Quando lasciò l’ufficio passando in corridoio, Heather rimase scossa nel vedere dalla finestra in fondo all’atrio che fuori era buio pesto. Diede un’occhiata all’orologio.
Dio santo, le undici!
Entrò nel bagno del personale femminile e si sedette sulla tazza, apprezzandone la rinfrancante solidità e meditando sull’accaduto. Il suo primo impulso sarebbe stato di rivelare a tutti quanto aveva scoperto, di correre per il campus gridando “Eureka!”
Ma sapeva di dover frenare il proprio entusiasmo. Una conquista del genere le avrebbe fruttato la cattedra non solo all’IDT, ma in qualunque università dell’orbe terracqueo. Doveva quindi rinviare l’annuncio finché non avesse saputo esattamente in che cosa si era imbattuta, non tanto però da consentire a qualcun altro di scipparle il primato. Viveva da abbastanza tempo nell’ambiente del pubblica-o-muori per sapere che scoprire le proprie carte al momento sbagliato può far la differenza fra avere il Nobel e non avere nulla.
Il vero successo sarebbe stato scoprire che cosa fosse quello strano mondo: ecco ciò che la gente avrebbe voluto sapere.
Finito che ebbe in bagno, riguadagnò il corridoio. Accidenti, com’era stanca. Eppure aveva una voglia tremenda di fare un altro viaggio… ammesso che “viaggio” fosse il termine giusto per un percorso che in effetti non portava da nessuna parte.
O invece sì? Avrebbe dovuto piazzare la sua videocamera e registrare tutto il procedimento; l’apparecchio, che apparteneva a entrambi, attualmente ce l’aveva Kyle. Forse l’ipercubo si ripiegava sul serio in una spettacolare sarabanda di effetti speciali… e forse lei davvero arrivava là dove nessuno era mai giunto prima.
Ma…
Heather fece del suo meglio per soffocare uno sbadiglio, cercando di convincersi che non era stanca morta. Ma già la sera prima aveva fatto tardi per mettere insieme la struttura, senza contare la nottata irrequieta.
Rientrando in ufficio, rimase come sempre impressionata per quanta luce e calore da quelle lampade implacabili scaturissero a inondare la stanza, e guardò con immutato stupore la verde fosforescenza infinitamente ramificata sul manufatto alieno.
Le balenò in mente lo strano vocabolo usato da Paul per definire la vernice: piezoelettrica.
Era assolutamente certa di averlo già sentito… ma in che occasione?
La mineralogia non doveva entrarci, visto che non aveva mai seguito corsi su tale materia e non conosceva nessuno che insegnasse a Geologia.
No, qualunque fosse stata la circostanza, doveva esserci di mezzo la psicologia.
Andò alla scrivania, combatté senza troppo successo contro un altro sbadiglio, e cercò il termine “piezo” sulla rete. Tempo qualche secondo, i rimandi traboccarono dal monitor. Relazioni della US Geological Survey, resoconti di svariate ditte minerarie, persino una poesia il cui autore aveva rimato “piezoelettricità” con “governativa falsità”.
C’erano anche diciassette riferimenti ai segnali alieni. Ovviamente Paul Komensky non era stato il primo ad accorgersi che una delle sostanze di cui gli alieni avevano fornito le formule era piezoelettrica. Ecco forse perché. Probabile che le fosse capitato di sentirne parlare diversi anni prima, e poi via nel dimenticatoio, visto che non era il suo campo e che nel frattempo non aveva mai avuto motivo d’interessarsi a quelle due sostanze.
E invece no. Doveva essere stato in un altro, ben preciso contesto. Ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Continuò a scorrere l’elenco, girovagando nella giungla dei rimandi…
E finalmente la trovò, l’origine di quel mezzo ricordo.
Michael Persinger. Americano renitente alla leva, come tanti altri accademici canadesi negli ultimi decenni del Ventesimo secolo. Verso la metà degli anni Novanta aveva diretto il Laboratorio di Psicofisiologia Ambientale dell’Università Laurenziana nel nord dell’Ontario; Heather c’era stata una volta per un convegno dell’American Psychological Association.
Analogamente al più celebre in assoluto fra i neuroscienziati canadesi, Wilder Penfield, anche Persinger era partito dalla ricerca di elettroterapie per disturbi come l’epilessia, la depressione, i dolori cronici.
Egli costruì nel suo laboratorio una camera insonorizzata entro la quale, nel corso degli anni, passarono più di cinquecento volontari. Faceva loro indossare un casco da motociclista con particolari modifiche, capace di somministrare al cervello dei soggetti impulsi elettrici a bassa intensità.
Ne risultarono effetti difformi da qualunque possibile previsione.
Con in testa il casco di Persinger, le persone subivano ogni sorta di strane esperienze: da allucinazioni extracorporee a incontri con alieni e angeli.
Persinger riteneva che il senso d’identità fosse in rapporto con le funzioni del linguaggio, normalmente situate nell’emisfero cerebrale sinistro. Gli impulsi elettrici cui sottoponeva i pazienti, interrompendo la connessione fra i due emisferi, facevano sì che ciascuna metà del cervello avvertisse la presenza di qualcos’altro o qualcun altro. In dipendenza della predisposizione psicologica individuale, e a seconda che venisse maggiormente stimolato l’uno o l’altro emisfero, la persona con indosso il casco avvertiva una presenza benevola o malevola: angeli e dèi a sinistra; demoni e alieni a destra.
Ma che c’entrava, in tutto ciò, la piezoelettricità? Il fatto è che Sudbury (sede sì della Laurenziana, ma ben più nota come città mineraria) aveva prosperato saccheggiando i resti di un meteorite di ferro-nichel sfracellatosi sul suolo canadese milioni di anni fa. Nulla di strano, quindi, che Persinger di mineralogia ne sapesse più della maggior parte degli psicologi. In pratica egli sosteneva che scariche piezoelettriche naturali, dovute alla compressione delle rocce cristalline, potevano occasionalmente provocare lo stesso identico genere d’interferenza elettrica che egli era in grado di riprodurre a piacimento nel suo laboratorio. Presunte esperienze di rapimento da parte di alieni, asseriva Persinger, andavano spiegate guardando quel che la gente aveva sotto i piedi, piuttosto che alzando gli occhi al cielo.
Dunque, se scariche piezoelettriche potevano determinare esperienze psicologiche…
E se il manufatto alieno era coperto di una vernice a base di cristalli piezoelettrici…
Allora ciò poteva spiegare l’esperienza vissuta da Heather all’interno dell’ipercubo.
Ma se si trattava solo di un’allucinazione, di una reazione psicologica a stimolazioni elettriche del cervello, come potevano, i progettisti alieni, sapere che la loro macchina avrebbe funzionato sugli umani? Che ne sapevano, loro, dei terrestri? Nulla di strano, naturalmente, che avessero intercettato e decifrato segnali radio e televisivi provenienti dalla Terra, ma non avrebbero certo potuto dedurre il funzionamento del cervello umano basandosi su semplici immagini.
A meno che…
A meno che non vi fosse un’unica strada per raggiungere la consapevolezza.
Poteva darsi che da un capo all’altro dell’universo esistesse un modo solo per creare il pensiero, per dare autocoscienza alla materia vivente. Magari gli alieni non avevano avuto alcun bisogno di vedere un essere umano. Perché sapevano che la loro macchina avrebbe funzionato con qualsiasi creatura senziente.
Lasciava comunque perplessi che un’operazione tanto laboriosa avesse partorito una specie di lanterna magica, un palcoscenico per giochi di prestigio…
Ma c’era davvero il trucco?
Non poteva essere stata una reale esperienza extracorporea?
Certo, il manufatto non era schizzato via attraverso il tetto di Sid Smith per involarsi verso le stelle… però, forse, aveva svolto una funzione altrettanto importante. Consentendole di viaggiare dalla Terra ai mondi del Centauro senza neppure muoversi dal suo ufficio.
Aveva bisogno di sapere. Le serviva una prova. Doveva trovare un sistema per stabilire se si trattava di un’allucinazione oppure di un’esperienza reale.
Sebbene, in fondo al cuore, nutrisse la certezza che doveva trattarsi di un’allucinazione.
Non poteva essere altrimenti.
Prima della morte, Jung aveva sviluppato un certo interesse per la parapsicologia; nell’approfondire lo studio della sua opera, Heather si era vista quindi costretta ad affrontare l’argomento. E tutti i casi che aveva esaminato, senza alcuna eccezione, erano risultati spiegabili in termini di normale, quotidiana esperienza.
Non le restava dunque che imbarcarsi in una nuova avventura, in cerca di una risposta irrefutabile. Si volse, preparandosi a rientrare nella struttura.
Ma, che diavolo, era mezzanotte passata, e riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti…
…col bel risultato che quel dannato aggeggio non avrebbe fatto altro che continuare a rimaterializzarsi attorno alle sue stanche ossa.
Era troppo tardi persino per prendere la metro e probabilmente anche per andarsene in giro a piedi da sola. Chiamò un tassì e scese ad aspettarlo in fondo all’ampia scalinata in cemento di Sid Smith.