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Lunedì mattina Heather si mise in contatto coi giornalisti che le era capitato di conoscere quando i segnali alieni avevano smesso di arrivare, invitandoli a presentarsi al laboratorio di Kyle due giorni dopo, mercoledì 23 agosto 2017. Quarantotto ore di preavviso sembravano il minimo da concedere per garantirsi una partecipazione soddisfacente. Heather disse loro semplicemente di aver compiuto un passo avanti importante nella decodifica dei radiomessaggi alieni, senza fare il minimo accenno a qual genere di dimostrazione li attendesse.

Naturalmente entrambe le strutture erano già state viste da parecchie persone: cosa inevitabile, con quel continuo viavai di studenti e di addetti alle pulizie. E sebbene gli allievi estivi di Kyle (per lo meno quelli destinati a superare l’esame) fossero senza dubbio capaci di riconoscere un ipercubo dispiegato quando ne vedevano uno, nessuno si era ancora reso conto che le tracce solcanti la superficie dei pannelli rappresentavano i messaggi centauriani.

Concluso il giro di telefonate, a Heather rimanevano due giorni per godersi lo psicospazio sapendo che soltanto lei e suo marito erano in grado di accedervi.

La sua struttura l’attendeva; da Kyle, è vero, si stava più comodi, ma lei era affezionata a quella che, in onore di Becky, aveva battezzato Centaurimobile Alfa; a Kyle, ovviamente, era toccata la Centaurimobile Beta. Oltretutto anche lui avrebbe probabilmente trascorso gran parte del tempo residuo navigando nello psicospazio, e poi quel benedett’uomo aveva preso l’abitudine di lasciare la struttura parcheggiata nei posti più assurdi. Come si potesse andare a sguazzare nella mente di Gene Roddenberry prima di aver fatto visita a quella di Charles Dickens… be’, era qualcosa che Heather proprio non riusciva a capire.

Si svestì ed entrò nel cubo centrale. Agganciò la porta cubica, premette il pulsante di attivazione, lasciò che il tesseratto le si piegasse attorno.

Poi via a esplorare.

Stava diventando sempre più abile a stabilire connessioni e a scavare nei ricordi. Concentrarsi su una citazione famosa era spesso sufficiente a far emergere, dalla mente di qualcuno, i ricordi di una persona illustre.

Ci mise poco a individuare il buio esagono di Sir John A. Macdonald, primo capo di governo canadese e rimase sorpresa nello scoprire che non era poi stato quel gran bevitore che la storia tramanda. Da lui traslò in Rutherford B. Hayes, diciannovesimo presidente americano, risalendo poi, attraverso influenti famiglie statunitensi, fino ad Abramo Lincoln. Tramite un riferimento a Gettysburg traslò in un contadino del luogo, dal cui punto di vista, sebbene il villico non tenesse in gran conto l’arte oratoria, gustò per intero il famoso discorso.

Fu poi la volta di Thomas Henry Huxley, il “cane da guardia di Darwin”, impegnato a distruggere il vescovo Wilberforce nella gran disputa sull’evoluzionismo.

Quindi, per non far torto a Kyle, andò ad assistere a qualche scena del Giulio Cesare rappresentato nel 1961 allo Shakespeare Festival di Stratford nell’Ontario, traslando avanti e indietro fra Lorne Greene nel ruolo di Bruto e William Shatner in quello di Marcantonio.

E anche se a rintracciarlo impiegò un po’ di più, alla fine riuscì persino ad ammirare Richard Burbage nelle prime rappresentazioni assolute di Amleto e Macbeth al Globe Theatre… attraverso gli occhi del bardo in persona appiattato fra le quinte. La pronunzia di Burbage le risultò pressoché incomprensibile, ma Heather quelle tragedie le conosceva a memoria e si godette ogni istante delle sue sfolgoranti interpretazioni.

Scegliere a caso esagoni spenti la condusse nel passato in ogni genere di tempi e luoghi, ma c’era il problema dei linguaggi, il più delle volte inintelligibili, sicché solo di rado le riuscì di capacitarsi dove o quando fosse andata a mettere il naso. Capitò in quella che doveva essere l’Inghilterra durante l’alto medioevo, in quella che sembrava la terrasanta all’epoca delle crociate, nella Cina della dinastia Liao (se poteva fidarsi delle sue approssimative nozioni di storia dell’arte), nell’antica Roma… anzi, bisognava proprio che un giorno o l’altro tornasse da quelle parti a rintracciare qualcuno presente a Pompei il 24 agosto del 79 d.C, quando il Vesuvio aveva fatto il diavolo a quattro.

E poi una ragazza azteca.

Un aborigeno australiano prima dell’arrivo dei bianchi.

Un cacciatore Inuit nelle distese ghiacciate dell’estremo nord.

Un accattone nell’India coloniale.

Una donna impegnata in un film porno.

Un uomo al funerale del proprio gemello.

Un ragazzo sudamericano che corre dietro a un pallone.

Una donna preistorica intenta a scheggiare una punta di freccia.

Una giovane atletica di servizio in un kibbutz.

Un soldato terrorizzato in trincea, nella Prima guerra mondiale.

Un bambino costretto a lavorare in schiavitù nella Singapore del miracolo economico.

Una donna morta nel dare alla luce suo figlio nel bel mezzo della prateria americana o canadese di un secolo prima.

E cento altre vite, giusto un’occhiata per ciascuna.

Continuò a navigare, provando qui, indugiando là, traendo note dalla tastiera sconfinata dell’esperienza umana. Giovane, vecchia; maschio, femmina; nera, bianca; etero, omo; intelligente, ottusa; ricca, povera; sana, malata… una gamma completa di possibilità, cento miliardi di esistenze fra le quali scegliere.

Ogni volta che riteneva di avere trovato una traccia capace di condurla a personaggi d’importanza storica, la seguiva fino in fondo.

Vide Marilyn Monroe cantare Happy Birthday a JFK… attraverso gli occhi di Jackie.

Attraverso gli occhi di John Lennon, guardò Mark Chapman premere il grilletto. E sentì anche lei un colpo al cuore, quando il proiettile giunse a segno. Attese per verificare se al momento del trapasso qualcosa abbandonasse il corpo di Lennon… ma anche fosse, quel qualcosa le rimase inavvertibile.

Vide, attraverso la barriera curvilinea del casco spaziale, la prima impronta lasciata sul suolo lunare da Neil Armstrong. Se l’era ripassato tante di quelle volte, il suo “piccolo passo per un uomo”, che una volta arrivati al dunque lo cincischiò senza farci troppo caso.

Sebbene non spiccicasse una parola di tedesco, riuscì a scovare sia Freud sia Jung. Per fortuna conosceva abbastanza bene le trascrizioni delle lezioni tenute da Freud, nel 1909, presso la Clark University di Worcester nel Massachusetts; così non le fu difficile evocare i ricordi di quel viaggio, durante il quale il grande eretico si era espresso perlopiù in inglese.

Era assai probabile che per le università s’inaugurasse un’epoca d’inaspettata e travolgente popolarità, una volta resa pubblica la scoperta della supermente. Lei, di sicuro, si sarebbe iscritta a un corso di tedesco.

Già, e perché no aramaico? Perché accontentarsi del discorso di Gettysburg, quand’era possibile ritrovarsi in prima fila al Sermone della Montagna?

L’ebbrezza dell’incredibile reso possibile.

Mentre però appagava mille curiosità, Heather sapeva bene di stare evitando la persona con cui più desiderava entrare in contatto, timorosa di quel che avrebbe potuto trovare.

Ma il momento d’incontrare suo padre, morto due mesi prima della sua nascita, era ormai giunto.

Prima, però, le ci voleva una pausa. Uscì dalla struttura e andò a cercare un bicchiere di vino per farsi coraggio.

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