Capitolo secondo

Il diario di Abraham Van Helsing

(tradotto dall’olandese)


2 maggio 1893. Sera. È così tranquillo qui a casa, e così triste! L’allieva infermiera, Katya, era ancora qui quando sono arrivato dalla mia lezione all’ospedale, e così ho cenato e sono andato a sedermi un po’ con Gerda.

Come al solito, nessun cambiamento, sebbene le raccontassi i semplici dettagli della mia giornata e le notizie del vicinato con il tono più allegro che, sforzandomi, mi riesca di fare. La situazione si sta facendo sempre più difficile, poiché lei sta diventando uno scheletro. Temo che morirà prima che Zsuzsanna sia morta.

Ora sto seduto a guardare mamma che dorme. Sono sempre contento di vegliarla di notte, e sempre inquieto quando devo essere lontano dopo il tramonto (di Gerda non mi preoccupo così tanto: il segno sul suo collo significa che ben poco danno ulteriore le può essere fatto).

Quando devo restare lontano, la notte rimane Katya, e questa sera è potuta venire durante la mia lezione. È giovane ma responsabile, con la testa sulle spalle, e può affrontare ogni emergenza medica, sebbene non sia quello che temo ora che mamma si avvicina all’Abisso. Ho giurato a mia madre che farò in modo che raggiunga senza problemi l’altra vita: non che il suo povero cervello malato comprenda quello che le dico, sebbene sappia che il suo spirito capisce. Non permetterò che nessun Vampiro la privi di un’onesta morte.

Ma è così duro guardarla morire!

Stanotte sembra un po’ peggiorata, con i capelli argentei, un tempo belli, sparsi sul cuscino, arruffati e intricati, e il viso pallido, sofferente e tirato per il costante dolore.

È duro vederla così, lei che è stata il mio solo conforto e la mia sola forza durante tutti questi anni difficili. Da quando il piccolo Jan è morto tanti anni fa (sono veramente trascorsi ventidue anni adesso? Il dolore è così fresco!) lasciando la mia povera Gerda completamente pazza, mamma e io ci siamo appoggiati l’uno all’altro.

Eravamo tutto ciò che restava della nostra famiglia. Lei non si lamentava ed era coraggiosa, anche in tutte quelle numerose notti in cui viaggiavo e me ne andavo, ogni volta, per giorni — o meglio, per notti — a liberare il mondo dalla malvagia progenie di Vlad. A volte mi sento colpevole nel lasciarla per eseguire il mio macabro compito, ma so che lei non si comporterebbe diversamente. In che altro modo posso vendicare la morte del suo piccolo nipotino e del suo primo e più autentico amore, mio padre Arkady? In che altro modo posso dare loro la pace insieme alle altre vittime?

Che benedizione sarebbe avere qui, ora, mio padre, avere il suo sapiente aiuto (ma che strano scrivere questo di uno che era un Vampiro). Ricordando i primi giorni dopo che lo avevo conosciuto, la mia scortesia verso di lui nonché la mia repulsione e sfiducia, mi vergogno. Poiché — da quello che mamma mi ha detto e da quello che ho saputo dal suo diario e dal mio rapporto con lui — era evidentemente la più nobile delle anime, e morì nello sforzo eroico di salvarci tutti dal Male. Anche la maledizione del vampirismo non riuscì a macchiare il suo animo buono.

Le guance e gli occhi di mamma, stanotte, sembrano anche più infossati, senza dubbio a causa della disidratazione; Katya ha detto che ha vomitato la cena e che non ha voluto altro, nemmeno l’acqua. Si è lamentata per il dolore — dannati tumori! — così le ho fatto un’iniezione di morfina e ora dorme in pace (prenderei anch’io la droga se non temessi il suo potere di indurre dipendenza o la confusione mentale che causa; devo sempre restare all’erta per quanto possibile. Per quanto riguarda mamma, a lei non la posso negare. Che importanza ha se muore dipendente dalla droga, purché non senta dolore?).

Io stesso desidero ardentemente un sonno pacifico; di recente, il mio è stato agitato e pieno di sogni che mi hanno turbato. Sono convinto che questi sogni contengano qualche messaggio criptico che potrei decifrare, e così ho portato il mio diario nella stanza di mamma per scrivere, mentre siedo nella vecchia sedia a dondolo dove lei mi ha tanto spesso consolato durante la mia infanzia.

Ecco il sogno: sto correndo con piacere infantile attraverso una grande foresta di sempreverdi. L’aria è fresca, e sa di pino e di pioggia recente; i rami e gli aghi degli alti alberi luccicano a causa delle goccioline di umidità. Continuo a correre, affannato e ridendo, tendendo in alto il braccio in modo che i rami più bassi non mi colpiscano sul viso.

Ma ben presto la mia contentezza diventa panico, poiché odo dei passi dietro di me. Qualcuno mi insegue: getto un’occhiata alle mie spalle e vedo, attraverso i rami luccicanti, Gerda, mia moglie. Ma è una Gerda mostruosamente cambiata: i suoi occhi scuri sono obliqui come quelli della Vampira Zsuzsanna, e i suoi denti sono, come quelli di lei, lunghi e aguzzi. Come un lupo, ringhia profondamente di gola, mentre caccia con i lunghi capelli castani sciolti.

Io grido e corro sempre più veloce, poiché so che vuole uccidermi.

All’improvviso inciampo in un tronco d’albero caduto… lentamente, sempre più lentamente, con quella grande ricchezza di particolari di cui si fa esperienza solo nei sogni. Il piede che ho avanti rimane intrappolato tra la terra umida e il pesante ramo; e le mie braccia si protendono descrivendo un arco in aria mentre scendono. L’altra gamba vola anch’essa per aria, descrivendo un arco mentre cado, cado, poi, alla fine, i palmi delle mani atterrano in un fitto tappeto di ramoscelli umidi e aghi di pino.

Il mio viso colpisce la terra fragrante. Quando infine lo sollevo, puntellandomi con le braccia contro il terreno molle, vedo… (perché questa immagine mi disturba tanto? Perché le mie pulsazioni accelerano anche ora che ne scrivo?).

Vedo una creatura scura… scura nel senso di buio pesto, di un’assenza di luce così intensa che sembra come se qualcuno avesse preso le forbici e tagliato via quella piccola porzione di mondo. Un lupo, penso, preso dalla paura: ma no, non è un lupo. Un orso? No.

E, a una certa distanza, il mio mentore angelico, Arminius, guarda impassibile, tanto lucente e bianco quanto l’orrenda creatura è nera. Il suo volto è rosa e senza rughe sotto la barba candida, simile a quello di un bambino, e le sue vesti pure e immacolate splendono accecanti nel sole. Come Mosè ha in mano un alto bastone di legno e, accanto a lui, c’è il suo amico Archangel, il bianco lupo addomesticato.

«Arminius, aiutami!», grido, e continuo a gridare finché divento rauco. Ma lui non dà segno di riconoscermi o di accorgersi di me, né lo fa Archangel; lui e il lupo rimangono degli osservatori distaccati.

Indifeso, pieno d’orrore, rimango a guardare mentre la nera figura si trasforma da predatore animale in essere umano, dapprima rimpicciolendosi fino a diventare un bambino, poi ingrandendosi fino ad assumere la forma di un Uomo.

«Chi sei?», domando, tremando; nonostante il mio sfoggio di coraggio, le mie guance sono bagnate di lacrime.

Nessuna risposta. Segue un lasso interminabile di tempo, durante il quale il contorno della creatura piano piano aumenta. So che vuole circondarmi e assorbirmi — divorarmi completamente — e ho paura.

«Chi sei?», domando ancora e, dopo una pausa, odo la risposta bisbigliata nella mia stessa mente, con la voce della mia Gerda:

«L’Oscuro Signore…».

Ne sono inghiottito e svengo per il puro terrore notturno. Quindi mi sveglio improvvisamente, con il cuore che mi palpita contro le costole come un prigioniero che chiede libertà.

Le mie ricerche dell’Occulto mi hanno provato al di là di ogni dubbio che tali sogni sono delle premonizioni. Ma, per quanto cerchi, non riesco ad accertarne il significato. È lo stesso Demonio che mi si avvicina? Non credo nemmeno, nel senso più stretto del termine, in quel concetto, sebbene sappia che c’è una moltitudine di entità in questo mondo e altrove che non sono umane, ma che possiedono un’eguale o più grande intelligenza.

Desidero il conforto e l’aiuto della presenza di Arkady, sebbene sappia che è morto e non può aiutarmi. Ma c’è qualcuno che può.

Arminius! Arminius, mio amico e maestro, tu che mi hai guidato nei momenti più difficili nel mio passato, tu che mi hai addestrato all’uccisione dei Morti Viventi. Mi abbandonasti talmente tanti anni fa, e io non so nemmeno come chiamarti. Tu che sei immortale, devi essere, di certo, ancora vivo.

Arminius, aiutami…


Il diario di Zsuzsanna Dracul


2 maggio 1893. Per una successione interminabile di anni sono stata intrappolata all’interno di questo castello a guardare la degenerazione del mio benefattore, Vlad, da immortale forte e bello all’ombra pietosamente ripugnante di un mostro egoista. Peggio ancora, so che lo stesso orrendo cambiamento si verifica anche per me; quando mi pettino i capelli, sono obbligata a riconoscere una preponderanza di argento là dove, una volta, c’era solo nero. E le mie mani! Le sto vedendo, adesso, mentre intingo la penna. Sono delle cose così povere, fragili, avvizzite: la pelle è come pallida pergamena sopra le ossa. Se queste sono orrende, che cosa è diventato il mio viso, un tempo tanto bello?

È più di quanto possa sopportare, in parte a causa della mia impotenza e di quella di Vlad. Siamo arrivati a odiarci l’un l’altro in ragione del nostro tormento… e la colpa è tutta di quel bastardo di Stefan! (Lo devo chiamare bastardo, sebbene sia l’erede legittimo del mio defunto fratello, Arkady: si merita di essere chiamato con parole ancora più oscene di questa!). O lo devo chiamare con il suo pseudonimo, Van Helsing? In qualche modo ho scoperto che il Patto funziona in due modi: ogni volta che distrugge la progenie di Vlad — quei pochi di cui non riusciamo a liberarci nel modo giusto (non ci piace creare dei concorrenti) e tutta la loro numerosa discendenza — noi diventiamo più deboli. La nostra fine sembra inevitabile poiché, per due lunghi decenni, non abbiamo avuto altra scelta se non restare qui a languire, specialmente adesso che siamo troppo deboli per andare a caccia di nutrimento.

Ieri sera Vlad è venuto da me: la sua pelle era grigia come quella di un cadavere, gli occhi infossati e rossi, i capelli e le sopracciglia completamente bianchi e crespi. Ma le labbra pallide erano curve in un sorriso e la sua voce era stranamente eccitata mentre diceva:

«Zsuzsanna, se non agiamo, saremo ben presto così deboli che Van Helsing potrà venire e distruggerci facilmente. Ma no… non piangere, perché ho buone notizie!».

Infatti, ero scoppiata in singhiozzi, tanto grande era la mia sofferenza al pensiero che io, che ero stata piena di tutto quel potere, di quella felicità, di quella speranza, non potessi far altro che attendere impotente il finale ed eterno oblio…

Ma lui mi fece un cenno con la mano e disse con veemenza:

«Non piangere a causa sua. Lui pensa di essere abbastanza potente per sconfiggerci, ma presto capirà il suo errore. Non mi sfuggirà: ben presto farò in modo che venga consegnato nelle mie mani. Ma ecco la notizia: un visitatore mortale arriverà presto al palazzo, un giovane sano… Non sospirare, poiché non è tutto. Ho anche ricevuto una lettera da mia cugina Elisabeth».

«Elisabeth?». Quel nome non l’avevo mai udito pronunciare e, in ogni caso, non capivo perché avrebbe dovuto essere una cosa favolosa, dato che la sua voce si era alzata esultante, come se avesse annunciato la nostra liberazione.

«È un’immortale come noi. È potente e abile, abbastanza astuta per sconfiggere il figlio di tuo fratello. E lo farà ma, prima, verrà qui da Vienna e ci rimetterà in forze».

«Com’è possibile?», chiesi e, immediatamente, compresi che la mia domanda era sciocca.

Era ovvio che questa Elisabeth sarebbe stata in grado di portarci una quantità ancora più grande di fresco sangue vitale di quanto un solo uomo potesse fornire. Ciò avrebbe almeno alleviato la debolezza che aveva origine dalla fame, ma certamente non avremmo potuto riacquistare il nostro pieno vigore finché l’azione violenta di Van Helsing non fosse terminata.

Nell’istante in cui posi la mia domanda, Vlad si tirò indietro e i suoi occhi si spalancarono, diventando rossi per una rabbia che non compresi.

«Questi non sono affari tuoi!», disse bruscamente e, un attimo dopo, uscì dalla mia stanza.

È chiaro che questa Elisabeth dev’essere una donna molto potente… più potente dello stesso Vlad, altrimenti non avrei colto la chiara nota di gelosia nella sua voce. Sì, mi ha regalato questa esistenza e, per questo, dovrò sempre essergli grata ma, allo stesso tempo, sono arrivata a disprezzarlo, disprezzarlo per la sua crudeltà, la sua arroganza, le sue menzogne. Per lui, non sono altro che una cosa in suo possesso, nel migliore dei casi una compagna occasionale che tratta come desidera e manda via senza preoccuparsi dei miei sentimenti quando si stanca di me. Cinquant’anni fa mi diede il Bacio Oscuro perché, in vita, ero timida, grata, umile, innamorata di lui, ma ora che mi sono trasformata nella forte e sicura creatura che dovevo diventare, si annoia, e prova persino fastidio.

L’ultima volta che uscì dal castello per cacciare, molti mesi fa (poiché tutti noi siamo troppo deboli per coprire la lunga strada che porta al Passo di Bistritsa, onde impostare lettere e così invitare ospiti al castello, come facevamo nei giorni andati… o così avevo sperato), diedi voce a una protesta: perché mi veniva richiesto di restare come una prigioniera al castello, in attesa di qualunque piccolo dono lui decidesse di portarmi, dopo che si fosse nutrito a suo piacimento? Era sua abitudine portarmi soltanto un neonato o un bambino pallido e anemico… per farmi restare più debole di lui. Lo comprendo solo ora: questo era per far sì che fosse sempre lui ad avere il controllo su tutto e su tutti.

Se avessi posseduto un po’ più di forza fisica, lo avrei sfidato ma, la prima volta che si offrì di cacciare per tutti noi, pensai, in tutta onestà, che fosse per gentilezza, e così accettai con gratitudine. E quando ritornò con soltanto un minuscolo neonato per me, da dividere con Dunya, era pieno di scuse e pretesti. Fu così che, la seconda volta che uscì, credetti scioccamente che ci avrebbe portato qualcosa di grosso: un giovanotto vigoroso o una forte contadina.

Ma no, ritornò invece con un solo neonato malato dal quale bevvi per pura necessità poiché svenivo dalla fame, e lo divisi, per quanto potei, con Dunya. Dopotutto, ero come lui aveva sperato, veramente troppo debole persino per protestare, quando andò nuovamente a caccia.

Proprio come sono debole stasera; dopo che Vlad se ne è andato, mi sono coricata. La notte portava, di solito, un’ebbrezza talmente dolce! Ora invece porta solo consapevolezza e tristezza. Ci sono state delle volte (come stanotte) che la stanchezza mi ha impedito di alzarmi dalla bara. Di solito la mia bara stava accanto alla sua ma ora è stata confinata nella stanza di Dunya, perché Vlad si annoia ad avermi sempre vicino.

Giaccio qui, dove piango e rifletto sul fatto che dovrei chiudere gli occhi e accogliere la mia vera morte, che possa davvero donarmi il riposo finale.

Povera Dunya! La guardo, immobile nella sua bara. Temo che affronterà l’Assoluto prima di me poiché, tra tutti noi, è la più debole; raramente emerge dal suo sonno profondo, ma continua a dormire con le palpebre pallide tirate sopra gli occhi neri. Anni fa, quando era forte e bella, ebbi pena di lei, pensando: perché deve rimanere una mortale angosciata, sottoposta al nostro controllo, né viva né morta? Fu così che la condussi con delicatezza attraverso la morte verso la Vita Oscura. Vlad, ovviamente, si infuriò.

«Come potremo espletare tutte quelle cose che possono essere fatte soltanto durante la luce del giorno se non abbiamo un servo mortale?», ruggì e, per settimane, non parlò a nessuna delle due.

Non me ne curai; Dunya è sempre stata una compagna dolce e fedele. La sua sofferenza fu sostituita da un meraviglioso piacere, e abbiamo condiviso molte gioie, così come possono fare due sorelle. È stata Dunya a suggerire che io commissionassi un mio ritratto, che avrei potuto usare al posto dello specchio, in modo da non dovermi affidare alla sua descrizione. Questo fu fatto da un artista mortale le cui mani tremanti, fortunatamente, non ne diminuirono l’abilità e, per gratitudine, gli commissionai anche un altro ritratto, più piccolo, di Dunya.

Ora la mia cara compagna è soltanto un simulacro pietoso, invecchiato, di quella bellezza che è appesa al muro (come devo essere anch’io). Giace nella sua bara con le braccia incrociate sul petto simile a un cadavere e, per tutti, sembra una vecchia defunta e rugosa, con il viso segnato, avvizzito e cereo, e le labbra sottili tirate che lasciano scoperti gli aguzzi denti ingialliti. Come mi mancano tutte quelle notti in cui ci tenevamo per mano e ci bisbigliavamo i nostri sogni una nell’orecchio dell’altra! Non sopporto di vederla così…

Ma la promessa della venuta di Elisabeth ha portato una nuova speranza e così, per la prima volta dopo molti anni, mi sono alzata e ho scritto nel mio diario. Potrò veramente riavere la mia bellezza e la mia esuberanza?


Il diario di Abraham Van Helsing


3 maggio 1893. Com’è strana la vita! Ci aspettiamo che tutto vada secondo i piani che facciamo… e poi, in un solo istante, tutto cambia.

Era stata una notte lunga e faticosa. Erano arrivate notizie dall’Aja di strani attacchi notturni ai cittadini da parte di un predatore dai denti aguzzi, forse un lupo. E così, dopo aver investigato, mi sono recato là e ho trascorso la notte aspettando vicino a una grande tomba il ritorno di un ricco e rispettato uomo d’affari che era morto di apoplessia dopo una vacanza in Ungheria. È stato un lavoro raccapricciante, ma sono felice di poter affermare che ora riposa in pace.

Dopo il dovere sono tornato a casa più presto che ho potuto, poiché Gerda aveva cominciato a peggiorare terribilmente nel corso degli ultimi due giorni. Questa mattina presto, sono andato a vederla, com’è mia abitudine prima di ritirarmi. Di solito, faccio un vano tentativo di ipnotizzarla, per vedere quali notizie posso avere di Zsuzsanna e, quindi, di Vlad. Ma questa mattina, quando sono entrato, non stava fissando il soffitto come fa sempre. No, i suoi occhi erano chiusi, e il suo respiro era faticoso. Sono rimasto seduto con lei a lungo, controllandole il respiro, il battito cardiaco e i sintomi, cercando di comprendere le cause del suo peggioramento.

Non c’è una ragione fisica, oltre il suo legame psichico con Zsuzsanna. Di questo sono certo. Se lei si sta indebolendo ed è prossima alla morte, ciò significa che è lo stesso per Zsuzsanna.

Il giorno per il quale avevo diligentemente lavorato per un quarto di secolo ora era lì. Come Arminius aveva detto tanto tempo prima, il Patto funziona in entrambe le direzioni: distruggendo i malvagi figli di Vlad, indebolisco lui… e rafforzo me stesso. E, finalmente, è giunto il momento in cui io sono diventato il più forte e posso infliggere a Vlad il destino che da lungo tempo si merita.

Così, dopo averla lasciata, non sono andato a letto; ho cominciato invece a preparare il baule e a controllare gli orari per vedere quali treni fossero diretti a est, e quando. La mia speranza era che, se fossi riuscito ad arrivare in Transilvania per uccidere in tempo sia Vlad che Zsuzsanna, a Gerda sarebbe stata risparmiata la morte e un’oscura resurrezione.

Sapevo anche però che, se avessi fallito, non sarebbe stato sicuro per lei restare in questa casa con mamma e Katya, né sarebbe stato al sicuro il becchino che avrebbe preso il corpo per seppellirlo. Gerda non potrebbe restare qui senza l’attento controllo di qualcuno che riesca a percepire i sintomi di un vampirismo incipiente e sappia come tenere a bada i Morti Viventi. Mentre facevo la valigia, ho riflettuto per un po’ su questo problema, poiché non c’è nessuno ad Amsterdam di cui mi possa fidare per un tale compito.

Ma a Londra qualcuno c’è: si tratta del mio amico John, con il suo manicomio. Non conpsce i dettagli della malattia di mia moglie, ma è molto interessato all’occultismo e possiede una mente aperta. Se gli impartirò istruzioni circa la segregazione e la cura di Gerda, seguirà i miei ordini alla lettera.

Stavo componendo mentalmente, un telegramma per lui, quando suonò il campanello. Aprii e trovai una robusta signora tedesca, appena oltre la mezza età, con i capelli castani striati d’argento, un’ampia mascella e la carnagione rubizza segnata da una ragnatela di venuzze (e, lo ammetto, un grande ventre che intimidiva: quando si chinò per salutare, mi attendevo quasi che cadesse in avanti).

«Herr Van Helsing?».

Sorrise nella maniera più piacevole, e io seppi, immediatamente, che sarebbe stata una perfetta infermiera diurna per mamma, poiché emanava sia affidabilità che gentilezza. Non ebbi alcun bisogno di protezione psichica intorno a lei — portava persino un crocifisso, nascosto sotto i neri abiti vedovili — e così mi rilassai e le sorrisi mentre la facevo entrare.

«E voi dovete essere Frau Koehler», risposi in tedesco: al suono della sua lingua natia, si illuminò in volto.

Mentre la conducevo al piano superiore, nella camera di mamma, chiacchierammo piacevolmente sulla facilità con cui aveva individuato la mia casa e su come vi era stata indirizzata da una collega.

Una volta entrati nella camera di mamma, fece silenzio e guardò con compassione la sua futura paziente, poi si fece il segno della croce alla vista del crocifisso che pendeva sopra il letto.

«Ah», disse con sincera comprensione. «Sta morendo, vero?»

«Sì».

«Come dev’essere triste per voi!». Il suo tono era quello di qualcuno che aveva vissuto la stessa terribile esperienza da poco. «E siete solo? Non vedo moglie, bambini…».

Percepii, negli occhi e nell’aspetto della vedova Koehler, un barlume di speranza di maritarsi.

«Ho una moglie», dissi subito, improvvisamente sopraffatto dall’amarezza al ricordo di come mi fosse stata tolta spiritualmente, e al ricordo del mio piccolo Jan, preso dai Vampiri… da Zsuzsanna, quel malvagio demonio per il quale non riesco a trovare alcun perdono nel mio cuore. «Ma anche Gerda è malata…».

«Doppiamente triste! Dio vi ha dato un pesante fardello!». Inclinò verso di me la grossa faccia dalla mascella forte e mi studiò con almeno altrettanta pietà di quanta ne aveva avuta per mamma. «Allora ci saranno due pazienti?»

«No. Porterò mia moglie con me a Londra, per consultare uno specialista. Mia madre ha un’eccellente infermiera che mi dà il cambio durante la notte ma, ora che devo partire, ho bisogno di qualcuno che si occupi di lei durante il giorno».

«Ah! E qual è il problema di vostra moglie?»

«Shock», spiegai, «per l’orrore di essere morsa, e nello scoprire che l’aggressore aveva rapito il suo primo figlio».

«E la nostra paziente?», chiese con delicatezza, volgendo il suo sguardo gentile nuovamente verso mamma.

«Tumore al seno, e ora — penso — al cervello e in altre parti. Non è completamente lucida: di solito dorme, a causa della morfina. Ha molti dolori».

Fece schioccare lievemente la lingua.

«E qual è il suo nome, signore, se posso chiedere?».

Van Helsing, il mio stesso nome, stavo per rispondere, ma il suo comportamento era tanto simile a quello di un fidato amico di famiglia che risposi:

«Mary».

«Mary». Assaporò la parola con affettuosa approvazione. «La Madre di Dio. Un nome così bello…». Quindi andò a sedersi nella sedia a dondolo accanto al letto. «Io mi chiamo Helga», disse, sollevando la mano di mamma da sotto le lenzuola e prendendola gentilmente tra le sue, come se stesse presentandosi e scambiando informazioni. Dubito che la donna fosse consapevole di quello che faceva, ma mi era chiaro che aveva dei naturali poteri medianici.

Dopo un po’ me lo confermò guardandomi al di sopra della sua spalla dicendo:

«Voi siete un brav’uomo, signore, e molto coraggioso. Io so anche, nel mio cuore, che vostra madre è una donna buona. Sarò felice di curarla in modo eccellente, e se Dio vuole che debba morire quando voi siete via, non pensate che sia morta da sola o con un’estranea, poiché io ne avrò cura e pregherò per lei come se fosse la mia stessa sorella».

Mi voltai, fingendo goffamente di guardare fuori dalla finestra, poiché la sua compassione mi aveva commosso. E, quando mi commuovo, il dolore represso sgorga al mio interno e scuote le mie difese come le acque di un’inondazione che rompono una diga; non potei impedire alle lacrime di uscire, ma mi mossi rapidamente per asciugarle e per riprendermi.

«Piangete, signore», disse, dietro di me, e udii il suono leggero dei colpetti affettuosi che dava alla mano di mia madre, come se mamma fosse pienamente cosciente e consapevole delle mie lacrime, e Frau Koehler la volesse consolare. «Ne avete tutto il diritto».

Finsi di tossire in modo da poter tirare fuori il fazzoletto per asciugarmi il naso e gli occhi, poi mi voltai, in segno di scusa, verso le due donne, e accennai col capo a mamma, le cui palpebre avevano cominciato a tremare.

«Non tanto quanto lei. Lei è quella che sta soffrendo, non io».

«Non è vero, signore. Poiché voi l’amate, tutta la sua sofferenza è diventata vostra e, dato che siete maggiormente in grado di osservarla attentamente, siete ancora più consapevole di lei di quanto grande sia la sua sofferenza. Non è più doloroso vedere soffrire qualcuno che si ama che sopportare quella sofferenza?».

Volevo protestare perché una parte di me era irritata al pensiero che io soffrissi più di mamma. Ma non potevo negare che, poiché ero conscio, lucido, e ancora dotato di una vista soddisfacente, potevo guardare il volto di mia madre e vedervi la devastazione, vedere le rughe tracciate da anni di dolore, le sue guance infossate, e la pelle leggermente gialla. Vedevo anche le piaghe da decubito sanguinanti divorare la sua carne, mentre lei gridava per l’angoscia in un inutile sforzo di evacuare. Tutta la sua vita è stata piena di dolore: la perdita di due mariti, di un figlio, di un nipote, e il terrore di un destino peggiore della morte. Ha sopportato tutto questo allegramente, con coraggio, ma a quale scopo? Per perdere tutta la sua dignità e bellezza…

Non devo continuare, o scoppierò a piangere di nuovo. Basta! Basta!

Mi ci volle un po’ di tempo per ricompormi a sufficienza e rispondere a Frau Koehler:

«È difficile veramente, ma io penso di essere un buon giudice dei caratteri, e sento che presterete a mia madre una cura talmente affettuosa e compassionevole che non avrò da preoccuparmi». Scacciai quindi tutto indolore e cercai di trasformare il mio tono in quello di un energico uomo d’affari. «È vero che potete cominciare da questa mattina? Il mio viaggio non può aspettare; quanto prima io e mia moglie partiamo, meglio sarà. Vorrei che restaste adesso, se potete, mentre io faccio i bagagli e mi organizzo».

«Sarò lieta di restare», disse lei, alzandosi e rimettendo con delicatezza la mano di mamma sulle coperte.

«Magnifico!».

Le mostrai dove si trovavano, nella camera da letto, tutti gli strumenti medici indispensabili: la siringa, la morfina, la padella e il paregorico, la pomata, e le bende per le piaghe: Lei era ben istruita e piuttosto intelligente, per cui finimmo presto con i dettagli della cura alla paziente. Quindi venne l’ora di accompagnarla nel mio ufficio in modo da poterle pagare un anticipo sul suo salario.

Ma, mentre la conducevo verso le scale, un grido improvviso — attutito, così che non potei giudicare se era di gioia o di dolore — mi fece drizzare i corti capelli sulla nuca. Per un istante temetti che fosse mamma che gridava per il dolore, ma poi pian piano compresi, con così tanta forza, così tanta paura, che la pelle d’oca dal collo mi scese in basso verso la spina dorsale e le braccia.

Erano passati ventidue anni da quando avevo udito l’ultima volta la voce di mia moglie; per questo non l’avevo riconosciuta immediatamente.

Senza una spiegazione o una scusa per Frau Koehler, mi voltai e corsi subito lungo il corridoio, poi entrai nella stanza di Gerda.

Sedeva sul letto con gli occhi aperti, splendenti, e ogni segno di debolezza era svanito. Mi sembrava come se il cuore mi fosse balzato nel petto e, per un fuggevole istante, osai sperare che fosse ritornata da me, che Zsuzsanna e Vlad fossero stati entrambi distrutti, e che il mio amore ora fosse libero.

Ahimè! I suoi occhi, sebbene aperti, rimasero fissi su una visione distante e invisibile, ma lei era forte, radiosa, e la sua pelle non era più pallida, ma leggermente colorita, come se avesse preso da poco il sole, e i suoi capelli… i suoi capelli! Erano ancora scomposti sopra la lunga e ordinata treccia che Katya le faceva ogni notte… ma ogni striscia d’argento era scomparsa dai suoi riccioli castano scuro.

La fissai nuovamente in viso, incapace di credere a quello che i miei occhi vedevano, ma era proprio così: dal mattino presto era ringiovanita! Ogni capello bianco, ogni ruga e ogni piega della sua pelle flaccida, erano scomparsi.

«Gerda!», sospirai, poi le dissi più forte: «Gerda cara, mi senti?».

Non diede segno di udirmi o di vedermi, ma qualcosa che stava guardando in un’invisibile lontananza, le fece illuminare il viso di pura gioia.

«È venuta!», disse, e rise fòrte. «È venuta…».

«Chi?», insistetti, mentre Frau Koehler si avvicinava e restava sulla porta, guardando in silenzioso stupore. «Chi è venuta, cara?».

Non rispose, ma cominciò gradualmente a calmarsi, mentre io la guardavo in silenzio. Dopo un po’, le sue labbra si curvarono verso l’alto in un sorriso radioso, rivelando dei canini leggermente allungati.

«Stupefacente!», bisbigliò l’infermiera dietro di me. «Che devo fare, signore? Intendete ancora portare vostra moglie a Londra?»

«Io… io non so».

Fissai Gerda, abbattuto. Il suo grido di gioia mi aveva fatto sperare, ma ora vedevo che tutto era perduto, poiché l’umore e la salute di Gerda erano stati, negli ultimi ventidue anni, legati a quelli di Zsuzsanna. Se Gerda adesso era giovane, forte e in salute, ciò significava che anche Zsuzsanna lo era… e anche Vlad.

E Gerda stava cominciando a cambiare.

Che cosa aveva fatto il Vampiro per rafforzare se stesso e la sua compagna?

Promisi alla buona Frau Koehler che mi sarei messo in contatto con lei direttamente quando avessi preso la decisione, e la congedai rapidamente per ritornare al capezzale di Gerda.

Gli sforzi per fare uscire mia moglie dalla trance fallirono, così come tutti i tentativi di ipnotizzarla (che sapevo sarebbero stati probabilmente inutili, vista l’ora del giorno). Ma ero deciso a restare con lei per venire a sapere quanto potevo; così chiusi la finestra e mi alzai, pensando di chiudere a chiave la porta alle mie spalle dall’esterno, in modo che Gerda non potesse fuggire. C’erano poche possibilità che lo facesse, dato che avevo legato un crocifisso e l’Ostia sopra lo stipite della porta e della finestra, ma un’ulteriore precauzione mi rassicurava.

Però, prima che oltrepassassi la soglia, lei bisbigliò una sola frase:

«L’Oscuro Signore…».

Sembrava, allo stesso tempo, una domanda e un’ammissione di paura, espressa in un tremolio timoroso eppure strano.

Sulla porta mi gelai, sopraffatto dal terrore, all’improvvisa immagine mentale dell’oscura, divorante creatura del mio sogno.

Chi è questa creatura, e perché anche i Morti Viventi temono il suo nome?

Arminius! Arminius, mio salvatore dei tempi passati, non restare più in silenzio. Aiutami!

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