All’ingresso di Kyle le luci del laboratorio si accesero automaticamente.
— Buon giorno, Cita.
— Buon giorno, dottor Graves. Avrei una nuova barzelletta da proporle.
— Sentiamo.
— Allora: Giulio Cesare non era solo prozio di Augusto… era anche, secondo Frank L. Raum, figlio della Malvagia Strega dell’Ovest, e come la malvagia strega poteva essere ucciso dall’acqua. Bene, stando così le cose, Cassio e gli altri congiurati repubblicani decidono che non c’è bisogno di sbarazzarsi del Grande Giulio a botte di coltello: possono fare un lavoro di gran lunga più pulito utilizzando pistole ad acqua. Attendono quindi il giorno propizio e appena Cesare entra in Campidoglio fanno acqua senza esitazione. Cesare resiste sin quando non vede che anche il suo migliore amico si accanisce a spruzzarlo; allora, prima di cadere morto in un lago d’acqua, pronuncia le famose parole: “Tu, aquae, Brute!”. Kyle rise.
— Le è piaciuta! — esclamò Cita in tono d’immensa soddisfazione.
— Be’, è buona.
— Allora forse un giorno capirò cosa significa essere umani.
Kyle tornò serio. — Se ci riesci, fammi il favore di dirlo anche a me.
Le luci di scena campeggiavano al loro posto: tre grandi lampade piazzate su treppiedi, con lenti di Fresnel e alette schermanti per regolare il fascio. Fornivano una costante erogazione di energia alla struttura aliena, consentendole di svolgere la funzione, qualunque fosse, cui era destinata.
E finora non sembrava far altro che mantenersi rigida. Forse a un oggetto del genere si poteva anche attribuire qualche limitata prospettiva commerciale come prodotto di nicchia, però Heather non riusciva a convincersi che gli alieni avessero sprecato dieci anni solo per darle una dimostrazione pratica dell’effetto stoccafisso.
D’altra parte, forse stava proprio tutto lì ciò che gli alieni avevano inteso comunicare: un sistema per consentire ai materiali di resistere a sollecitazioni molto intense, affinché i terrestri potessero costruire navi spaziali ad alta velocità. Dopo tutto, viaggi rapidi fra la Terra e i mondi del Centauro avrebbero richiesto accelerazioni considerevoli.
Tuttavia, a pensarci bene, era un’ipotesi assurda. Se i Centauri disponevano di astronavi capaci di raggiungere anche solo mezza velocità-luce, avrebbero fatto prima a recapitare un modello funzionante che a trasmetterne il progetto. Certo, trasferire informazioni via radio sarebbe sempre costato meno che spedire oggetti fisici, però rimaneva comunque il dubbio di fondo se nella capacità d’irrigidimento andasse visto il compito essenziale dell’oggetto o soltanto un effetto secondario dell’autentica destinazione d’uso.
Seduta a contemplare la struttura, Heather tentava dunque di comprenderne il vero scopo. Pur non essendo appassionata di fantascienza quanto Kyle, un’opera come 2001: Odissea nello spazio piaceva molto anche a lei, e adesso le frullava per la testa l’ultima frase del film, quella pronunziata da Heywood Floyd a proposito del monolito: “Le sue origini e il suo scopo sono ancora un mistero assoluto”… anche se Heather sospettava da sempre che dovesse trattarsi di un velato riferimento allo scatolone ove avevano sede le Nazioni Unite.
Le dava particolarmente da riflettere la questione dei dati mancanti: quali dimensioni avrebbe dovuto effettivamente attribuire all’oggetto? Forse non era previsto che dovesse risultare così grande. La tanto strombazzata rivoluzione nanotecnologica non si era mai verificata, almeno in parte perché l’indeterminazione a livello quantico rendeva impossibile controllare macchine estremamente piccole. Magari il campo generato dalle formelle serviva appunto a superare tale difficoltà; forse i Centauri avevano inteso farle costruire una struttura grande un miliardesimo dell’attuale. Heather sospirò. Cosa gli ci sarebbe voluto a specificare chiaramente le misure di quel maledetto aggeggio?
A meno che, pensò di nuovo, non si trattasse necessariamente di una questione di scelta. La dimensione non è un concetto assoluto. Un essere umano l’avrebbe spontaneamente costruito di una certa misura; una lumaca intelligente l’avrebbe realizzato sensibilmente più piccolo; un dinosauro senziente l’avrebbe fabbricato decisamente più grande.
Ma perché confezionarlo a misura umana? Per quale motivo i Centauri avrebbero dovuto consentire ai costruttori, chiunque essi fossero, di farlo grande a piacimento?
A meno che, ovviamente, come aveva suggerito Paul, i costruttori non dovessero entrare in quell’aggeggio.
Ipotesi assurda. Come si faceva a entrarci? E poi, per andare dove, dal momento che c’erano otto cubi?
In quel cubo là, si rispose immediatamente, volgendo il pensiero al terzo cubo dal fondo, quello con altri sei cubi piazzati tutt’intorno. Era l’unico cubo speciale, l’unico a non avere alcuna faccia visibile da fuori.
Sì, proprio quello là.
Poteva sganciare uno dei cubi esterni, rimuovere il pannello sottostante, e arrampicarsi dentro. Ovviamente, se andava via la corrente e le lampade si spegnevano, ben presto l’intera costruzione sarebbe crollata e lei si sarebbe ritrovata col sedere per terra. Idea ridicola.
E poi, che cosa si aspettava? Che il marchingegno spiccasse il volo, trasportandola attraverso gli anni-luce sino ad Alpha Centauri? Roba da matti.
A ogni modo, probabilmente non sarebbe riuscita a distaccare uno dei cubi mentre era in funzione il campo d’integrità strutturale. Disattivato il quale, l’intero trabiccolo avrebbe tirato le cuoia non appena si fosse azzardata a metterci sopra un peso qualunque.
Si avvicinò alla costruzione e afferrò il cubo sporgente sul lato destro. Incredibile a dirsi, si sganciò facilmente non appena provò a tirarlo, mentre i morsetti di tenuta cadevano a terra. E Heather si accorse che anche il pannello sottostante era venuto via, come se fosse già stato in qualche modo solidale con la corrispondente faccia interna del cubo rimosso, sicché al suo sguardo appariva ora la nuda cavità del cubo centrale.
Heather riposizionò il cubo che aveva tolto, e quello si riagganciò al suo posto. Provò allora a toglierlo di nuovo, scoprendo che obbediva solo a tirarlo perpendicolarmente, senza alcun movimento laterale. Non era facilissimo, ma ci riuscì lo stesso. Ripeté la manovra un paio di volte e provò anche con altri cubi. Si riconnettevano tutti facilmente, a prescindere dall’angolatura con cui venivano ricollocati in posizione, ma per staccarsi richiedevano un pizzico di abilità. La prima volta era stata fortunata.
Rimosse nuovamente il cubo laterale e scrutò lo spazio vuoto all’interno. In effetti non sarebbe stato male averlo costruito qualche centimetro più grande… a occhio dava l’idea di andarle un tantino stretto. Non che avesse davvero intenzione di entrarci, naturalmente.
Guardò la sua scrivania, fece due passi in quella direzione, si fermò, ripartì, la raggiunse, prese un blocco di sincarta e una penna e sentendosi terribilmente sciocca scrisse: “Sono dentro il terzo cubo dell’asse orizzontale. Se spengete le lampade e schermate la luce solare, la struttura si aprirà liberandomi”.
Strappò il foglio dal blocco e con una striscia di nastro adesivo lo appiccicò al muro in bella evidenza.
Poi si riavvicinò al cubo. Be’, non ci sarebbe stato nulla di male a salirci dentro… almeno finché non riattaccava il cubo laterale. Si tolse le scarpe, sedette sul bordo della cavità centrale, tirò su le gambe, e si rannicchiò all’interno in una specie di posizione fetale.
Non accadde nulla. Ovviamente.
Però…
Che strano.
Sembrava che attraverso le pareti passasse una corrente d’aria. Tenendo il palmo della mano vicino a una delle superfici interne, Heather percepì nettamente una lieve brezzolina. La vernice piezoelettrica non si limitava dunque a garantire l’integrità strutturale: produceva aria, oppure la aspirava dall’esterno.
Incredibile.
Comunque era assai più logico che la aspirasse: gli alieni non potevano certo sapere di quale atmosfera avessero bisogno gli umani.
Heather cercò di sistemarsi verso il fondo per quanto glielo consentiva l’ambiente ristretto. Sì, era l’unica possibilità logica, ma anche la più sconsolante. Le venne da ridere. Che stupida era stata. Aveva davvero sperato che forse, ma proprio forse, gli alieni le avessero insegnato a costruire un’astronave… un’astronave che l’avrebbe portata via dalla Terra, strappata a tutti i suoi problemi, e condotta sino ad Alpha Centauri.
Se invece quell’aggeggio si limitava a pompare aria dall’esterno, come astronave non sarebbe stato un granché. Si contorse dentro la cavità sino a poggiare il naso contro la verde superficie di una parete. Il venticello si sentiva benissimo, ma l’aria non aveva alcun odore particolare.
Allora, se non era un’astronave, che diavolo poteva essere? E a che cosa serviva il campo d’integrità strutturale?
Lei lo sapeva bene quel che avrebbe dovuto fare. Doveva riattaccare il cubo laterale… ma rimanendo all’interno della cavità. Prima, però, doveva assolutamente avvertire qualcuno. Anche con quell’avviso affisso al muro potevano passare ore, o addirittura giorni, prima che qualcuno entrasse nel suo ufficio. E se fosse rimasta intrappolata?
Pensò di telefonare a Kyle. Ma scartò l’idea.
Durante l’estate non disponeva di studenti suoi, ma in giro se ne trovavano sempre. Poteva rivolgersi a uno di loro, anche se dopo, alla pubblicazione dei risultati, avrebbe dovuto per forza riconoscergli qualche merito.
Poi, naturalmente, c’era il nome più ovvio, quello che sapeva di aver lasciato volontariamente per ultimo.
Paul.
Poteva chiamare lui. Tanto avrebbe comunque partecipato al merito dell’impresa: dopotutto era stato lui a fabbricare i componenti della struttura, aiutandola poi a metterli insieme.
Forse, pur nella prospettiva pazzesca di tutta la faccenda, era una scusa perfettamente ragionevole per rivederlo. Non che la sera prima si fossero dati appuntamento o altro. Non che fossero necessari ulteriori incontri. Ecco.
Uscì senza indugio dalla cavità cubica e andò alla scrivania, stiracchiandosi nel tragitto. Sollevò il micro. — Elenco interno. Komensky, Paul.
Dopo una breve serie di modulazioni elettroniche si udì la casella vocale di Paul. — Salve. Sono il professor Paul Komensky, Ingegneria Meccanica. Al momento non posso rispondere direttamente. Per colloqui con gli studenti ricevo dalle…
Heather riabbassò il micro. Un’ala di farfalla le palpitava in petto. Certo, avrebbe voluto parlargli… tuttavia provava una punta di sollievo per non esserci riuscita.
Sentiva caldo, forse più di quanto non potesse imputare a quella illuminazione esasperata. Volse lo sguardo alla struttura, quindi al monitor del computer. La pagina web del Centro Segnale Alieno non era mutata. Dovevano esserci migliaia di ricercatori a scervellarsi sul problema di che cosa significassero i messaggi alieni, adesso che le trasmissioni sembravano terminate. Heather era sicura di avere un buon margine di vantaggio su tutti gli altri: la fortunata circostanza che Kyle avesse quel Dalí esposto in laboratorio le aveva consentito un formidabile passo avanti. Ma quanto ci sarebbe voluto prima che qualcun altro giungesse a realizzare una costruzione simile alla sua?
Per un altro buon minuto rimase immobile, esitante, combattuta.
E poi…
Poi attraversò la stanza, sollevò il cubo in precedenza rimosso e lo portò più vicino alla struttura. Prese quindi una delle impugnature a ventosa fornite da Paul e la poggiò al centro di una delle facce del cubo, quella composta di due pannelli combacianti. In cima al manico di plastica nera sporgeva una piccola pompa; la tirò con decisione, e l’attrezzo fece presa sul cubo. Provò quindi a sollevare il cubo tenendolo per l’impugnatura. Temeva che potesse cadere a pezzi, ma l’intero ammennicolo tenne invece perfettamente.
Dopo un altro attimo di esitazione si rinfilò nella cavità e poi, traendo a sé la ventosa, tirò su il cubo rimettendolo al suo posto. Quello scattò in posizione senza difficoltà, agganciandosi.
Immersa d’improvviso nelle tenebre, Heather si sentì travolgere da un’ondata di panico.
Ma l’oscurità non era assoluta. La vernice piezoelettrica brillava lievemente, con la stessa sfumatura verdognola che emettono al buio certi balocchi per l’infanzia.
Respirò a fondo. Di aria ce n’era a volontà, sebbene l’angustia del luogo trasmettesse la sensazione di un’atmosfera pesante. Tuttavia, benché fosse evidente che non rischiava di rimanere soffocata lì dentro, Heather volle accertarsi di poter abbandonare la costruzione in qualunque momento. Spalancò le mani, e premendole sul pannello cercò di spinger via il medesimo cubo che poc’anzi aveva riagganciato.
Un’altra ondata di panico la sommerse: il cubo non voleva staccarsi. Forse era rimasta imprigionata dal campo d’integrità strutturale.
Allora chiuse le mani a pugno e batté con forza contro il cubo…
… che saltò via immediatamente andando a cadere sulla moquette, la faccia con la ventosa rivolta verso l’alto.
Heather sorrise, sollevata, un po’ vergognosa d’essersi spaventata a quel modo. Probabilmente era un bene che la struttura non fosse un’astronave… se continuava così avrebbe rischiato di presentarsi al primo contatto con le mutandine bagnate.
Uscì, si stiracchiò con calma, consentì al suo cuore di ritrovare il proprio ritmo normale.
Poi fece un altro tentativo, risalendo entro la struttura e usando la ventosa per richiudere quella che fra sé aveva già battezzato “la porta cubica”.
Stavolta rimase tranquillamente seduta, lasciando ai suoi occhi il tempo di adattarsi alla semioscurità e respirando l’aria tiepida.
Osservò il disegno fosforescente tracciato sul pannello che le stava di fronte, cercando invano di cavarne qualche significato. Ovviamente non aveva modo di stabilire se aveva orientato la costruzione nel modo giusto. Avrebbe potuto metterla, come ora, di fianco, oppure…
Oppure in senso inverso. Cioè, lei poteva anche starci seduta dentro voltata dalla parte opposta. Non c’era spazio per rigirarsi direttamente lì al chiuso, quindi riaprì la porta cubica, fece un mezzo giro allungando fuori le gambe, e ultimò la manovra ritirandole dentro mentre completava la rotazione. Non appena in posizione, rivolta ora verso l’estremità corta della struttura invece che verso quella lunga, afferrò il manico della ventosa per rimettere a posto la porta cubica, situata adesso alla sua destra.
Riaprendo la porta aveva vanificato il precedente adattamento all’oscurità, quindi attese che i suoi occhi si riabituassero.
Il che, lentamente, avvenne.
Di fronte a lei stavano due cerchi. Uno continuo, l’altro diviso in otto brevi archi.
Comprese all’istante. Il cerchio ininterrotto stava evidentemente per circuito chiuso e voleva dire “Acceso”. Il cerchio frazionato, ovviamente, significava “Spento”.
Heather trasse un profondo respiro, poi cominciò a sollevare il braccio sinistro.
— Alpha Centauri, arrivo — sussurrò e premette la palma della mano sul cerchio continuo.