Capitolo quinto

Il diario di Abraham Van Helsing


9 maggio. Gerda si agita di più, sia durante il giorno che durante la notte. Ho cambiato le mie abitudini per adattarmi a lei, che si alza appena dopo mezzogiorno invece che nell’ora che precede il tramonto. Con mia sorpresa, spesso è più ipnotizzabile durante il tardo pomeriggio ma, a volte, l’ora della sua vulnerabilità cambia. In alcuni giorni, non entra affatto in trance.

Oggi, quando mi sono alzato e ho aperto la porta della sua stanza (poverina, ora sono costretto a tenerla sotto chiave e incatenata, per evitare che Zsuzsanna, a distanza, le comandi di fare del male a se stessa o, Dio non voglia, a mamma), era sorprendentemente vivace.

Sedeva a gambe incrociate sul letto, con la lunga camicia da notte bianca raccolta con noncuranza intorno alle cosce, mentre gesticolava verso un invisibile visitatore e chiacchierava come una ragazzina a un immaginario tè. Non riuscii a decifrare cosa stesse dicendo, anche se la cadenza cantilenante e le sibilanti indicavano chiaramente che la lingua era rumeno, una lingua che lei non palla e della quale io ho una conoscenza limitata. Ma le parole non erano completamente formate, così che l’effetto era piuttosto come ascoltare un giovane pappagallo che abbia afferrato il ritmo e l’intonazione dei discorsi del suo padrone, ma che sia ancora incapace di pronunciarli con chiarezza.

Per lo spazio di un minuto, forse due, rimasi in silenzio a osservare quella strana pantomima farfugliata. Gerda non diede segno di accorgersi di me finché, all’improvviso, si voltò per gettarmi uno sguardo di traverso, sbuffando rivolta alla sua invisibile compagnia: «Lui!». Questa volta pronunciò la paiola in chiaro e perfetto rumeno.

Ma, mentre mi sbirciava da sotto le palpebre semichiuse, i suoi occhi si aprirono lentamente, e sia il sorriso che la derisione scomparvero dal suo viso. Per il più fuggevole dei secondi, lei mi riconobbe e io riconobbi lei, e vidi il viso del mio torturato amore, di mia moglie, una prigioniera, non di lucchetti e sbarre, ma di un carceriere infinitamente più crudele: la follia.

Quella era Gerda come mi era apparsa quasi un quarto di secolo prima, con il pallido e grazioso volto di una gentildonna e gli scuri occhi sofferenti di una pazza, occhi così turbati e disperati che, quando mi guardavano da sotto una cortina scarmigliata di lunghi capelli neri (Katya li aveva lavati e spazzolati), lacrime di compassione riempivano i miei.

«Gerda», bisbigliai pieno di desiderio, e allungai la mano per toccare la sua. Ma lei si voltò, con il viso inespressivo; tutta la vivacità e l’espressione erano scomparse rapidamente, sostituite dalla vacuità che sono arrivato a odiare tanto.

Nulla di ciò che dissi riuscì a smuoverla, così mi arresi e mi dedicai a mamma per alcune ore, prima di controllare nuovamente Gerda.

Questa volta, i miei sforzi ebbero un risultato. Gerda scivolò, con grande facilità e naturalezza, in una trance ipnotica, sebbene, in certi momenti, diventasse ostinatamente muta (in particolare, alle domande «Come sta Vlad? È forte o debole?» e «Tu e lui, siete ancora intrappolati all’interno del castello?»).

Ma, mentre non voleva divulgare informazioni riguardo a Vlad, alla domanda «E tu come stai? Sei forte?», gridò con entusiasmo giovanile: «Così forte e felice come non sono mai stata in vita mia!». Al sentire ciò, il mio cuore ebbe un tuffo, ma il mio sgomento fu rapidamente vinto dalla curiosità, quando lei aggiunse: «È tutto a causa di Elisabeth…».

«Elisabeth? Chi è?».

Senza dubbio, il chi è si riferiva a quella che era venuta, ma attesi una descrizione più specifica.

Cadde in silenzio e strinse le labbra, come se fosse decisa a non rispondere; temetti che il nostro incontro fosse giunto a una fine prematura. Ma poi rispose piano: «La mia più cara amica…», e non volle dire altro sull’argomento, nemmeno se Elisabeth fosse una mortale o meno (non può esserlo, naturalmente, se è in grado di far recuperare tanto facilmente la forza a Zsuzsanna. In tutta franchezza, ciò mi terrorizza. Che tipo di immortale è, se è più potente persino dell’Impalatore? E come potrei sperare di sconfiggere una tale creatura?).

Insistetti ulteriormente.

«E ora sei in grado di lasciare il castello?».

Immediatamente — con mio sollievo — la sua espressione si rabbuiò.

«No», disse, con evidente rabbia. «Ma lo farò presto, quando andremo a Londra».

Londra! Il mio cuore cominciò a battere forte contro lo sterno come se chiedesse prepotentemente di uscire. Mio padre, Arkady, mi aveva raccontato che Vlad aveva espresso il desiderio di andare in Inghilterra circa cinquant’anni prima, a Londra, dove non è conosciuto e temuto, e c’è un numero molto più grande di potenziali vittime.

Posi alcune altre domande ma, in verità, non ricordo le risposte che diede, poiché ero troppo scosso dal sapere che Vlad e Zsuzsanna — e chiunque questa Elisabeth potesse essere — sarebbero presto fuggiti.

Così, stanotte, ho eseguito un rito formale per trovare una guida e un aiuto e, per la prima volta, ho cercato di evocare Arminius, così come uno potrebbe evocare un dio o un demonio. Con mio disappunto, lui non è apparso, e così ho eseguito nel Cerchio una magia per trovare una guida.

È chiaro che ha intenzione di partire per Londra, ma non immediatamente. Aspetterò e rimarrò all’erta in attesa di un segnale di partenza.

Ma due carte relative al rito ancora mi turbano: il Diavolo e la Sacerdotessa. La magia mi indica che vogliono dirmi qualcosa su questa misteriosa Elisabeth.

La mia mente ansiosa era concentrata su quei simboli mentre sonnecchiavo al capezzale di mamma, quando mi afferrò il sogno dell’Oscura Creatura nei boschi. Ancora una volta, c’era il mio maestro, Arminius, splendente e chiaro nella sua purezza e gentilezza, servito dal suo familiare, il lupo Archangel. Di nuovo gridai, ma non ottenni ancora nessuna risposta, nessuna consolazione, da colui che mi aveva tanto aiutato nel passato.

Poi venne il momento in cui la Grande Oscurità si avvicinò e cominciò a cambiare forma…

L’Oscurità non cambiò più da lupo a bambino, a uomo. No, questa volta si trasformò direttamente da animale in donna. E l’Oscurità si rischiarò lentamente finché la sagoma nera divenne, invece, piena di colore.

Senza parole, fissai la visione davanti a me: era quella di una donna impossibilmente bella, con i lunghi capelli ondulati che catturavano la luce del giorno come oro filato, gli occhi del blu più profondo del mare. La sua pelle era alabastro baciato dal rosa delicato dell’eterna giovinezza, quel chiarore preternaturale tanto spesso visto sul viso di Vampiri desiderosi di affascinare la preda. Sì, la sua era una bellezza che faceva piangere l’osservatore di ammirazione davanti a tanta gloria, ma io non provai una tale gioia, ma soltanto il terrore più puro.

Nel vedere il mio terrore, lei rise, gettando indietro la testa e scuotendo le onde dorate dei suoi capelli, tanto da farle brillare al sole: brillare come i suoi piccoli denti, innaturalmente bianchi. I canini non erano aguzzi come mi ero aspettato, ma di una dimensione perfettamente normale; quella consapevolezza servì soltanto ad aumentare la mia paura finché, sconvolto, gridai forte.

Mi svegliai sudato e vidi mamma che mi guardava e stringeva debolmente le coperte in uno sforzo confuso di allungare un braccio e di confortarmi.

«Bram?».

La sua voce, fragile e rotta, sembrava una parodia di quella che era stata prima della malattia, ma io mi commossi al vedere lo sguardo di riconoscimento e preoccupazione nei suoi occhi stanchi. Sono occhi radiosi, gentili, pieni d’affetto, del colore dei fiordalisi: l’opposto assoluto di quelli che appartenevano alla donna del sogno, poiché la radiosità di mamma è pura bontà. Ma, poi, mi è diventato difficile guardare a lungo dentro di essi, poiché mi guardano e non mi vedono, come se stessero guardando oltre me, l’Infinito.

«Figlio mio, stai bene?».

Parlò nel natio inglese, poiché negli ultimi mesi sembra avere difficoltà a ricordare l’olandese.

Le presi la mano fredda e sottile e la strinsi tra le mie per riscaldarla, rispondendo anch’io in inglese.

«Sto bene, mamma. Stavo solo sognando».

Il suo viso si contorse all’improvviso per il dolore e, sotto le coperte, le sue gambe si agitarono; sebbene si mordesse le labbra nello sforzo di trattenersi dal gridare, nondimeno le sfuggì un lamento. Compresi allora che era stato il suo grido, non il mio, che mi aveva svegliato. Ma lei era più preoccupata per il mio turbamento mentale che per il suo dolore fisico.

Un’altra dose di morfina sarebbe stata pericolosa; gliene avevo data una dose solo un’ora prima. Così, con molte scuse, seguii il vecchio e saggio adagio medico che riguarda gli anziani e i morenti: se sei in dubbio, esamina le viscere e la vescica. Lo feci rapidamente, grato per il fatto che sia la malattia che il sedativo alleviavano un chiaro senso di imbarazzo: per lei (era fin troppo esausta per curarsene), se non per me. Esaminare un paziente è una cosa, esaminare la propria madre è completamente un’altra.

Quello che trovai mi fece stringere il cuore, poiché seppi che avrei dovuto causarle ulteriore dolore.

«Mamma», dissi con gentilezza, «temo che ti dovrò aiutare ancora. C’è una grande quantità di feci qui, contro le tue piaghe; le dovrò togliere per te».

Con una rassegnazione quasi lucida, emise un sospiro di fastidio, poi fece uno sforzo penoso per voltarsi su un fianco.

«Fai quello che devi».

Così presi la padella e l’unguento e l’aiutai a voltarsi sul fianco: già quello solo era, per lei, tormentoso. Poi feci quanto era necessario, pregando continuamente che Dio o chiunque altro ne avesse il potere facesse in modo che le mie grosse dita divenissero sottili e piccole come quelle di Kalya. Mamma gridò in un modo che mi straziò il cuore e lottò debolmente per spingermi via.

Combattendo contro le lacrime, dissi: «Mi dispiace molto infliggerti questa umiliazione, ma ti infetteresti terribilmente se non togliessi queste feci».

Immediatamente lei gridò:

«No, no! Non le togliere o, certamente, morirai!».

Per un momento, rimasi confuso; poi lottai per trattenere una risata triste a causa della sua osservazione oscuramente comica e del tutto inconsapevole.

«Non preoccuparti, non morirò», la consolai. «Sono piuttosto robusto».

Sembrò trarre da ciò un po’ di conforto e, dopo, gridò solo due volte. Ben presto ebbi finito e decisi di darle una piccolissima dose extra di morfina; ora dorme profondamente e bene, con l’espressione rilassata e riposata di un sonno profondo e senza dolore.

Controllai rapidamente Gerda — che non denotava nessun cambiamento — poi ritornai al capezzale di mamma per assicurarmi che il suo respiro restasse forte e regolare.

E qui siedo ancora nella sedia a dondolo al suo capezzale, ascoltando il debole russare e sapendo che questo suono familiare è qualcosa che presto non udrò più. Eppure ho la sensazione di essere sempre stato seduto qui, che lo sarò sempre, e che le sue sofferenze non finiranno mai.

È chiaro che devo andare presto a Londra e portare Gerda con me, in modo da attendere là quando i Vampiri arriveranno. Non si può permettere loro di essere liberi in Inghilterra: mio Dio, le vittime là sono talmente numerose che essi non sarebbero mai scoperti… non fino a che l’intero paese fosse costituito di Vampiri! La mia responsabilità verso quel luogo supera tutte le altre, persino quella verso la mia famiglia. So questo nel mio cervello, ma il mio cuore sa che sarebbe un crimine lasciare mamma sola in questa casa, a morire in presenza di estranei.

Bionda Elisabeth, chi sei? E che possibilità ho contro qualcuno così potente, senza l’intervento di Arminius?


Il diario di Zsuzsanna Tsepesh


16 maggio. Per una volta tanto nessuna registrazione; le cose si sono stabilizzate in una monotonia abbastanza piacevole, ma è pur sempre monotonia. Giorno dopo giorno, la nostra routine è consistita nel godere liberamente durante il celestiale regno del sole, gustando a nostro piacimento l’inglese e poi, subilo dopo, godendo di una parentesi sensuale. Dopo di ciò, Elisabeth mi porta nelle sue stanze a scegliere dei vestiti dai suoi numerosi bauli e valige, e Dorka li aggiusta per me; oppure Dorka acconcia i miei capelli in uno stile alla moda (sebbene i miei capelli lisci rifiutino di tenere la minima piega, nonostante i suoi eroici sforzi); oppure Elisabeth mi istruisce nell’arte dei cosmetici. Rossetto, cipria, kajal — non avrei mai pensato che queste sciocchezze potessero aumentare ulteriormente il mio splendore immortale ma, in effetti, lo fanno. Non sono soltanto più bella che mai, ma ho l’aspetto di quella che gli inglesi chiamano la Nuova Donna: sofisticata, moderna, alla moda… e presto, spero, indipendente.

Nel pomeriggio, dormiamo insieme fra la sontuosa biancheria da letto di Elisabeth per una manciata di ore, poi ci alziamo nuovamente al tramonto. Elisabeth, obbediente, se ne va nella stanze di Vlad “a fare una visita”, poiché, apparentemente, lui vuole essere sicuro che lei trascorra poco tempo con me (anche se, talvolta, la lascia andare alcune ore prima dell’alba). Senza dubbio teme che lei mi dica troppo della verità: non sa che è troppo tardi!

Le notti sono il momento più difficile, poiché senza Elisabeth o il nostro inglese, ben poco mi aspetta oltre la noia… e la povera Dunya non ha ancora riacquistato il suo pieno vigore. Dorme tutto il giorno ed è evidente che ha bisogno di nutrirsi. Ma, ogni volta che affronto l’argomento, Elisabeth mi dice che è meglio semplicemente lasciare che la povera ragazza si riposi finché non verrà il momento per tutti noi di lasciare il castello. Sospetto che ridare la forza a Dunya metterebbe troppo alla prova i poteri di Elisabeth, sebbene lei non lo ammetta. Le piace conservare un’aura di onnipotenza e, di fatto, è molto vicina ad essere onnipotente.

Ma se lo è, perché non possiamo partire? È angoscioso restare qui, in questo palazzo in rovina, abbandonato, a pensare alle glorie di Londra! Ad ogni alba vado alla finestra aperta e tendo il braccio per il desiderio di sentire su di esso il caldo e piacevole bacio della luce del sole.

Quanto devo aspettare?

Sospiro, impaziente, scrivendo questo mentre Elisabeth e Dunya ancora giacciono addormentate nel grande letto. Sospiro e scrivo. Basta! Devo mantenere la mia sanità mentale; indugiare sulla mia prigionia servirà soltanto a tormentarmi. E così, adesso che l’inquietudine si è impossessata di me, scrivo…

Ieri mi sono svegliata al primo chiarore del mattino (che strano scrivere ancora questa parola, dopo così tanti anni) tra le braccia di Elisabeth, e ho fissato per un po’ fuori dalla finestra senza persiane mentre la luce grigia diventava di un pallido rosa (avevamo saltato il nostro sonnellino pomeridiano e così avevamo usato le ore più buie del mattino per riposare).

Dopo un po’ il mio amore si è mosso e mi ha guardato con un sorriso insonnolito, con i lunghi capelli biondi che le ricadevano in piacevole disordine sulle spalle, sulla schiena e sui seni d’avorio. Il calore del suo corpo era piacevole, essendo il mattino fresco. Così rimasi accanto a lei e indugiammo in languida conversazione sotto le coperte. Io, come sempre, chiedevo: «Per quanto tempo? Per quanto tempo?». Ed Elisabeth, come sempre rispondeva: «Presto, presto…».

Ben presto la conversazione cadde su Vlad, e l’atteggiamento di lei divenne notevolmente strano. Si mise seduta di scatto, lasciando che le coperte cadessero (sebbene l’aria del primo mattino fosse fresca) e, con le ginocchia piegate e le lunghe braccia sottili strette intorno ad esse, domandò:

«Hai parlato in precedenza del Patto che Vlad fece con la tua famiglia e con gli abitanti del paese, ma non ho ancora udito niente del Patto che lui ha, di sicuro, con l’Oscuro Signore. Che cosa ne sai?».

Al suono del nome di quell’entità — e all’intensità, dura e brillante come un diamante, dei suoi occhi fissi intensamente nei miei — rabbrividii. Ma risposi onestamente ed esaurientemente: ossia che Vlad aveva offerto all’Oscuro Signore il figlio maggiore di ogni generazione della sua famiglia, che un sacrificio veniva richiesto a ogni generazione per procacciare una rinnovata immortalità a Vlad, e che, nel 1842, mio fratello Arkady aveva (sia come mortale che poi come Vampiro) opposto resistenza nell’espletare il malvagio servizio di Vlad. La seconda morte di Arkady — quella come Vampiro — avrebbe dovuto portare all’immediata distruzione di Vlad, ma non era stato così, perché mio fratello aveva lasciato dietro di sé un erede, che sua moglie, Mary, aveva nascosto. Fino a quando l’erede viveva e restava una possibilità che Vlad potesse consegnare l’anima di costui all’Oscuro Signore al posto di quella di Arkady, Vlad sarebbe sopravvissuto.

La debolezza di Vlad era causata da questo erede — il cui nome era stato cambiato ad opera di sua madre, da Stefan Tsepesh in Abraham Van Helsing, quando lei era fuggita con lui in Olanda — che era stato informato da suo padre, Arkady, della verità sulla sua eredità. E così Arkady aveva istruito Van Helsing nell’orribile arte di uccidere i Vampiri.

Ma Van Helsing, un semplice mortale, non era riuscito ad eguagliare la forza di Vlad, e i suoi sforzi di distruggere il Principe di Valacchia erano falliti miseramente: così il mio caro fratello era morto.

Comunque, il malvagio Van Helsing ben presto aveva scoperto un’altra terribile verità: ossia che, distruggendo altri Vampiri (quelli delle vittime di Vlad non erano stati distrutti nel modo giusto e, in seguito, erano tornati in vita), i poteri di Vlad venivano gradualmente minati. Così, nel corso degli ultimi due decenni dell’attività assassina di Van Helsing, Vlad e io siamo diventati sempre più deboli, fino a diventare i patetici resti che Elisabeth aveva salutato al suo arrivo.

Lei ascoltò affascinata e attenta e, quando ebbi finito, aggiunse:

«È evidente che Van Helsing si stava preparando a venire qui per uccidervi entrambi. Vlad è troppo sospettoso per fidarsi di qualcuno, e meno che mai di me; per lui, chiedere il mio aiuto significa che era terrorizzato dalla morte… Ma che c’è, mia cara! Perché queste improvvise e tristi lacrime?».

Ero completamente sopraffatta dal dolore ai ricordi che mi avevano assalito nel raccontare quella triste storia, e piansi ancora più forte quando lei sollevò una mano e mi asciugò teneramente le lacrime. Singhiozzando, dissi:

«Vent’anni fa ero sola, terribilmente sola, dato che Vlad mi aveva ingannato, e così avevo preso il bambino di Van Helsing, Jan, come mio immortale compagno. Era appena un bambino, appena in grado di camminare e parlare, così dolcemente innocente… e Van Helsing lo ha ucciso!».

Lei mi strinse a sé, dandomi dei colpetti sulle spalle come si fa per consolare un bambino che piange, poi si allontanò e mi tenne con gentilezza per le braccia.

«E questa bestia uccise anche il tuo povero fratello?».

Scossi la testa.

«No. Arkady morì durante uno scontro con Vlad… È qui, nel castello. Lo vuoi vedere?».

Le sue labbra, rosa e radiose come l’alba, si aprirono improvvisamente per il palese stupore.

«Il suo corpo è sopravvissuto per tutto questo tempo? Zsuzsanna, è impossibile!».

«Possibile o no, desideri vederlo?»

«Subito!», gridò, balzando con grazia dal letto e indossando la sua vestaglia con una tale foga che, prima che mi fossi alzata, mi stava già porgendo la mia.

La condussi giù per le scale e, attraverso una botola di quercia marcia e arrugginita rinforzata con il ferro, in cantina: una caverna sotterranea sotto le fondamenta di pietra del castello, un luogo che ho cominciato a considerare come il primo cerchio dell’Inferno. Anni fa, piangevo mentre trasportavo qui il corpo del mio povero fratello: un oscuro grembo di terra pieno di muffa, ornato dalle ragnatele, e coperto di polvere e di feci di topi. Oh, sì, le ossa di tanti martiri riposano nei loculi di quella grotta; le ossa di centinaia di sfortunati che servirono da cena a Vlad finché i servi non ebbero più spazio… e decisero di liberarsi delle vittime successive seppellendole nella foresta.

Il capo di quei martiri è mio fratello.

Per risparmiarmi la necessità di camminare sopra tanta morte e sofferenza, avevo sistemato il corpo di Arkady in uno dei primi loculi vuoti, quelli che non erano chiusi con pesanti sbarre di ferro arrugginito con appese catene e lucchetti che andavano in rovina. Avevo costruito per lui un catafalco di pietra, lo avevo circondato di candele, e lo avevo ricoperto con un drappo di seta nera steso sulla grezza parete di terra.

Lo trovammo lì, che giaceva proprio come l’avevo lasciato in quel terribile giorno: con un palo, così grosso che non riesco a cingerlo con una mano, che attraversava il suo cuore privo di sangue. E così bello nel riposo, con il suo naso sottile ma prominente, la fronte severa e i capelli neri, le palpebre dalle lunghe ciglia chiuse per sempre sui più gentili occhi a mandorla che io abbia mai conosciuto.

Alla sua vista, piansi senza ritegno. Infatti, sebbene il suo ultimo desiderio fosse quello di vedere distrutti me e Vlad — a quanto diceva per liberare le nostre anime (come se potessimo ascendere al Cielo invece che cadere dritti nell’Inferno) — lui ancora mi amava, e io amavo lui. I legami tra fratelli mortali non si rompono così facilmente, neppure a causa della vita dopo la morte, o per diverse fedi. Ero a tal punto sopraffatta dal dolore quando, per la prima volta, lo misi lì a riposare che, se ne fossi stata capace, avrei offerto con gioia la mia stessa esistenza in cambio del suo ritorno. Se me ne venisse data la possibilità, potrei farlo anche ora…

I miei complimenti riguardo alla sua bellezza fisica non sono dovuti al pregiudizio di una sorella; persino Elisabeth è rimasta senza fiato alla vista del suo cadavere perfetto e bello e non è riuscita a spegnere il bagliore di desiderio nei suoi occhi in modo abbastanza rapido da nasconderlo.

«Zsuzsanna!», ha esclamato piano. «Come può essere? Dovrebbe essere polvere o, per lo meno, essersi decomposto in qualche modo…».

Tenevo lo sguardo inchiodato sul mio fratello più giovane, il mio dolce piccolo Kasha, mentre rispondevo:

«Il palo ha ucciso il Vampiro, ma i poteri rigenerativi dei Morti Viventi sono così grandi che, poiché la sua testa non fu mai staccata dal corpo, egli ha mantenuto la sua forma. Sospetto che, nell’istante in cui fossero divisi, la forma fisica si dissolverebbe». Percepii nuovamente il bruciore delle lacrime mentre le immagini mi ritornavano alla mente. «Proprio come Van Helsing ha fatto senza dubbio con il mio bambino, il mio povero, piccolo Jan!».

Elisabeth mi circondò con le braccia e mi accarezzò i capelli mentre mi posava la guancia sulla spalla.

«Che tipo di bastardo è colui che è capace di uccidere il suo proprio figlio?», disse con voce rabbiosa. «Non piangere, mia cara: farò in modo che abbia la fine che si merita da lungo tempo. Sarai doppiamente vendicata perché, se Van Helsing dovesse morire, anche Vlad farà lo stesso o, piuttosto, scenderà nelle braccia dell’Oscuro Signore… o no?»

«Sì», mormorai sulla sua morbida spalla coperta di seta.

«Allora questo è quello che faremo, cara Zsuzsa. Abbiamo bisogno solo di uccidere Van Helsing per vedere Vlad distrutto».


Rassicurata ma triste, risalii con lei le scale. Sentivo un po’ di fame che mi tormentava, e mi sarebbe piaciuto andare a far visita al nostro gentiluomo inglese, ma Elisabeth divenne molto severa: recentemente avevo preteso troppo dal povero Harker e, se non gli avessi permesso un altro giorno di riposo, Vlad lo avrebbe certamente notato e avrebbe fatto qualcosa contro di noi.

Ancora lui! Qualche volta me la prendo con Elisabeth; possiede poteri veramente stupefacenti, ma si muove in punta di piedi intorno a Vlad come se fosse segretamente timorosa. Oh sì, lei dice che lo fa in funzione della sua stessa fame per la preda che verrà, e che senza quei giochi si annoierebbe dell’esistenza, ma io impazzisco di noia ogni ora che resto qui!

Mi arresi con riluttanza, e ritornammo insieme nelle nostre stanze. Sebbene cercasse energicamente di rallegrarmi con una quantità maggiore delle solite prove di vestiti e di acconciature, continuai ad essere inquieta. Infine, mi porse una piccola scatola di velluto, un dono che avrebbe voluto riservare per la nostra prima notte a Londra.

L’aprii mostrando il più grande piacere, e fui veramente commossa e compiaciuta nel trovarvi sistemati all’interno un paio di stupendi orecchini — grossi diamanti rotondi da cui pendevano delle gocce anche più grandi di zaffiri — e, per fare pendant, una collana d’oro da cui pendeva un grosso ciondolo con lo stesso disegno, un diamante che sorreggeva degli zaffiri.

Ero enormemente onorata e compiaciuta di ricevere una prova così dispendiosa dell’affetto di Elisabeth, e ancora di più lo fui allorché le chiesi quando e come fosse riuscita a comprare un tale dono e lei rispose: «Erano miei, e mi furono dati in occasione del mio matrimonio come pegno di stima. Così io li do a te con lo stesso intento».

Mi alzai e la baciai su entrambe le guance, e lei solennemente mi restituì il gesto. Fu così che cominciò nuovamente a parlare di Londra e dei diversi posti dove intendeva portarmi a fare acquisti: a Piccadilly, a Hyde Park, e a Savile Row, ma io non potei fingere interesse a lungo. La mia frustrazione per essere intrappolata in quelle mura di pietra non diminuiva e così, alla fine, mi slacciò i vestiti e mi portò a letto, dove tentò di alleviare la mia ansia in un modo più sensuale. Mentre scrivo mi viene in mente che questa è stata la prima volta che abbiamo fatto l’amore senza che il sangue fosse cosparso sui nostri corpi e senza che io mi fossi appena nutrita. Elisabeth era decisa a migliorare il mio umore, ma i suoi sforzi mancavano stranamente di passione. Quando anche il suo pallido entusiasmo cominciò palesemente a svanire, la scacciai con la mano. Offesa, se ne andò con furia… dove, non lo so, poiché persino con il mio udito soprannaturale, non riuscii a distinguere alcun suono in nessuna parte del castello. Non la vidi più fino a dopo il tramonto.

Per quel momento si era alzata la luna, grande, gialla e circondata da un radioso alone di nebbia in un cielo stellato color indaco. Era una notte calda e bella — anche più bella perché avevo la sensazione che Vlad se ne fosse andato dal castello, lasciando dietro di sé un’atmosfera di piacevolezza — e insopportabilmente romantica, specialmente ora che la mia Elisabeth se n’era andata. Prima di incontrarla, il chiarore della luna piena mi faceva dolere gli occhi a tal punto che evitavo di cacciare ma, questa notte, mi sembrava delizioso, invitante, e il biancore incandescente della luna, increspato di chiaro oro, mi ricordava la pelle e i capelli del mio amore.

Fortunatamente, nel frattempo, Dunya si era alzata dalla sua bara, e io mi distrassi dalla mia solitudine parlando con lei; la sua natura era troppo dolce per mostrarlo, ma io so che sta diventando gelosa dell’ovvio favore di Elisabeth nei miei confronti. Siedo qui con vestiti nuovi e gioielli, meravigliosamente pettinata, mentre Dunya ancora trascorre il giorno nel logoro (ma grazioso) vestito che le comperai venti anni fa a Vienna, con i suoi capelli rosso scuro intrecciati e raccolti nello stesso modo delle serve di Vlad di quattro secoli fa.

Da quando lei è entrata a far parte dei Morti Viventi, ho cercato consapevolmente di trattarla meno come serva e più come un’eguale, ma c’è, chiaramente, una distinzione di classe che non può essere infranta. Penso che, quando glielo si ricorda, si feriscano i suoi sentimenti. Che inferno sapere che si è condannate a rimanere una domestica per tutta l’eternità! Ma non c’è niente da fare.

Ad ogni buon conto, feci del mio meglio per rassicurarla. Le dissi che avevo chiesto a Vlad di portarci del cibo, che doveva arrivare molto presto. Questo la rincuorò un po’ giacché, sebbene sia un po’ più folte di quanto non fosse prima, la fame l’ha nuovamente indebolita al punto che non può andare a caccia per se stessa (anche se potesse, grazie alla sciocca magia di Vlad, si troverebbe probabilmente intrappolata all’interno del castello, come me).

Ma, proprio mentre finivo il mio racconto, Dunya si mise seduta sulla sedia e alzò il naso per assaporare l’aria.

«Sangue caldo!». Si alzò immediatamente e corse verso la porta della sua camera da letto, seguendo l’odore. «Doamna, c’è un mortale qui!».

Si precipitò fuori verso il salotto a una velocità incredibile. La seguii e la udii trattenere leggermente il respiro quando i nostri sguardi incontrarono, nello stesso momento, l’inglese.

Era seduto alla scrivania con la penna in mano, e stava scrivendo con furia su un piccolo diario al chiarore della lampada e della luna. Eravamo entrambe entrate nella stanza con tale fretta che i suoi occhi mortali non riuscirono forse a percepire il nostro ingresso, ma evidentemente era sensibile, poiché guardò, aggrottando la fronte, nella nostra direzione.

«Dormi», gli ordinai.

Subito si alzò con la penna e il diario nella mano, poi spinse goffamente il lungo divano in un chiaro riquadro di luce lunare davanti alla grande finestra, quella che guarda sul grande strapiombo e la valle della foresta molto più lontano. Subito si distese, fortunatamente sul fianco giusto, perché il russare, che cominciò immediatamente, era meno stertoroso del solito (se è veramente fidanzato, ho pietà della sua povera, futura moglie).

Dunya batté le mani e rise, felice come una bambina a cui viene dato un nuovo dono.

«Com’è bello!», esclamò.

«È un ospite di Vlad», mormorai, mentre assentivo silenziosamente al commento di Dunya. Sveglio, vestito e ben pettinato, sembrava ancora più attraente, e aveva — in giacca, camicia, pantaloni e ricci castani ben impomatati — un’aria da gentiluomo. Aveva anche un principio di barba scura, che dava ai suoi lineamenti da ragazzo una piacevole severità e faceva sembrare la mascella e le guance più magre e scavate.

Cadde così profondamente in trance che il diario e la penna, che fino a quel momento aveva gelosamente stretto in mano, caddero dalle sue dita ora rilassate sul divano. Prima che potessi reagire, il pennino cadde direttamente sul broccato vecchio di secoli e l’inchiostro venne immediatamente assorbito, lasciando una piccola macchia nera che non si sarebbe mai potuta lavare.

«Che ospiti sbadati!», esclamai. «Veramente, non hanno alcun rispetto per la proprietà altrui!».

Feci scivolare la penna nella tasca della giacca, con il pennino rivolto verso il basso. Comunque, presi il diario in mano, sperando di ingannare Dunya e farle credere che non avevo mai incontrato il garbato Mr. Harker.

«Umpf! Che razza di scrittura da gallina è mai questa? Perché non scrive in inglese?». Alzai gli occhi dal piccolo libro in direzione dell’uomo che dormiva. «Bene, lo farai, signore, da ora in avanti», comandai, con la voce di un ipnotizzatore. «Puoi pensare di stare scrivendo in questi bizzarri scarabocchi ma, in verità, scriverai tutto in perfetto inglese. In che altro modo potrei soddisfare la mia curiosità?».

Poi mi chinai e feci scivolare il diario accanto alla penna.

Quando mi alzai, guardai oltre, e vidi la povera Dunya fissare come paralizzata Harker, con le labbra dischiuse, i denti aguzzi e splendenti scoperti, e gli occhi pieni di una fame folle che era dolorosa a vedersi. Ma era ancora trattenuta da una barriera invisibile di paura.

«Non devo!», mormorava: né a me né a Harker, ma a se stessa. «Non devo! Lui mi distruggerebbe…».

Intendendo con “lui”, Vlad, naturalmente, e io aprii la bocca per dire: Non c’è più alcuna ragione di temere Vlad, cara compagna. L’uomo è tuo. Prendilo!

Ma, prima che potessi parlare, sentii, più che udire, il frusciare di gonne morbide contro la pietra, e il ticchettio di piccoli e duri tacchi. E lì, sull’uscio ad arco, stava Elisabeth. Come avevo potuto non sentire che si avvicinava… a meno che lei non si fosse, intenzionalmente, mossa in silenzio.

Con mio sollievo, non era più arrabbiata; invece, era sorridente e allegra, e guardò Harker con divertimento mentre entrava gaiamente, stringendo le gonne.

«Ah! Il nostro inglese sembra perso».

Lasciai Dunya a sbavare sul nostro inatteso ospite e mi avvicinai ad Elisabeth, che mi prese per la vita e mi baciò sulla guancia, come se la sua furiosa partenza non fosse mai avvenuta. Così osai chiederle, in inglese, che per l’ignorante Dunya avrebbe potuto essere anche cinese:

«Non sopporto più di vederla soffrire così o di temere, senza necessità, l’ira di Vlad. Per amor mio, permettile di bere senza conseguenze, come lo hai permesso a me…».

Quasi mi attendevo un nuovo scatto d’ira da parte sua o, per lo meno, un’infastidita ripetizione di come sarebbe stato meglio non chiedere troppo ai suoi poteri finché non fosse arrivato per noi il momento di partire.

Ma era di un umore tanto buono quanto non l’avevo mai vista, e sospirò soltanto con affettuoso fastidio accarezzandomi la guancia con la mano. Un angolo della sua bocca rossa si contrasse rivelando una profonda fossetta di lato mentre si voltava per guardare Harker e la sua disperata ammiratrice.

«Dunya, mia cara! Prendi l’ospite: è tuo. Solo stai attenta e non prosciugarlo fino a farlo morire, altrimenti non sarò in grado di proteggerti dall’ira di Vlad».

Tremando di desiderio e terrore, la piccola serva guardò Elisabeth con gli occhi scuri, grandi e confusi.

«Ma, doamna, se lo faccio, il Principe vedrà il segno!», mormorò.

Mi feci avanti.

«Non lo vedrà. Elisabeth può fare in modo che quei segni scompaiano».

Sul viso di lei, l’ombra lottava con la luce: l’ombra, mentre si chiedeva come io potessi saperlo, a meno che Elisabeth non l’avesse fatto per me, cosa che significava che io avevo tenuto lontana la mia leale compagna dal sangue nutriente, il sangue di quell’ospite; la luce, mentre cercava di reprimere il dubbio e l’ira per concentrarsi, invece, su quella meraviglia che le riportava la speranza, di poter bere a sazietà alla fonte di Harker senza pericolo di punizioni.

Come sempre, l’ira cedette alla fame. Lei si chinò sull’inglese, le cui palpebre si mossero; evidentemente, lui la stava guardando con la stessa piacevole attesa che lei aveva per lui poiché, mentre lei si avvicinava, le labbra dell’uomo si aprirono sensualmente per respirare più rapidamente. I sospiri di lui mi provocarono un caldo e rapido brivido lungo la spina dorsale, alla fine del quale ebbi la sensazione di essere in preda alla fame.

Lei gli si avvicinò sempre di più, con l’aspetto più erotico che io abbia mai visto, finché la sua bocca si spalancò e i suoi denti premettero con delicatezza contro la carne dell’uomo… senza penetrarvi, toccando soltanto. Non penso di averla mai vista così classicamente bella come in quel momento: le sue palpebre si abbassarono per il desiderio, e il suo profilo pallido e fragile risaltò contro quello più deciso e colorito di Harker. Un solo ricciolo di capelli le era sfuggito dalla lunga treccia ed era caduto contro la guancia di Harker, dove si arrotolò come un serpente di un colore nero rossastro.

Indugiò in quella posa e poi chiuse lentamente gli occhi, assaporando l’estasi provocata dall’attesa.

Io ero affamata, affamata, più affamata di quanto non fossi mai stata, ma consapevole che il mio desiderio non avrebbe potuto essere saziato soltanto dal sangue. Mi premetti una mano sul petto ansante e guardai il mio amore, la mia Elisabeth.

Anche lei era ebbra di desiderio, poiché la bocca le si era schiusa e, come Harker, ansimava. A differenza di Harker, i suoi occhi blu erano spalancati e apertamente fiammeggianti di lussuria.

Ma non per me, non per me. E non per il nostro inglese.

All’improvviso la gelosia sostituì il desiderio: come poteva guardare Dunya come guardava me? Come osava chiunque altro essere l’oggetto della sua passione!

Ma quell’emozione fu altrettanto rapidamente sostituita dalla sorpresa. L’ossuta spina dorsale curva in un delicato arco, Dunya sollevò le spalle in un gesto che sono arrivata a conoscere bene, poiché è quello del Vampiro che si prepara a colpire.

Nello stesso tempo si udì un rumore simile a quello del frusciare di un grande vento, che entrò impetuosamente nell’aria immobile del salotto.

«Lasciatelo!», tuonò Vlad, e Dunya gridò piena di terrore e di allarme mentre lui gettava a terra un sacco di iuta e correva verso di lei. Prima che io o Elisabeth potessimo intervenire, Vlad le prese il collo tra il pollice e il medio e l’alzò da terra, poi la gettò all’indietro con una forza così grande che lei finì contro il muro. Naturalmente rimase incolume (sebbene rimanesse a tremare nell’angolo), ma la crudele mancanza di rispetto di quel gesto mi riempì di furia. Che cosa sarebbe accaduto se fossimo state io o Elisabeth invece di una serva? Avrebbe osato toccarci?

La mia rabbia aumentò quando lui rivolse la sua ira contro noi due, gridando:

«Come osate toccarlo, voi! Come osate mettere gli occhi su di lui quando io l’ho proibito! Quest’uomo mi appartiene!».

Incapace di sopportare altro, gridai:

«Ma noi non ti apparteniamo, e siamo affamate! Che razza di tiranno è quello che fa morire di fame la sua famiglia e poi ci colpisce quando si presenta l’opportunità di salvarci? Tu dici che ti appartiene, ma lui va in giro per le nostre stanze: non l’abbiamo portato noi qui. Il fato ha deciso che ci dovessimo nutrire!».

Gli occhi di lui divennero rossi per la mia impudenza, come mi aspettavo; penso veramente che, se Elisabeth non fosse stata lì, mi avrebbe ucciso se avesse potuto. Spostava lo sguardo da me a lei, che non disse niente, ma semplicemente rispose al suo sguardo con un mezzo sorriso enigmatico e gli occhi duri, freddi, mortalmente fieri.

Penso che lo avesse spaventato, poiché Vlad rimase in silenzio per un po’ prima di rispondere lentamente:

«Harker sarà vostro tra un po’, quando io avrò finito con lui. Fino ad allora», accennò al fagotto scuro sul pavimento; un acuto grido animale provenne dall’interno ma l’odore era, senza dubbio, quello del caldo sangue umano, «fate in modo che vi basti».

E, sollevato l’inglese svenuto sulle braccia, se ne andò rapidamente come era venuto. Immediatamente risollevata, Dunya corse al sacco e allentò i cordoni; la iuta bagnata si aprì per mostrare un sudicio maschietto nudo di forse un anno, con le guance sporche bagnate di lacrime. Guardò Dunya, e immediatamente si calmò, sebbene il suo piccolo dorso sobbalzasse comicamente per i singhiozzi.

Elisabeth annusò l’aria, con i lineamenti di porcellana contorti dal disgusto e si portò un fazzoletto di pizzo alla bocca.

«Puzza…», disse.

«Ah no!» Scossi un dito verso di lei. «Ricorda Alexander Pope: tu odori. Lui puzza».

«Penso che abbia fatto la pipì nel sacco», disse Dunya, e gli sorrise, sollevata nello scoprire che non solo era sfuggita alla punizione ma avrebbe, dopotutto, avuto la sua cena (il senso dell’odorato, evidentemente, è il primo a soccombere quando la fame ha la meglio). Il bambino restituì il sorriso dolcemente e allungò le sue dita grassocce. «Un bambino…», disse ancora lei, e lo tirò su subito, girando su se stessa e facendogli il solletico sullo stomaco grasso finché lui mandò gridolini di gioia. Lei gli schioccò le dita accanto all’orecchio, poi aggiunse: «Penso che sia sordo».

Un altro dono del nostro tanto-generoso Vlad: un bambino sporco, bagnato di pipì, i cui genitori l’avevano, probabilmente, offerto con gioia.

«Ed è tutto tuo!», dissi a Dunya.

Lei non fece domande circa la mia astinenza né protestò per il dono, ma premette immediatamente le labbra sul collo di lui in un bacio affamato; il bambino rise, dimenandosi come se gli venisse fatto il solletico. Ma la sua risata divenne immediatamente un grido di terrore quando Dunya aprì la bocca e colpì. Il grido cessò subito: gli occhi del bambino divennero vitrei, e rimase immobile menti e i muscoli nella gola di Dunya lavoravano: ben presto restò senza vita tra le sue braccia. Poi lei lo cullò, tenendo il gomito sollevato sotto la testa di lui in modo da poter bere comodamente senza chinarsi troppo: come una madre che allatta il bambino.

La scena sembrava stranamente tenera ed erotica. Mi trovai a desiderare fortemente di unirmi a lei in quell’abbraccio gentile e appassionato. Un’occhiata a Elisabeth mi confermò che anche lei provava la stessa cosa, poiché fissava quei due con lo stesso intenso desiderio che aveva manifestato nei confronti di Dunya e Harker.

Ero ancora gelosa? Sì, come lo sono ora, mentre guardo Dunya che dorme circondata dalle braccia di Elisabeth nel grande letto. Ma quella sciocca emozione non è durata a lungo. Infatti, questa volta Elisabeth ha sentito il mio sguardo sopra di sé e mi ha gratificato di un lieve sorriso seducente. Stranamente, quel piccolo gesto ha fatto sì che la gelosia scomparisse e mi ha, al contrario, riempita di fuoco. Così non ho resistito quando Elisabeth mi ha preso la mano e, mettendosela sul seno appoggiandovi sopra la sua, mi ha attirato con sé al fianco di Dunya.

Non so dire ciò che mi ha posseduto, né riesco a ricordare chiaramente cosa è accaduto dopo. So solo che ci siamo abbandonate a un’orgia di sangue ed eccessi sessuali, e che io ho violato le altre due donne proprio come ognuna di loro ha violato me. Solo un’immagine mi è rimasta chiaramente presente: quella di Elisabeth nuda in ginocchio sul pavimento, che gridava «Ancora, ancora!» mentre Dunya e io tenevamo ognuna un piede del bambino morente e lo scuotevamo in modo che gli ultimi resti del suo sangue cadessero sul seno e sul viso di Elisabeth. Freneticamente lei se lo strofinò sulla pelle, come se in qualche modo potesse trarne beneficio.

Quando fu finito, Dunya era troppo appagata per muoversi, e tutte e tre eravamo appiccicose per i resti del sangue del bambino. Fu Elisabeth che la trasportò, e io mi trascinai dietro mentre andavamo nella camera di Elisabeth. Lì ci infilammo nel grande letto, dove io dormii fino all’alba.

Com’è strano tutto questo e come sono diventata confusa. Sono gelosa di Dunya e arrabbiata con Elisabeth… ma nello stesso tempo, non lo sono. So per certo solo una cosa: che la convincerò a non aspettare più, ma a portarmi immediatamente a Londra.

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