezza dai capelli corvini, trecce nere con riflessi bluastri, gli aguzzi denti simili a perle, le labbra di rubino, gli occhi castani che rilucevano di oro fuso. La mia pelle era delicata e di porcellana come quella di Elisabeth, e luccicava dei riflessi della madreperla: rosa, turchese, verde marino. Persino i lineamenti affilati che avevo ereditato da Vlad — il sottile naso da falco, il mento appuntito, le folte sopracciglie nere — erano ammorbiditi fino ad essere delicati e perfetti.
Alzai lo sguardo da quella meraviglia per vedere Elisabeth che sorrideva apertamente in segno di approvazione, come un artista grandemente compiaciuto per la sua creazione. Allungò una mano per prendere lo specchio, ma io non volli lasciarglielo: allora, rise piano.
«Ero tentata di cambiarti i denti», disse. «Ma ho lasciato a te la decisione, nel caso tu li trovassi esteticamente piacevoli».
«Ma io li devo avere! Come potrei nutrirmi altrimenti?».
La sua voce si abbassò come se stesse per rivelarmi un oscuro segreto e temesse che qualcuno potesse udirlo.
«Mia cara, ci sono molti modi diversi di “nutrirsi”, come dici tu, tanti quanti sono coloro che sono abbastanza coraggiosi da raggiungere l’immortalità».
«Ma è Vlad che mi ha creato», protestai. «E il morso di un Vampiro dà vita a un altro Vampiro. Come può essere altrimenti?»
«Può essere in qualunque modo tu voglia, Zsuzsanna».
«Ma come?»
«Il Patto di Vlad con l’Oscuro Signore non ti controlla obbligatoriamente».
Il pensiero di quella misteriosa creatura, Demonio o meno, mi terrorizzava. Abbassai lo specchio e mi ritrassi, bisbigliando:
«L’Oscuro Signore…».
Per distrarmi, mi prese la mano libera e ne premette il palmo contro la mia guancia.
«Dimmi quello che senti, mia cara. Dimmi cosa senti».
Per un intero minuto fui troppo sopraffatta dallo stupore per parlare. Infine, sospirai: «Calore!». I miei occhi si erano riempiti di lacrime: alla fine, una mi cadde sulla guancia, sulle dita. Un lacrima calda!
«Non è più piacevole che essere fredda come un cadavere? Vlad è ossessionato da tutto ciò che è macabro».
«Devi far rivivere Dunya!», gridai, afferrandole il braccio e tirandola verso la bara chiusa. Le restituii quindi lo specchio e spalancai il coperchio svelando l’occupante che dormiva… così avvizzita e fragile.
Elisabeth si avvicinò e guardò all’interno.
«Ah… una dolce, giovane contadina». Alzò lo sguardo su di me. «Devi essere paziente. A te ho ridato piena forza e a Vlad solo una parte; le mie riserve sono diminuite. Ora dovrò riposare, ma ti prometto che me ne occuperò domani».
«Ma non mancano che poche ore all’alba», protestai, desiderosa di restare in sua compagnia. «E poi potrai riposare tutto il giorno…».
«No, sarò in piedi in tempo per godermi il sorgere del sole. Come regola, ho bisogno solo di due ore di riposo: di più quando mi sono sforzata come stanotte. Povera me, bambina, la sciocca convinzione di Vlad che voi siate confinati alle ore della notte ti ha privato di un bel po’ di divertimento».
«Ma è vero… il sole mi fa orribilmente male. Sì… se devo, posso avventurarmi fuori, ma questo mi indebolisce ed è tremendamente spiacevole».
«Non è necessariamente così. Perché non dovresti essere in grado di goderti la notte e il giorno?».
Quella domanda mi rese silenziosa. Ricordai il mio unico viaggio a Vienna un quarto di secolo prima, e la delusione che avevo provato per non essere stata in grado di entrare in una Konditorei e di assaggiare quei dolcetti al burro, o di entrare nei negozi di vestiti, con le loro ammiccanti mode nuove. L’unico vestito che avevo acquistato a Vienna — da un vecchio sarto tremante, quasi cieco, l’unico che accettasse di avventurarsi fuori a mezzanotte verso un hotel per farmi provare — era passato di moda da vent’anni. Guardai il vestito di Elisabeth, con il suo più modesto décolleté, i fianchi stretti, e la gonna più corta, nonché una cascata di tessuto raccolto sul derrière, che non avevo mai visto prima.
«Ma come…», cominciai.
Scosse la testa.
«Abbiamo molto di cui parlare. Non preoccuparti, cara», poiché la mia delusione senza dubbio era visibile, «ci incontreremo ancora domani notte. Fino ad allora…».
Mi prese la mano, si chinò, e la baciò come potrebbe fare un uomo; mentre faceva così, un brivido eccitante e innegabile passò attraverso di me.
Mio Dio, sono davvero innamorata!
4 maggio 1893. Mi svegliai al tramonto e trovai Elisabeth seduta su una sedia accanto alla mia bara aperta: una vista questa che aumentò la mia speranza e la mia eccitazione. Con mio ulteriore diletto (e sorpresa), una sorridente e bella Dunya si trovava accanto a lei.
«Dunya!». Mi alzai con un unico e agile salto dal posto dove avevo dormito. Ci abbracciammo come sorelle, ridendo e piangendo, e io le baciai una guancia… adesso calda come la mia, come le sue forti braccia. «Dolcezza mia! Come sei bella!».
«Non tanto quanto voi, doamna!», gridò.
In verità, mi assomigliava vagamente, con il naso dalla forma sottile, i lunghi capelli scuri (sebbene i suoi fossero baciati dal rosso tizianesco), e gli scuri occhi rumeni pieni di passione, sotto le sopracciglia arcuate.
«Come lo sai?», dissi, prendendola in giro.
Sorridendo, Elisabeth sollevò lo specchio dorato.
Feci scivolare un braccio intorno alla sottile vita di Dunya e mi voltai per offrire l’altra mano alla nostra benefattrice, che si alzò e l’afferrò immediatamente.
«Elisabeth! Sei stata così gentile con noi, così buona! Sicuramente, ci dev’essere qualche dono che noi possiamo farti, qualche gentilezza che possa servire come un pur misero tentativo di ripagarti».
«La vostra felicità è una gioia sufficiente per me».
E, così dicendo, voltò la mia mano per rivelare il palmo, che baciò.
Uh brivido elettrico corse attraverso il mio corpo rinnovato, tanto che lasciai andare Dunya e mi premetti una mano sul cuore, per reprimere l’ansito.
In quel momento la porta della camera si spalancò; sull’ingresso apparve Vlad. Per un istante, temetti che gridasse infuriato nel vedere che io e Dunya eravamo perfettamente in forze. Cercai di ritirare la mia mano da quella di Elisabeth, indietreggiando pronta a fuggire, ma lei la tenne stretta e mi rivolse uno sguardo rassicurante che diceva: non lo sa.
Con mio grande stupore, Vlad rimase sulla soglia, e la sua espressione era di benevola cortesia.
«Ah, cugina! Vedo che hai avuto pietà delle nostre fragili signore. Ho preparato un banchetto per il tuo piacere. Ti attende nella grande sala da pranzo, dove ti raggiungerò tra qualche minuto. Ora vai. Ho bisogno di parlare brevemente con Zsuzsanna, in privato».
Provai una nuova ondata di sgomento quando Elisabeth fece un piccolo inchino e lasciò la stanza, e ancora di più quando udii i suoi passi riecheggiare lungo il corridoio, e poi per le scale.
Lui rimase sull’uscio a guardarla, con gli occhi che si storcevano per lo sforzo (era evidente che né la sua vista né il suo udito erano pari ai miei). E, quando lei si trovò a quella che lui credette una sicura distanza da noi, entrò e chiuse dietro di sé la pesante porta. Studiai la sua espressione, cercando di giudicare da essa se mi vedeva come una vecchia rugosa o come una bellezza, ma non riuscii a scorgervi stupore, né rabbia, ma soltanto astuzia.
Un’ombra d’uomo, vecchio e brutto! Ero stata pazza per tutti quei decenni: a cosa gli servivo?
Improvvisamente domandò:
«Zsuzsanna, mi ami?».
Esitai un solo istante. In quel breve istante, egli comprese il mio silenzio fin troppo bene, e la sua espressione si rabbuiò mentre continuava:
«È stata Elisabeth! Ti ha raccontato delle bugie. Ti ha posto sotto il suo incantesimo, e ti ha fatto innamorare di lei. Ha promesso di ridarti la forza, non è così? Ti avverto: cospira con lei, e ti avvierai su un sentiero pericoloso che può finire soltanto con la tua distruzione».
Protestai, con le guance che mi si infiammavano (una sensazione da tanto tempo dimenticata!).
«Mi minacci?», gli chiesi.
Ma lui continuò a tuonare, inconsapevole della mia bellezza o delle mie parole.
«Sai chi è? Sicuramente non te lo ha detto. È la “Tigre di Csejthe”, l’assassina di vergini… Durante la sua vita mortale, torturò a molte seicentocinquanta vergini e fece il bagno nel loro sangue; senza dubbio la cifra sarà aumentata di dieci volte da quando è passata nella Morte Vivente. Non puoi credere a nulla di ciò che dice!».
«Sei un bugiardo!», replicai, poi mi meravigliai in silenzio per la mia stessa audacia. Non avevo mai osato parlargli così; sapevo che avrebbe significato la mia rovina, poiché avevo sempre creduto che soltanto lui controllasse la mia vita e la mia morte. Ma sapevo anche che, alla fine, io ero più forte di lui. Se mi avesse colpito in quel momento, lo avrei ucciso.
Una tale libertà! Risi, ubriaca del potere di non avere paura.
Infatti lui mosse il braccio per colpire, ma si fermò all’improvviso a mezz’aria davanti al mio viso, ostacolato da una forza invisibile (ah, Elisabeth, mia potente salvatrice!). I suoi occhi divennero rossi per la rabbia e aprì le labbra emettendo un basso ringhio lupesco, il viso contorto come una maschera di Medusa.
«Stai lontana da lei, Zsuzsanna! Stalle lontana, o sarò costretto a vendicarmi!».
Non dissi nulla, lo guardai soltanto girare sui tacchi e uscire come una furia, sbattendo la porta dietro di sé con tale forza che essa vibrò per parecchi secondi.
Dunya si avvicinò per starmi vicino; penso che fosse rimasta nascosta dietro di me per tutto il tempo, in preda alla paura. Mi mise una mano leggera sulla spalla e bisbigliò:
«Doamna. Pensate che possa veramente farci del male se vediamo ancora Elisabeth? Lei è così gentile…».
Di nuovo le feci scivolare un braccio intorno alla vita, ma fissai davanti a me la porta di legno che vibrava.
«Che vada all’Inferno!», dissi lentamente. «Che vada all’Inferno!».