Capitolo quindicesimo

Il diario di Abraham Van Helsing


Primo ottobre. Sono ritornato da Amsterdam ieri, nel tardo pomeriggio, e ho trovato entrambi gli Harker con Arthur e Quincey, che si erano stabiliti in casa. Non ha molto senso continuare a dire che io sto all’albergo, così ho dichiarato che anch’io stavo per venire a soggiornare qui (ma, quando dormo, Jonathan e gli altri mi troveranno difficilmente).

Tutti, sembra, si sono innamorati di Madam Mina: incluso me, lo confesso. Si è assunta il ruolo di padrona di casa, portandoci tazze di tè e provvedendo al nostro conforto; ciò è, naturalmente, colpa nostra, perché noi tutti abbiamo vissuto per così tanto tempo da scapoli che un tale comportamento ce la rende irresistibilmente cara. Rende la tetra casa di John — piena a volte di lamenti e grida dovute all’angoscia mentale dei suoi pazienti — una casa allegra … e noi una famiglia.

Riguardo ad Amsterdam, la povera mamma non era più lucida, ed era appena in grado di sedersi per mangiare. Per la maggior parte del tempo giace semplicemente, con gli occhi chiusi, e raramente parla, secondo Frau Koehler. Ma è stata ben accudita, dato che era stata da poco lavata, e le sue piaghe pulite e medicate con amore.

La buona Frau ha fatto l’impossibile per prevenire il loro diffondersi. La ringraziai sinceramente per la sua meravigliosa cura: la ringraziai come se non avessi dovuto rivederla più, e penso che lei, in qualche modo, lo capì, poiché i suoi occhi si riempirono di lacrime. È chiaro che è arrivata ad amare mamma, e io penso che piangerà moltissimo quando la sua paziente alla fine morirà.

Mentre stavo partendo, Frau Koehler mi mostrò la posta accumulata, incluso un pacco che era arrivato quello stesso giorno da Budapest da un, certo “A. Vambéry”. Non riuscii a immaginare cosa potesse contenere, e così lo portai nel mio studio e lo aprii in privato.

Il contenuto era avvolto in parecchi strati di seta nera; ciò mi incuriosì e mi turbò, poiché sapevo che soltanto un occultista esperto avrebbe adottato quella particolare cura per evitare che una carica magica sfuggisse dal contenuto. Poteva essere un trucco di quelli di Vlad… espormi a un incantesimo nocivo? Decisi di no poiché, nonostante gli strati di protezione, sentivo fortemente che il contenuto non era teso a danneggiare ma ad aiutare.

E, in effetti, era così: l’istante che spiegai l’ultimo strato di seta, uno scoppio proveniente dal contenuto riempì la stanza di una tale pura, bianca radiosità, che mi alzai e respirai profondamente, sentendo come se quell’atto mi pulisse i polmoni, il corpo, l’anima.

La A. stava per “Arminius”, decisi e, sebbene lui non fosse apparso personalmente, mi aveva ancora fornito un aiuto. All’interno c’erano circa venti piccoli crocifissi d’argento e un egual numero di ostie consacrate avvolte in uno spesso tessuto imbottito. Il profondo dolore nel vedere mamma così inabile si alleviò un po’ e, in effetti, mentre tenevo in mano una delle croci e sentivo il suo potere che mi saliva solleticando per il braccio, provai un’onesta gioia. Arminius doveva aver caricato personalmente ognuna di esse, poiché quelle, lo sapevo, sarebbero state sufficienti a proteggere i miei amici dal male e a tenere a bada l’Impalatore.

Le portai con me in Inghilterra, e arrivai a Londra molto più fiducioso di quanto ero stato per molti mesi. Sulla strada per Purfleet, nella carrozza, diedi a John tre dei talismani: uno da portale sempre sulla sua persona, uno da mettere sulla finestra della camera da letto, e uno sopra la finestra della stanza di Renfield. Fu un profondo sollievo essere in grado di fornire protezione ai miei amici.

Quella sera, quando ci incontrammo nello studio di John, io dissi agli altri cosa desideravo che sapessero circa il Vampiro, tenendo a mente che la lealtà di Jonathan era dubbia. Comunque, sto cominciando a pensare sempre di meno che sia sotto il controllo di Vlad, poiché ci ha riferito il risultato delle sue “ricerche”: ha ritrovato le cinquanta casse di terra di cui parlava nel suo diario transilvano qui a Purfleet… e proprio nella proprietà accanto, Carfax!

La verità è talvolta troppo strana per essere creduta ma, quando ho saputo della vicinanza di Vlad, fui più contento che mai di avere in mano i talismani di Arminius. Senza spiegare la loro origine o parlare della loro speciale carica, diedi due dei piccoli crocifissi ad Arthur e a Quincey, chiedendo loro di appenderne uno alle finestre della loro camera da letto e di indossare l’altro.

Cercai di fare lo stesso con gli Harker — uno per la finestra, due per ogni persona — ma entrambi fecero delle obiezioni, rivelando che indossavano già delle croci intorno al collo. Tuttavia, riuscii a insistere per darne loro uno da mettere alla finestra, e notai con interesse che Harker aspettava che fosse sua moglie a prenderli (era l’influenza del Vampiro o semplicemente un caso?). Quell’azione mi fece un mondo di bene, sapendo che tutti sarebbero stati protetti, specialmente ora che sapevamo che Dracula era così vicino.

Prima della fine del nostro incontro, fu deciso che ci saremmo tutti alzati nelle prime ore del mattino successivo e che saremmo andati subito a Carfax per ispezionare le casse mentre Dracula era — speravamo — ancora a caccia nella notte. Comunque, tutti gli uomini erano d’accordo riguardo a Madam Mina: dopo la recente morte di Lucy, nessuno di loro tollerava il pensiero di metterla in pericolo, e così insistettero perché rimanesse a casa, dove sarebbe stata certamente al sicuro, poiché la porta principale, quelle di servizio, e ogni finestra di ogni stanza occupala sarebbero state sigillate con un talismano.

Quindi, prima di discutere il nostro piano, la mandammo via con la spiegazione che la stavamo proteggendo e che, meno sapeva, più sarebbe stata al sicuro. A questo ragionamento lei si arrese con riluttanza, specialmente poiché suo marito era irremovibile, sebbene io fossi indeciso. Non desideravo vederla in pericolo, ma ero anche preoccupato di perdere una delle nostre migliori menti; sinceramente, fra tutti noi, Madam Mina è quella con la tempra più forte.

E, come John aveva detto nel suo rabbioso dolore, quale vantaggio l’ignoranza aveva procurato alla povera Miss Lucy?

Nondimeno, Madam Mina se ne andò prima che facessimo i nostri piani per Carfax; dopo che se ne fu andata, ci accordammo per partire alle quattro del mattino successivo. Quando la nostra riunione fu sciolta, io me ne andai con John per una conversazione privata poiché, durante la nostra discussione, avevo notato una certa agitazione a metà dell’incontro, un po’ di tempo dopo che Jonathan aveva rivelato l’informazione circa Carfax.

Fu così che prendemmo congedo dagli altri e ce ne andammo nella mia cella, dove potevamo essere sicuri di non essere visti e uditi.

Dopo che fui entrato ed ebbi chiuso la porta, John, che era entrato prima di me, esclamò:

«Carfax! Non vedete, Professore? È l’incrocio!».

«Cosa?».

Mi avvicinai a lui, aggrottando la fronte con curiosità.

«Quatre face», disse e, quando continuai a guardarlo interrogativamente, aggiunse: «Ah, suppongo che non parliate molto il francese. Quatre face, in francese antico vuol dire “incrocio”. Ecco da dove viene il nome Carfax!».

Ci fissammo l’un l’altro mentre quella rivelazione mi lasciava sorpreso; il sorriso che, piano piano, si allargò sul mio viso, era rispecchiato da quello di John.

«L’incrocio», dissi piano, «dove giace il tesoro nascosto! La prima chiave!».

Lui si unì a me nelle ultime tre parole e ridemmo con piacere: piano, però, e non troppo, poiché Dracula vi risiedeva da un po’ di tempo. E se lo aveva già trovato?

John e io ci accordammo subito sul fatto che entrambi avremmo cercato con attenzione i segni che questo fosse accaduto e, in caso negativo, i luoghi in cui poteva essere sepolta la prima chiave. Così andammo presto a letto, poiché io ero molto stanco (non avendo fatto un sonno profondo nei due giorni passati, poiché m’ero trovato o su una nave, o in treno, o in carrozza).

Così dormii profondamente, ma mi svegliai estremamente vigile intorno alle tre; mi vestii e mi diressi all’ufficio di John. Anche lui si alzò presto e mi incontrò là. Prima delle tre e quarantacinque, sia Quincey che Arthur ci avevano raggiunto, e così attendemmo Harker.

Prima che arrivasse, l’assistente entrò di corsa per dire a John che Renfield supplicava per vedere qualcuno. Aggrottai la fronte, pensando che quella era chiaramente la conseguenza del fatto che Dracula interferiva con i nostri piani: John colse il mio sguardo, e cominciò a dire al giovanotto che Renfield avrebbe dovuto aspettare. Ma l’assistente insistette:

«È più disperato di quanto l’abbia mai visto, signore e, se non venite, sarà preso da uno dei suoi violenti attacchi».

Così John si avviò, e io, Quincey e Arthur, ci unimmo a lui. Con sorpresa di tutti, Mr. Renfield sembrava non solo in sé ma assolutamente elegante, e parlava in modo molto persuasivo dicendo che era finalmente rinsavito, e supplicava di lasciarlo andare. Onestamente, a tutti noi sembrò savio e molto sincero, ma John, che ha trattato a lungo con i pazzi, decise di tenerlo in osservazione per un periodo più lungo e io, naturalmente, non gli davo alcuna fiducia e attribuivo la sua disperazione all’influenza di Dracula… e al fatto che il talismano più forte stava effettivamente avendo la meglio. Perché avremmo dovuto liberarlo se poteva essere usato contro di noi?

Quando ce ne andammo, la nuova compostezza di Mr. Renfield per la maggior parte scomparve, e lui cominciò a piangere pietosamente per essere liberato.

Prima delle cinque eravamo alla porta della vecchia proprietà di Carfax, ognuno di noi con una piccola lampada elettrica appesa al petto e indossando uno dei crocifissi di Arminius, tranne Mr. Harker che aveva il suo. E tutti noi — eccetto Harker, del quale tutti noi eravamo riluttanti ad avere fiducia — portavamo in tasca dei pezzi dell’ostia consacrata di Arminius allo scopo di rendere le casse inabitabili per il nostro nemico (in questo modo, anche se Dracula era a conoscenza dei pensieri di Jonathan, non sarebbe stato avvertito in anticipo delle nostre reali intenzioni).

Inoltre, Arthur portava un fischietto d’argento intorno al collo per chiamare in aiuto i cani, se ce ne fosse stato bisogno, poiché nessuno di noi aveva dubbi che quel vecchio edificio fosse pieno di topi.

John utilizzò la sua abilità chirurgica e un vecchio grimaldello per farci entrare dall’entrata principale e noi ci muovemmo rapidamente all’interno: ben presto scoprimmo su un tavolo nel corridoio un anello con delle chiavi. Le diedi a Jonathan, e lo pregai di condurci nella cappella, poiché lui conosceva abbastanza la casa per trovare la strada.

Nella mia vita, non ho mai visto tanta polvere raccolta in un solo posto; infatti, il pavimento era sepolto sotto un tappeto di polvere e sporcizia spesso parecchi pollici, così che non sapevo dire se stavo camminando sulla terra, sulla pietra o sul legno.

Nonostante il nostro desiderio di essere il più silenziosi possibile per timore che l’Impalatore potesse abbandonare la sua caccia presto, sia Arthur che John scoppiarono in un attacco di tosse per le nuvole di polvere alzate dai nostri passi che ci solleticavano la gola. Anche le pareti erano coperte da uno strato grigio e ornate di fitte e antiche ragnatele, molte delle quali pendevano e oscillavano languidamente dietro di noi, rotte dal peso della polvere che vi si era raccolta.

Ero sicuro che l’Impalatore se ne fosse andato, poiché la sua aura era diventata, di recente, così intensa e grande che l’avrei sentita molto vicino all’entrata. Quest’idea si rafforzò quando arrivammo alla porta di legno ad arco che conduceva alla cappella.

Dopo qualche tentativo inutile, Jonathan trovò la chiave giusta e aprì la porta.

Quando fu spalancata, il puzzo orribile della tana del Vampiro uscì fuori. Dopo tanti anni io ero avvezzo ad esso ed entrai subito, ma gli altri, dietro di me, non se l’erano aspettato, e ne furono sconvolti. Nondimeno, si sforzarono di seguirmi.

All’interno si trovava una pietosa rovina di quello che un tempo era stato un luogo di culto vasto e alto: c’erano alcune travi di legno marcio di quelli che, allora, erano stati i banchi e l’altare e, sul muro sudicio, sotto un velo di ragnatele, il contorno di ciò che, una volta, era stata una croce. Doveva essere stato un bel luogo, poiché c’erano due grandi finestre ad arco — forse in origine di vetro colorato — ma da molto tempo coperte, come tutto il resto, dallo spesso strato di polvere.

La stanza parlava fortemente di oscurità, decadenza, precarietà. Questo era già abbastanza scoraggiante da vedere, ma molto peggio fu scoprire, dopo aver contato silenziosamente, che le casse di legno sistemate in file ordinate non erano cinquanta, ma ventinove.

Ne mancavano ventuno! Mi accostai a John e gli bisbigliai di dire rapidamente a Quincey e ad Arthur di non sigillare le casse con l’ostia. Farlo avrebbe soltanto messo in allarme, circa il nostro piano, il Vampiro, che così avrebbe potuto nascondere le altre casse in maniera più accorta. John riuscì a parlare agli altri due uomini mentre Harker era distratto nel contare e nel guardarsi intorno per trovare qualche altro posto in cui le casse potevano essere nascoste. Poi diedi istruzioni a tutti di guardare attraverso la sporcizia e la polvere e di cercare qualsiasi indizio che potesse condurci dove erano state spostate le altre casse; naturalmente, John sapeva bene che ciò aveva lo scopo di cercare tracce del manoscritto e della prima chiave.

Mentre noi tutti cercavamo, percepii un improvviso cambiamento nella stanza, uno scintillio di colore indaco che mi disturbò… ma che nello stesso tempo non mi infastidiva. Nello stesso istante, Arthur e Jonathan reagirono entrambi a qualcosa nell’ombra.

«Ho pensato di vedere un volto», disse Arthur per scusarsi.

Non dissi nulla, ma mi accucciai per aprire le casse e guardare tra la polvere e le ragnatele in cerca di qualsiasi indizio riguardo al manoscritto o alla chiave. Mentre così facevo, uno degli uomini si mosse e mi si mise vicino, in attesa di parlarmi di qualcosa… o così pensai poiché, con la coda dell’occhio, vidi un paio di pantaloni e di stivali.

Alzai lo sguardo, con la bocca aperta per chiedere: Sì? Ma la domanda mi morì sulle labbra quando i miei occhi si fissarono su un uomo alto vestito di nero, con lunghi capelli d’argento e neri, e dei baffi; un uomo — no, un Vampiro — la cui pelle brillava del bianco immortale, madreperlaceo, caratteristico di quelle creature.


Vlad, pensai, fissando l’intruso, ma non dissi nulla: la sorpresa mi aveva tolto la voce. Il disappunto mi inondò come il mare più amaro; così persino l’aiuto di Arminius non era servito a nulla. Se i suoi talismani non riuscivano nemmeno a scoraggiare il Vampiro nella sua tana, allora nessuno di noi era al sicuro, e la povera Madam Mina sola nel manicomio…

Ma, mentre lo fissavo, il mio sgomento cominciò a scemare, poiché gli occhi non erano del verde scuro di quelli dell’Impalatore ma nocciola e dolci, e il suo naso non era così aguzzo, né le labbra così crudeli. In effetti, il viso non mostrava né malvagità né dissoluta sensualità, ma gentilezza mescolata a gioia e a dolore.

«Mio Dio!», bisbigliai, inconsapevole di aver avuto l’intenzione di parlare; le parole sembravano uscire da me senza l’intervento del cervello, dei denti, della lingua o delle labbra. «Mio Dio…», ripetei.

Mi guardai intorno, e vidi gli altri occupati a darsi da fare, del tutto inconsapevoli dell’immortale che stava accanto a loro. Il Vampiro era invisibile, ma io non lo ero; quando si voltò e mi fece cenno di seguirlo dietro a un angolo, obbedii, facendo del mio meglio per fare finta che mi fosse appena venuto in mente un nuovo posto dove cercare.

Una volta che fummo entrambi al riparo dalla vista degli altri, mi aprì le sue braccia e ci abbracciammo.

«Brain, mi hai reso orgoglioso», bisbigliò nelle mie orecchie. «Molto orgoglioso…».

«Arkady», bisbigliai e mi allontanai per guardarlo meglio. «Papà… Come può essere? Vent’anni fa ti lasciai cadavere nel Castello Dracula, con un palo che ti trapassava il cuore».

Si batté il petto ora intero e sorrise.

«Non lo capisco nemmeno io ma, in qualche modo, sono stato resuscitato… da chi, non lo so. Forse è stato possibile perché non sono stato decapitato». Il suo sorriso svanì e mi guardò intensamente. «Ne parlerei ancora, ma abbiamo poco tempo prima che il sole sorga, Bram. E c’è qualcosa che deve essere trovato, e rapidamente, altrimenti Vlad diventerà così potente che nessuno, nemmeno il Diavolo stesso, sarà in grado di fermarlo».

«Sì, lo so… il manoscritto».

Lui ne fu piuttosto sorpreso. «Chi te ne ha parlalo?», mi chiese.

«Arminius».

Un’ombra di sorriso apparve sul suo viso.

«Sono contento che ti aiuti lui ancora». E di nuovo, seriamente: «Vlad non ha ancora trovato la prima chiave: di questo ne sono sicuro. Se lo farà, acquisterà ancora più potere di quello che ha adesso. È qui, da qualche parte; io la cerco quando mi è possibile, ma non sono alla sua altezza di questi tempi. Probabilmente adesso arrivo a stento al tuo livello».

Sorrisi, mentre scuotevo la testa.

«Ora tornerò ad essere invisibile e parteciperò alla tua ricerca. Ma dobbiamo lavorare rapidamente, poiché non è rimasto molto tempo prima che lui ritorni». Quindi si allontanò da me e cominciò a scomparire… ma prima che la sua scomparsa fosse completa, si fermò, e con un’espressione malinconica chiese:

«Mary è ancora viva?».

Io non sono un uomo facile alle lacrime ma, di recente, ne ho versate molte. E, a quella domanda, i miei occhi si riempirono ancora.

«È al sicuro, ad Amsterdam».

Alla mia reazione, la sua espressione divenne di preoccupazione e di angoscia.

«Ma non sta bene?», chiese ancora.

«Sta morendo».

«Ah!», mormorò con un lamento, ritornando ad essere pienamente visibile, e si voltò. «Se non fosse per Vlad, la vedrei un’ultima volta…». Si raccolse ancora in sé, e poi chiese: «E il tuo bambino, Jan… so che è difficile, ma lo hai…».

«L’ho ucciso», risposi amaramente. «E, sì: Gerda da allora è impazzita».

«Riposa», disse Arkady e mi circondò con un braccio gelido.

«Riposa dolcemente e in pace, per merito tuo. Presto Gerda sarà liberata dal suo dolore; verrà il momento. Devi credere…».

Quindi mise il suo viso contro il mio collo e pianse lacrime freddissime. John sarebbe stato preso dal terrore, lo so, al vedermi permettere a un Vampiro una tale vicinanza alle mie vene, ma con Arkady non avevo paura. La mia unica preoccupazione era di non arrendermi al dolore: non lì, davanti agli altri, non lì, quando c’era del lavoro da fare.

Presto si raddrizzò e disse, sospirando:

«Sempre dolore con noi Tsepesh! Sempre dolore… Volevo tanto risparmiarti il dolore che Vlad può infliggere…».

«Proprio come io volevo risparmiare lui», dissi, indicando John, che era entrato nel nostro campo visivo. Stava lavorando volgendoci la schiena ma, anche così, Arkady lo studiò con triste affetto.

«Un altro figlio», disse meravigliandosi; non era proprio una domanda.

«Tuo nipote», confermai.

Lui mi guardò nuovamente.

«Allora dobbiamo trovare un modo per risparmiarlo, Bram. La tua vita e la mia sono distrutte, come le vite di coloro che amiamo… È abbastanza».

E, mentre ancora lo guardavo, assunse un aspetto evanescente; prima che fosse completamente svanito, bisbigliai:

«Vieni da me ancora. Al manicomio, nella proprietà qui vicino…».

Mentre mi ricomponevo e ritornavo dagli altri, udii la sua voce bisbigliarmi nell’orecchio: Li ho lasciati con una piccola distrazione…

In effetti, lo aveva fatto. Mi trovai immerso fino alle caviglie nella polvere e nei topi; in effetti, le casse, il pavimento e le pareti, erano coperti di nere creature striscianti, e i loro minuscoli occhi riflettevano il chiarore delle nostre piccole lampade con una lugubre fosforescenza. Quasi immediatamente, Arthur soffiò nel fischietto; presto apparvero tre terrier e, dopo qualche riluttanza (senza dubbio sentivano la presenza di Arkady), divennero più coraggiosi e scacciarono quell’ammasso brulicante.

Nel frattempo, la luce del sole si stava avvicinando e sembrava che noi avessimo fatto tutto il possibile per il momento. Ce ne andammo, sollevati per il fatto che nessuno di noi fosse ferito, ma molto preoccupati per le casse mancanti. Bisogna aver paura di ogni ritardo ma, almeno, Harker è in cerca delle altre casse.


3 ottobre. Il peggiore tra tutti i giorni da quando abbiamo perduto la povera Lucy.

Fino alla notte scorsa, tutto stava andando bene, e io osavo sperare. Sono contento di aver permesso ad Harker di entrare a far parte del nostro gruppo, poiché è stato una inestimabile fonte di informazioni riguardo a dove Vlad ha trasportato le casse.

Sembra che, il “conte”, abbia acquistato altre proprietà a est e a sud di Londra: a New Town, dove Whitechapel Road diventa Mile End, e a Jamaica Lane, Bermondsey. Ha anche acquistato una casa proprio nel cuore della città, a Piccadilly. Oggi andremo là e cercheremo documenti riguardo ad altre proprietà, e le loro chiavi. E forse, se il Destino lo vuole, ci imbatteremo in una “chiave” molto diversa.

Prima di ieri, Jonathan aveva completato la sua ricerca, e noi eravamo in possesso degli indirizzi necessari; Arthur e Quincey trascorsero il giorno per trovare dei cavalli in modo che ci potessimo spostare rapidamente di luogo in luogo. Domani, mi dissi, il Vampiro sarà nostro! Ero nuovamente pieno di ottimismo ma, ahimè!, nel mio sciocco desiderio di proteggere Madam Mina dal male e dalla conoscenza del male, ho trascorso poco tempo con lei… e così non ho visto l’ovvio.

Nelle ore che precedono l’alba, John è venuto di corsa nella mia cella, così sconvolto che sono immediatamente uscito dal mio rifugio per vedere cosa l’aveva tanto spaventato.

«Professore!», gridava, senza alcuna preoccupazione che qualcuno potesse sentire e sapere in quale luogo della casa mi trovavo. «Renfield sta morendo…».

Con la borsa in mano, mi precipitai con lui per vedere se potevo essere d’aiuto come medico. La porta che conduceva alla cella di Renfield era spalancata, e l’inserviente era rannicchiato dietro di lui con un’espressione di angoscia e di impotenza.

Il primo sguardo provò che John non aveva assolutamente esagerato la situazione, poiché il pover’uomo giaceva sul fianco, con il viso rivolto verso l’alto e la testa e le spalle circondate da uno scuro alone di sangue che si andava allargando. L’esame rivelò la schiena rotta e il cranio fratturato, con pezzi di osso spinti all’interno del cervello; sarebbe morto subito se non si fosse fatto qualcosa per allentale la pressione del sangue che si accumulava nel cervello.

Istintivamente, alzai lo sguardo da dove ero inginocchiato accanto all’uomo morente, e diedi uno sguardo alla finestra con le grate, dove solo di recente John aveva messo una delle croci di Arminius.

Sparita! Con voce chiara ne chiesi conto all’assistente:

«Il crocifisso sopra la finestra: dov’è?».

Dovette pensare che fossi folle o spietato, o entrambe le cose, per fare una domanda tanto apparentemente irrilevante, mentre il povero Renfield soffriva accanto alle mie ginocchia. Imbarazzato, il corpulento giovanotto lo porse a John, dicendo:

«L’ho tolto perché questa sera stava diventando pazzo cercando di saltare e di tirarlo giù; temevo che si facesse male, così sono entrato e l’ho tolto. Ha cercato di togliermelo e ha supplicato per averlo ma, dato che era tagliente…».

«È abbastanza», disse John piuttosto adirato.

Suppongo che l’assistente pensasse che noi lo sospettassimo di volerlo rubare e che ci preoccupassimo di più della proprietà di Seward che del nostro paziente che soffriva, poiché indietreggiò con un’espressione offesa.

«Mandalo via», ordinai e, allo sguardo scandalizzato che l’assistente rivolse a me e poi a John, spiegai: «Dovremo fare un buco nel cranio per allentare la pressione. Se vuoi restare…».

Ma lui era già fuori dalla porta, che chiuse dietro di sé. Dissi a John, mentre prendevo gli strumenti dalla mia borsa:

«Sarebbe opportuno trapanare. Non penso che lo salveremo ma, perlomeno, potrà passare i suoi ultimi momenti consapevole e in modo migliore».

Mentre parlavo, bussarono piano alla porta e, sia Arthur che Quincey, sbirciarono dentro. John li fece entrare; non chiesero alcuna spiegazione nel vedere la pozza di sangue e il nostro paziente orribilmente ferito.

Rimasero in piedi in silenzio e sgomenti mentre io eseguivo l’operazione, trapanando proprio sopra l’orecchio del paziente. Per il momento, andava bene; dopo qualche minuto, la pressione si alleggerì. Renfield aprì gli occhi e, del tutto lucido, chiese che gli fosse tolta la camicia di forza.

Non c’era ragione di tenerlo costretto comunque, dato che qualsiasi movimento avrebbe soltanto aumentato il dolore e accelerato la sua morte. Sebbene la fine non fosse lontana, sentii che desiderava parlare e “confessare i suoi peccati”, per così dire. Non mi dispiaceva sentirli, poiché la finestra non più sicura significava pericolo per noi tutti.

Parlò razionalmente, anche con gentilezza, in un modo che evocò la mia pietà, ma non ho mai udito delle parole che mi abbiano tanto addolorato. Il nostro Renfield era veramente stato sotto l’influenza del Vampiro e adorava il suo “Signore e Maestro”, ma era stato anche conquistato da Madam Mina, che gli aveva fatto visita due volte per cortesia; la seconda volta, proprio quel pomeriggio. Era diventata troppo pallida perché lui riuscisse a sopportarlo, disse. E aggiunse: «Mi fece impazzire sapere che Lui le aveva preso la vita».

Che momento orribile! Mentre lo diceva, nessuno di noi riuscì a reprimere un brivido.

Dracula, sentendo l’odore di Mina, era andato da lui solo qualche momento prima, quella notte, entrando con facilità una volta che il talismano era stato rimosso. E quell’uomo — quel pazzo furioso — aveva affrontato il Vampiro con le sue mani e aveva lottato per proteggere Madam Mina nell’unico modo che conosceva.

Quando ebbe finito di parlare e sospirò ricadendo nell’incoscienza, l’aria era elettrica: noi quattro non dicemmo una parola ma lasciammo quel pazzo coraggioso a morire, e corremmo nelle nostre stanze per prendere i talismani. In pochi secondi eravamo arrivati davanti alla porta della stanza di Harker, che era chiusa dall’interno.

Tutti insieme ci gettammo contro di essa ed entrammo buttandola giù. Io caddi in avanti e gli altri mi oltrepassarono, poi si fermarono improvvisamente. Cadendo, ebbi la sensazione di stare attraversando una nuvola di luccicante indaco, intensa e fredda, sebbene non così intensa come quando avevo visto il Vampiro l’ultima volta, e toccata all’interno da una traccia di bianco radioso e di un puro bagliore dorato. Ma non era Vlad, non era Vlad che mi sfiorava, ma qualcos’altro di completamente malvagio e del tutto femminile.

Passò rapidamente; la porta si chiuse con forza dietro di me quando lei se ne andò e, mentre io mi rialzavo a fatica sulle mani e le ginocchia (oh, e se fossi stato in piedi mi ci sarei lasciato cadere!), vidi…

Harker russava sul letto vicino alla finestra e sul bordo estremo del materasso, mentre sua moglie teneva il viso premuto contro il petto nudo dall’Impalatore, i cui occhi erano chiusi nell’estasi più profonda. Lei voltò la testa, soffocando, mostrando alla luce della luna la bocca e le guance scure e gocciolanti di sangue vampiresco. Quella vista mi trapassò come una lama appuntita: era la versione più crudele del rito del sangue, uno scambio sanguinario che legava completamente la vittima al predatore. Se anche lui aveva bevuto da lei, allora lei era sua.

Ma, nel mezzo del mio orrore, un pensiero mi colse: Non ci ha uditi arrivare. Non ci ha uditi arrivare. È cambiato…

Mi rimisi in piedi mentre il Vampiro, alla fine, diventava consapevole della presenza dei suoi nemici; con un rapido e potente movimento, gettò la sua vittima sul letto e balzò verso di noi. Ma prima io avevo alzato l’involto che conteneva l’ostia consacrata e sentii una forza che come un lampo si spostava dal mio cuore alle dita. Anche senza l’apporto della forza di Arminius, non ero mai stato più determinato, più concentrato, più fiducioso, in tutta la mia vita; penso che avrei potuto scacciarlo con la mia sola volontà.

Alla vista dell’involto ebbe paura — ebbe paura con uno spasimo orrendo, come se il potere che emanava da esso gli stesse bruciando la pelle! — e io mi concentrai in me stesso al punto da trovare la mia seconda vista, per cui vidi la sua aura ridotta, consumata, offuscata!

Entrambe le cose sembrarono per lui una rivelazione, poiché un’espressione di incredulità e di rabbia infernale contorse i suoi lineamenti e rese rossi come fiamme i suoi occhi verdi. Era confuso; era stato così compreso nel suo atto, che fu sorpreso da quell’improvvisa mancanza! Era accaduto soltanto di recente?

Mentre Jonathan continuava a russare, mi mossi tra gli Harker e il mostro, avanzando pian piano con l’ostia in alto finché Vlad riprese coraggio e si trasformò in una nebbia scura. In quella forma si mosse attraverso quattro guardiani armati e scomparve sotto la porta, poiché la piccola croce d’argento sopra la finestra creava una barriera che non poteva attraversare.

Immediatamente Madam Mina emise un respiro stridulo e si lasciò sfuggire un grido che lacerò lo stesso velo del Cielo.

Le parole non possono esprimere l’orrore che seguì, quando il povero Harker si svegliò, vide il sangue che sporcava il viso e il vestito di lei, e comprese ciò che era accaduto; a malapena riuscimmo a trattenerlo dall’afferrare il suo coltello — quella larga lama curva conosciuta in India come kukri — e dall’inseguire il Vampiro a piedi.

Per quanto riguarda la coraggiosa Madam Mina, lei era distrutta, non per paura personale, ma per il timore che potesse essere usata per far del male a coloro che amava. Infatti Vlad, nella sua arroganza, l’aveva tormentata crudelmente, dicendo che ora era ai suoi ordini e che sarebbe venuto il momento in cui sarebbe diventata la sua compagna Vampira e la sua aiutante… e avrebbe corrotto ognuno dei cinque uomini che ora lo stavano combattendo.

Con delicatezza la calmai e la convinsi a raccontare tutto quello che era accaduto, mentre John accendeva la lampada. Anche alla sua luce, non riuscivo a giudicare se fosse stata appena morsa e se il rito fosse stato completato, poiché lei si appoggiava contro il petto di suo marito così che i lunghi capelli neri le ricadevano in avanti, nascondendole il viso e il collo.

Quando si fu sufficientemente ricomposta, rivelò il peggio, con una voce coraggiosa che vacillò raramente: il Vampiro l’aveva morsa e lei era stata costretta a ingoiare un po’ del suo sangue. Lo scambio era stato completo, e i nostri sforzi per proteggere Madam Mina avevano avuto come conseguenza il fatto che ora per noi era perduta.

Grazie a Dio, Vlad è più debole! Anche così siamo costretti più che mai a distruggerlo, prima che possa portare a compimento la promessa fatta a Madam Mina.

E se è più debole — come io e John discutemmo in privato — può significare soltanto una cosa: che un altro immortale gli ha rubato il manoscritto. Ma chi?

Prima che Madam Mina avesse finito la sua terribile storia, si stava facendo l’alba. Tutti fummo d’accordo per vestirci e incontrarci dopo poco, onde discutere di ciò che doveva essere fatto.

Prima, naturalmente, John e io andammo ancora a controllare Renfield: era morto, pover’uomo! Pazzo o no, è morto coraggiosamente e per amore di Madam Mina, e per questo io onorerò sempre la sua memoria.

Premetti quindi il talismano della finestra nella sua mano fredda e recitai silenziosamente una preghiera per i defunti.

Quando fummo tutti vestiti e riuniti, il nostro piano divenne chiaro. Andremo in ognuno dei quattro luoghi: a Carfax, dove si trovano ventinove casse; a Mile End e a Bermondsey, che ne contengono sei, e a Piccadilly, dove ce ne sono nove. Le sigilleremo tutte con l’ostia e così provocheremo un confronto tra noi e il Vampiro. Spero nella vittoria ma, anche se l’Impalatore soccomberà, dovremo poi affrontare un nemico ancora più potente…

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